18 settembre 2020

18 Settembre 2020

Preti di strada o preti dell’altare?

Due giorni fa sono andata a Pompei, desideravo confessarmi presso il Santuario della Vergine Maria. Ho atteso il mio turno, ho ricevuto il sacramento della Riconciliazione e poi sono andata presso il grande altare della Basilica per ringraziare la Vergine. Lì, un’immagine ha catturato subito la mia attenzione. Cinque sacerdoti erano inginocchiati sulla balaustra, corona del rosario in mano, pregavano insieme a bassa voce. Mi sono commossa. Mi commuovo sempre quando vedo un sacerdote pregare. Non perché ho la lacrima facile – in verità anche questo, lo ammetto – ma soprattutto perché penso a questi uomini che hanno scelto di donarsi a Dio, hanno offerto la loro vita per la nostra salvezza, non hanno rincorso successi personali ma si lasciano abitare ogni giorno dalla grazia che vince anche la loro miseria. Avrei voluto dire loro se potevo unirmi alla preghiera ma mi è sembrato troppo “sfrontato” che una donna disturbasse cinque preti e quindi mi sono messa in un angolo. È vero ero andata per ringraziare il Signore per il dono della vita, il giorno successivo sarebbe stato il mio compleanno e invece quei preti mi hanno ricordato don Roberto Malgesini, la sua morte, la sua vita, il suo ministero e lo ho affidato alle braccia materne di Maria.

Uscendo dalla chiesa continuavo a pensare a don Roberto, e al contrasto che negli ultimi anni si è acuito ancora di più nel sentimento comune e forse anche all’interno della Chiesa. Chi è il vero prete: quello di strada che ruba le prime pagine dei giornali o colui che sosta in ginocchio ogni giorno ai piedi dell’altare e proprio per questo, la sua vita appare insignificante e banale e magari anche inutile perché poi la preghiera non muove di certo le corde della commozione in coloro che guardano? Ripensando all’esperienza di don Roberto trovavo una risposta nelle parole del suo amico, don Alessandro: “Prima di uscire ad incontrare le persone che aiutava passava ore in preghiera, in adorazione del Santissimo. Si svegliava prestissimo e non teneva niente per se stesso”. Mi è sembrata una bella sintesi ovvia quanto non percepita nella sua profondità.

Oggi si tende a contrapporre i preti di strada ai preti dell’altare. I primi osannati, gli altri giudicati dei poco coraggiosi. Forse è bene dirci che un prete non è soltanto quello che si dedica agli ultimi. È un grande inganno ridurre il ministero presbiterale solo a questo aspetto. Don Roberto è stato giustamente descritto ed esaltato come il martire della carità. Ed io sono certa che Dio ha preparato per lui una corona di gloria. Nello stesso tempo dovremmo però ricordare e ricordarci che un sacerdote che vive pienamente la sua vocazione è un uomo che si preoccupa di spezzare e di donare il pane della Parola, cioè quella luce che permette agli uomini di leggere la storia con gli occhi della fede, di orientare i passi verso la verità. Un prete è colui che siede nel confessionale ore ed ore ad aspettare qualcuno che trovi quel giorno il coraggio di inginocchiarsi e ritornare tra le braccia di Dio. Un prete è colui che non teme di perdere tempo fermandosi ai piedi del Tabernacolo per affidare tutto nelle mani di Chi può tutto. Un prete è colui che aiuta una donna a non sbarazzarsi del frutto del suo grembo e dona non solo parole di speranza ma concretamente indicazioni e sostegni per poterla aiutare durante il tempo della gravidanza. Un prete è colui che accompagna i genitori che hanno un figlio disabile rendendoli consapevoli che quel figlio, che appare qualche volta come una croce, in realtà è salvezza per loro e per il mondo. Un prete insomma non può essere definito solo attraverso i canoni improvvisati di una carità che il mondo non comprende perché la scambia con la semplice solidarietà. I preti di strada sono innanzitutto preti dell’altare. Non di quell’altare che li chiude in se stessi ma che li immerge nel mondo e nella storia. Anzi desiderano portare Dio nella fatica quotidiana consegnando a tutti quel pane della vita che li rende protagonisti della storia e a loro volta attori della carità. Non cadiamo nella trappola di una mentalità che li vuole ridurre a bravi attori della solidarietà.

San Giovanni Paolo II nel suo libro Dono e mistero scritto in occasione del 50° anniversario del suo sacerdozio, scriveva: “Nella mia ormai lunga esperienza, tra tante situazioni diverse, mi sono confermato nella convinzione che soltanto dal terreno della santità sacerdotale può crescere una pastorale efficace, una vera «cura animarum». Il segreto più vero degli autentici successi pastorali non sta nei mezzi materiali, ed ancor meno nei «mezzi ricchi». I frutti duraturi degli sforzi pastorali nascono dalla santità del sacerdote. Questo è il fondamento! Naturalmente sono indispensabili la formazione, lo studio, l’aggiornamento; una preparazione insomma adeguata, che renda capaci di cogliere le urgenze e di definire le priorità pastorali. Si potrebbe tuttavia asserire che le priorità dipendono anche dalle circostanze, e ogni sacerdote è chiamato a precisarle e a viverle d’intesa col suo Vescovo e in armonia con gli orientamenti della Chiesa universale. Nella mia vita ho individuato queste priorità nell’apostolato dei laici, in special modo nella pastorale familiare — campo nel quale gli stessi laici mi hanno aiutato tanto —, nella cura per i giovani e nel dialogo intenso con il mondo della scienza e della cultura. […] Una ineludibile priorità oggi è costituita dall’attenzione preferenziale per i poveri, gli emarginati, gli immigrati. Per essi il sacerdote deve essere veramente un «padre». Indispensabili sono certo anche i mezzi materiali, come quelli che ci offre la tecnologia moderna. Il segreto tuttavia rimane sempre la santità di vita del sacerdote che s’esprime nella preghiera e nella meditazione, nello spirito di sacrificio e nell’ardore missionario. Quando ripercorro con il pensiero gli anni del mio servizio pastorale come sacerdote e come vescovo, mi convinco sempre più di quanto ciò sia vero e fondamentale”.

Parole di un santo, da rispolverare e da meditare.


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