Perdono

Si può perdonare chi ha ucciso tuo padre?

di Michela Giordano

Fra Cristoforo mi è tornato alla mente, perché, qualche sera fa, in tv, hanno ridato una vecchia intervista di Sergio Zavoli a Franco Bonisoli, uno dei componenti del commando che sterminò, in via Fani, la scorta di Aldo Moro e successivamente gestì il rapimento del leader democristiano. Solo in quel momento ho capito il senso del “pane del perdono”.

Ve li ricordate i “Promessi sposi”? Quando, alle scuole medie, la prof di Italiano, che ne era innamorata, ce li propinava, io non ero entusiasta. Non capivo il motivo della sua passione per Manzoni e per quel “mattone di Renzo e Lucia” che il mio (molto sui generis) prof di latino del liceo avrebbe, poi, descritto con una frase da inserire nei bigliettini dei baci perugina: “Senza il quadro storico, sarebbe un romanzo di Grand Hotel”.

Può capitare, però, di capire anche senza capire. Non di rado, a tanti anni di distanza dagli approfondimenti che ci venivano propinati, mi tornano alla mente alcuni passaggi di quella lettura e il senso mi si svela, finalmente.

Così, l’addio ai monti, che dovremmo imparare a memoria, oggi, che vivo in una casa lontana da casa, ha tutto un altro sapore. La descrizione di don Abbondio come “un vaso di coccio tra tanti vasi di ferro”, solo adesso la comprendo fino in fondo, dopo aver conosciuto, nelle persone che ho incontrato, la pavidità, le scelte di convenienza, l’ignavia. Perfino della monaca di Monza ho modificato opinione, costretta ad una vita non scelta, privata della ricerca della felicità. I Promessi Sposi me li sta spiegando la vita.

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C’è un passaggio, che restava oscuro, il pane del perdono. In sintesi, c’è un frate, Cristoforo, del quale si delineano contorni di rettitudine, fermezza contro i potenti, a tratti di santità, del quale si scopre che, da giovane scavezzacollo, ha ucciso, per motivi di “viabilità”, un coetaneo. Ne nasce un profondo turbamento e la vocazione. Il primo atto del neo frate è di andare a chiedere perdono al fratello della sua vittima che, al cospetto di un pentimento sincero, dona al religioso, un pezzo di pane, come segno del perdono concesso. Ecco, il perdono.

Fra Cristoforo mi è tornato alla mente, perché, qualche sera fa, in tv, hanno ridato una vecchia intervista di Sergio Zavoli a Franco Bonisoli, uno dei componenti del commando che sterminò, in via Fani, la scorta di Aldo Moro e che, successivamente, gestì, fino al tragico esito, il rapimento del leader democristiano. Al cospetto delle domande, non urlate, ma evidentemente penetranti, del giornalista, Bonisoli non è riuscito a parlare, visibilmente scosso, e si è messo a piangere. In un successivo approfondimento, ha raccontato che, da anni, incontra i ragazzi delle scuole, per raccontare ciò che è stato, avendo accanto una delle figlie di Moro, Agnese. Hanno trovato modo per confrontarsi in virtù della mediazione di un gesuita, che ne ha favorito il primo incontro. Non capivo. Ma come si fa? Io auguro tutto il male possibile a chi mi frega il posto al parcheggio e questa donna riesce a stare anche solo nella stessa stanza con l’uomo che gli ha ucciso il padre?

Ho cercato spiegazioni e mi sono imbattuta nella similitudine della goccia d’ambra, dalla stessa signora Moro elaborata. Il dolore, dice, è come una goccia di ambra, che ti spinge all’isolamento, perché nessuno può comprendere come tu ti senta. 

“La vittima si rattrappisce dentro questa goccia, finché qualcosa non le rende evidente che la propria sofferenza grava anche sugli altri”. Così Agnese Moro racconta l’esplosione della sua crisi personale per uscire dalla spirale sterile del dolore: “Ad un certo punto, ti accorgi che quel dolore, quel rancore che tu provi, non è inerte, non è una cosa che resta dentro di te. Senza che tu te ne accorga, senza che tu abbia detto neanche una parola in proposito, quel nero che tu hai dentro si trasmette alle persone che hai vicino e ami di più. Ritenevo che il dolore fosse una mia prerogativa di vittima. Ma quando penso che tu hai ucciso delle persone perché volevi cambiare il mondo, ma in realtà ti accorgi che hai solo ammazzato, ecco, questo deve essere peggio”.

Moro e Bonisoli si sono incontrati a lungo, prima di “andare oltre”, imparando un vocabolario nuovo, perché ogni frase era una ferita. “Abbiamo passato un anno a smontare le parole, a capire cosa significano per l’altro, dove capire non significa farle proprie, non significa scusare niente; significa solo cercare di capire. Se vuoi ascoltare qualcuno ti devi disarmare”. Eccolo, il pane del perdono. Posso passare al prossimo capitolo.




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