Scuola di Piero Del Bene, insegnante “Sono ancora il tuo prof”. Come restare un punto di riferimento per tutta la vita 12 Agosto 2020 Lontano dalla cattedra o da dietro quello strano arredo, ho mai pensato a quale peso io abbia, volente o nolente, sulla crescita di un ragazzo o di una ragazza? “Professore!” L’appellativo mi ha stupito. Ero a passeggio, infatti, con mia moglie, per mitigare la calura pomeridiana, per i viottoli di un campeggio, lontani da casa, dal paese, dal lavoro. “Mica ce l’hanno con me?” penso e tiro dritto. Invece, la voce ritorna più insistente. Ce l’ha proprio con me: “Professore, non mi riconosce?”. Sulle prime, proprio no. Un ragazzo alto, sorridente, parzialmente coperto dalla mascherina, sulla soglia di un bar, insiste ancora. Lo guardo bene, si toglie gli occhiali oscurati, si toglie momentaneamente anche la mascherina, mi dice delle parole, il suo cognome e, finalmente, lo riconosco. È uno studente passato, alcuni anni or sono, dalla scuola nella quale lavoro. Non era un mio studente, ma per gli incarichi che allora ricoprivo, mi conosceva bene e lo conoscevo bene. Era un bravo ragazzo, forse un po’ vispo, che incontravo spesso negli ambienti scolastici. È molto contento di rincontrarmi, lo capisco da come inizia a raccontare. Ci riporta alcuni aneddoti comuni risalenti a quegli anni. Gli chiedo cosa faccia lì. Mi dice che ci lavora da alcuni anni per tutta la stagione estiva. Ha 19 anni, non lo vedo da 5. Scherziamo sulle lingue da imparare perché il campeggio è frequentato da molti stranieri. Se la cava, dice, ma il sorriso nasconde a fatica qualche difficoltà. “E quando finisci qui che farai?” Gli chiedo. “Andrò in Germania”, mi risponde, aggiungendo che lì vive la sua ragazza conosciuta un anno fa al campeggio dove lavora ora. “E con la lingua come hai fatto?”. Lo punzecchio, ricordando la vecchia familiarità che avevamo vissuto a scuola e che lui dimostra di non aver dimenticato. “Nessun problema, prof. Lei parla italiano!” Mi dice che anche un altro ragazzo, sempre del mio paese, più piccolo di lui, ma che è stato mio alunno, è in prova nello stesso bar. Leggi anche: Ciò che insegno ai miei ragazzi a scuola ha un senso nella loro vita? Ci salutiamo e nella mia mente partono molte domande. Un ricordo personale si fa luce nelle mie riflessioni. Non a caso. Durante i miei primissimi anni di insegnamento mi capitò di fare una supplenza nella scuola che avevo frequentato da ragazzo e di avere come collega il “mio” professore. Ricordo come io continuassi a chiamarlo “professore” e come lui continuasse a ripetermi di chiamarlo per nome. Non ci riuscii. Mi confidò anche una riflessione che mi guida ancora oggi. Mi disse che era contento di rivedermi a scuola come collega perché “gli architetti vedendo un palazzo possono dire di averlo costruito, gli ingegneri passando su un ponte possono raccontare di averlo progettato. Essi vedono il frutto del loro lavoro. Difficilmente un insegnante vede i frutti del proprio lavoro. Sul più bello, i ragazzi vanno via. Devono andare via”. In quelle settimane di supplenza ero il “ponte” o il “palazzo” del mio professore. Due domande meritano, però, un approfondimento. La prima: lontano dalla cattedra o da dietro quello strano arredo, ho mai pensato a quale peso io abbia, volente o nolente, sulla crescita di un ragazzo o di una ragazza? Non ho mai ragionato sufficientemente sul peso che hanno le mie parole ed i miei gesti sull’animo di un giovane che cresce e si forma. Forse sottovalutiamo troppo il nostro ruolo, mi dico. Tutti i nostri incontri contribuiscono a formarci, in particolare quelli con gli insegnanti. Con alcuni docenti ciò avviene in maniera del tutto speciale perché diventano termini di paragone, modelli da seguire o rifiutare. Tra di noi c’è chi è diventato insegnante perché ne ha incontrato qualcuno formidabile. Ma c’è anche chi ha detto “io non sarò mai così”. Nell’uno e nell’altro caso, tuttavia, quella figura ha inciso più o meno profondamente, nella formazione personale dello studente. La seconda domanda è, invece, più legata alla mia fede. Preferisco esplicitarla attraverso un’immagine biblica. L’insegnante è un poco come Mosè. Non me ne vogliano i biblisti e gli esperti di queste cose. Non voglio nemmeno essere irriverente, ma azzardo tuttavia qualche similitudine. Mi riferisco ad alcuni aspetti della vicenda di Mosè che offrono parallelismi col mio mestiere. Mi considero chiamato dal Signore ad accompagnare e guidare un popolo (qualche centinaio di ragazzi alla volta) a lasciare le cipolle dell’Egitto dell’ignoranza, la condizione servile che questa genera, ad attraversare il deserto della fatica, a volte percepita impari, persino inutile, ad imparare a liberarsi dagli idoli che, mai come nella nostra società sono accattivanti e a buon prezzo, ad imparare che il mar Rosso, apparentemente una trappola, può diventare una risorsa come ogni nostro limite umano, per poi arrivare alle porte della terra promessa e… non potervi entrare. Intendo dire che io non vi posso entrare. Il destino dell’insegnante è lavorare per qualcosa che non vedrà o non vedrà del tutto. Egli si sforza di raggiungere una meta che intravede solamente. Da lontano. È la sensazione che provo spesso agli esami, quando questi ragazzi danno il meglio di loro. In questo sforzo intravedi la terra promessa della persona bella che sono diventati. Gli esami si palesano come il monte Nebo, la montagna dalla quale, secondo una tradizione, Mosè vide la terra promessa. Non ne potrai godere, però perché stanno per partire. Altri ne beneficeranno. Altri, per tornare alla metafora del mio prof, guarderanno quel palazzo o attraverseranno quel ponte. Quanto è viva in me questa coscienza? E nei miei colleghi? Molti di questi continuano a mantenere contatti con i loro ex alunni attraverso i social: può essere questo un modo per mettere piede comunque nella loro terra promessa? Nel campeggio, un paio di giorni dopo, abbiamo incontrato anche l’altro ragazzo. Quando gli hanno detto che eravamo al tavolo, ha chiesto un permesso, è uscito dalla cucina ed è venuto a salutare. Ci hanno colpito i suoi occhi. Viene da una storia familiare complicata da una separazione che ha generato difficoltà economiche e psicologiche. Ha bisogno di lavorare. Va per i 18 anni. Vuole la patente e poi l’automobile. All’occorrenza fa il cameriere durante i matrimoni perché “pressò (sic!) lì si guadagna bene!” Io docente vorrei di più da lui, vorrei che lo muovessero ideali più alti, ma questa è la strada che lui sta percorrendo. Nella sua terra promessa guida lui. Vuole però che io gli dia l’approvazione, è come se mi chiedesse: “prof quello che sto facendo è coerente con quello che ci ha insegnato? Ho la sua benedizione?” Quegli occhi raccontano, chiedono, affermano: “prof. mi sto mettendo in gioco, sto provando a farcela, a sperimentarmi.” Sono ancora il suo prof, un punto di riferimento. Esattamente come il mio prof non divenne mai per me un collega. Quale responsabilità! Da brividi, se ci si pensa. Aiutaci a continuare la nostra missione: contagiare la famiglia della buona notizia Cari lettori di Punto Famiglia, stiamo vivendo un tempo di prova e di preoccupazione riguardo il presente e il futuro. Questo virus è entrato prepotentemente nella nostra quotidianità e ci ha obbligati a rivedere i tempi del lavoro, delle amicizie, delle Celebrazioni. Insomma, ha rivoluzionato tutta la nostra vita e non sappiamo fin dove ci porterà e per quanto tempo. Ci fidiamo delle indicazioni che provengono dal Governo e dagli organi sanitari preposti ma nello stesso tempo manifestiamo con la nostra fede che “il Signore ci guiderà sempre” (cfr Is 58,11). CONTINUA A LEGGERE Tag scuola ANNUNCIO 1 risposta su ““Sono ancora il tuo prof”. Come restare un punto di riferimento per tutta la vita” i prof sono come i contadini che all’alba, quando tutti dormono ancora, vegliano sul seme che nella terra sta silenziosamente germogliano. Lascia un commento Annulla rispostaIl tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *Commento Nome * Email * Sito web Per commentare bisogna accettare l'informativa sulla privacy. 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i prof sono come i contadini che all’alba, quando tutti dormono ancora, vegliano sul seme che nella terra sta silenziosamente germogliano.