L’intervista
Il ddl Zan & C. produrrebbe l’effetto di rovesciare l’ordine etico della società
di Ida Giangrande
In Parlamento si discute sul testo unificato che contiene il Ddl contro l’omotransfobia. Quali saranno le ricadute se dovesse diventare legge? Cosa si potrà dire e cosa no? Avremo ancora un diritto d’opinione o questo segnerà la fine del libero pensiero? Ne abbiamo parlato con Gianfranco Amato, presidente dei Giuristi per la Vita.
Il quotidiano Avvenire ha ospitato l’onorevole Alessandro Zan per spiegare che il testo unificato delle proposte di legge in materia di omotransfobia non sono liberticide e che per i cattolici non c’è nessun problema per quanto riguarda il diritto d’opinione e di credo religioso. L’hanno convinta le rassicurazioni dell’on. Zan?
In effetti l’on. Zan ha precisato che l’estensione dell’attuale art.604 bis del Codice penale non riguarderebbe la «propaganda di idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico». Sembrerebbe, quindi, che in caso di approvazione delle modifiche proposte, ai cattolici sarà possibile affermare che gli eterosessuali sono superiori agli omosessuali o, se si preferisce, che gli omosessuali sono inferiori agli eterosessuali. Sarebbe inoltre consentito, sempre secondo Zan, affermare pubblicamente che l’omosessualità è una «grave depravazione», come sancisce il punto 2357 del Catechismo della Chiesa cattolica. Bene, questo ci tranquillizza. Ciò che, invece, ci lascia alquanto perplessi è il secondo aspetto del ragionamento di Zan. Secondo il deputato del PD, infatti, ciò che verrebbe punito è la discriminazione o l’istigazione alla discriminazione basata su motivi di genere, orientamento sessuale e identità di genere, e la violenza o la provocazione alla violenza basata sempre sui predetti motivi.
Quali sono gli elementi che la lasciano perplessa circa la discriminazione e la violenza?
Ci sono due obiezioni che subito mi vengono in mente. La prima riguarda la definizione del concetto di discriminazione che la proposta di legge non chiarisce. E non è un problema da poco se si formulano alcune ipotesi che certamente interessano cattolici e relativa Chiesa. Se, per esempio, il Rettore di un Seminario diocesano decidesse di non ammettere o di espellere un seminarista perché pratica l’omosessualità, integrerebbe evidentemente un atto di discriminazione sanzionabile ai sensi dell’art. 604 bis, lett. a) del Codice penale, secondo la riforma voluta da Zan. Stessa cosa se un parroco decidesse di non dare un incarico pastorale ad un omosessuale convivente e militante per i diritti LGBT, o decidesse di non affidare i ragazzi dell’oratorio per un campo estivo ad un responsabile scout che si trovasse nelle stesse condizioni. Nell’identica situazione di troverebbe un parroco che rifiutasse la provocazione di due lesbiche conviventi e militanti per i diritti LGBT che chiedessero, per la strana coppia, una benedizione in chiesa. Discriminazione sarebbe considerata anche quella di un pasticciere cattolico che si rifiutasse di confezionare una torta “nuziale” per la cerimonia di un’unione civile tra due omosessuali. O un fotografo cattolico che rifiutasse di prestare il proprio servizio fotografico per un’analoga cerimonia. Le ipotesi potrebbero proseguire fino all’esclusione di un uomo che si “sente” donna dall’accesso ai bagni riservati alle donne, o dall’accesso agli spogliatoi femminili di una piscina. In questo caso la discriminazione avverrebbe sulla base dell’identità di genere. Sempre rispetto a questo tema, un istituto scolastico non potrebbe imporre un codice di abbigliamento ad un insegnante transessuale o persino ad un docente Drag Queen, perché il variopinto trucco e l’eccentrico costume costituirebbero un’espressione dell’identità di genere tutelata per legge. La scuola non potrebbe porre in essere una discriminazione nei confronti dell’insegnante come i genitori non potrebbero rifiutarsi di mandare i propri bimbi a scuola con una simile maestra. Raccogliere, poi, le firme per protestare contro l’istituto scolastico integrerebbe un’istigazione alla discriminazione. Né sarebbe, ovviamente, consentito ai genitori impedire che i propri figli partecipino ai cosiddetti “corsi gender”, quelli appunto basati sul concetto di identità di genere.
Quali sarebbero le pene previste per i casi da lei appena indicati nell’ipotesi in cui passasse la proposta di legge in tema di omotransfobia?
In tutti i casi summenzionati il malcapitato “discriminatore” rischierebbe la reclusione fino ad un anno e sei mesi e la multa fino a 6.000 euro. In più, al giudice verrebbe concessa la facoltà di disporre a carico del condannato «l’obbligo di rientrare nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora entro un’ora determinata e di non uscirne prima di altra ora prefissata, per un periodo non superiore ad un anno; la sospensione della patente di guida, del passaporto e di documenti di identificazione validi per l’espatrio per un periodo non superiore ad un anno, il divieto di detenzione di armi proprie di ogni genere e il divieto di partecipare, in qualsiasi forma, ad attività di propaganda elettorale per le elezioni politiche o amministrative successive alla condanna, e comunque per un periodo non inferiore a tre anni, nonché, se il condannato non si oppone, la pena accessoria dell’obbligo di prestare un’attività non retribuita in favore della collettività per finalità sociali o di pubblica utilità», a favore di organizzazioni a tutela di omosessuali e transessuali.
Quale sarebbe, invece, la seconda obiezione che si sente di sollevare rispetto al ragionamento dell’on. Alessandro Zan?
La seconda obiezione riguarda il confine incerto tra istigazione alla discriminazione e istigazione alla violenza. Se è vero che esistono già le leggi che reprimono ogni comportamento violento e persecutorio, è altrettanto vero che il mondo dell’omosessualismo militante tende a considerare qualunque manifestazione del pensiero che invita a differenziare in relazione all’orientamento sessuale e all’identità di genere, come un discorso di odio che porta con sé l’incitamento alla violenza nei confronti degli omosessuali e transessuali. L’esperienza dei cosiddetti “reati d’odio” (hate crime) introdotti soprattutto nei Paesi anglosassoni, mostra come sia oramai acquisita a livello legale e giudiziario l’equazione discriminazione/odio = violenza. Anche in Italia, come nei citati Paesi anglosassoni, l’attività volta ad impedire che gli omosessuali o i transessuali possano sposarsi o adottare figli, potrebbe essere considerata istigazione alla discriminazione e all’odio e, quindi, una forma di violenza.
Lei è stato personalmente testimone, in questi anni, di quanto possa essere labile anche in Italia questo confine?
Sì, mi è capitato più volte. Durante un confronto avuto con l’on. Ivan Scalfarotto al Liceo Scientifico Cavour di Roma il 20 ottobre 2014, per esempio, mi sono sentito apostrofare come “violento” dal suddetto parlamentare, semplicemente per il fatto di aver ribadito la mia ferma contrarietà al fatto che gli omosessuali possano sposarsi o adottare figli. In quell’occasione Scalfarotto mi ricordò che esiste anche una «violenza verbale» e che «le parole sono pietre». Recentemente un giornalista ha scritto di me la seguente frase: «Gianfranco Amato si chiede: “Sostenere pubblicamente che l’unica vera famiglia è quella fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna è omofobia?”. Ed ovviamente la risposta è sì, dato che non esiste violenza più grande di un tizio che pretende che le altre famiglie siano considerate “false” solo perché lui erge a dogma i suoi pruriti sessuali». Se a questo aggiungiamo il fatto che un magistrato della Repubblica, il dott. Marco Gattuso giudice del Tribunale di Bologna, ha definito sul suo profilo Facebook il Family Day del 20 giugno 2015 svoltosi a Roma come una manifestazione «di talebani che hanno riempito di odio una piazza», beh, sinceramente, qualche preoccupazione l’avverto. Visto, peraltro, che da quel palco io ho pure parlato.
Le pene previste nel caso di condanna in questi casi sarebbero diverse da quelle contemplate per la discriminazione e l’istigazione alla discriminazione?
Per la violenza e la provocazione alla violenza è prevista la reclusione da sei mesi a quattro anni, oltre le pene accessorie viste prima: uscita e rientro a casa entro una certa ora, ritiro di patente, passaporto, impossibilità di propaganda politica per tre anni, lavori socialmente utili in favore di associazioni LGBT, eccetera.
Quello che preoccupa sarebbe quindi una eccessiva genericità di alcuni termini?
Il problema è esattamente questo. Discriminazione, odio, violenza rischiano di diventare concetti generici che, se non esattamente definiti, lasciano un margine di discrezionalità alla vittima e al giudice del tutto inaccettabili.
Rileva altre perplessità circa il testo della proposta di legge?
Sì, più d’una. Per esempio, la previsione in favore delle asserite vittime di omotransfobia del gratuito patrocinio (lo Stato pagherà il loro avvocato) e la definizione di esse come persone «in condizione di particolare vulnerabilità».
Quest’ultima considerazione perché sarebbe un problema?
Lo sarebbe dal punto di vista procedurale. Il riconoscimento delle vittime di omotransfobia come persone «in condizione di particolare vulnerabilità» consentirebbe, infatti, di raccogliere la loro deposizione in un incidente probatorio quasi segreto, con serie limitazioni al controesame da parte dell’avvocato, oltre al riconoscimento del diritto ad opporsi alla richiesta di archiviazione e il diritto a nominare associazioni rappresentative. Come ha giustamente rilevato il dott. Giacomo Rocchi, magistrato della I Sezione Penale della Corte di Cassazione, in tal modo già si intravede una sorta di “processo speciale”, che rischierà di arrivare “confezionato” in dibattimento, limitando fortemente il diritto di difesa degli accusati.
Il testo di legge prevedrebbe anche l’istituzione di una “Giornata contro l’omofobia”, come solennità civile nazionale, al pari del “Giorno del Ricordo” o della ricorrenza internazionale del “Giorno della Memoria”. Si avverte davvero una simile necessità?
Per essere precisi la norma proposta parla testualmente di istituzione della «Giornata nazionale contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia», con espressa previsione di organizzare «cerimonie, incontri e ogni altra iniziativa utile, anche da parte delle amministrazioni pubbliche, in modo particolare nelle scuole di ogni ordine e grado», quindi anche per le scuole paritarie di ispirazione cristiana. È legittimo chiedersi quale necessità ci sia di istituire un’apposita Giornata per un fenomeno che, come si è visto, riguarda in media una ventina di persone l’anno, e non pensare di istituire, piuttosto una Giornata contro la cristianofobia (fenomeno ben più tragico e diffuso) o una Giornata nazione della famiglia.
Lei ha parlato di una ventina di casi all’anno. Da dove ha ricavato questo dato?
Sono dati ufficiali rilasciati dall’OSCAD, l’Osservatorio per la Sicurezza contro gli atti discriminatori, reperibili nel sito istituzionale del Ministero dell’Interno. Dal 2010 al 2018, infatti, sono stati segnalati 197 casi di discriminazione per orientamento sessuale e 15 casi per discriminazione dovuta ad identità di genere, per un totale, quindi, di 212. Se la matematica non è un’opinione 212 diviso otto fa 26,5 casi all’anno.
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Il nostro Paese è omofobo?
Uno dei più autorevoli e accreditati istituti americani d’indagine demoscopica, il Pew Research Center di Washington ha pubblicato uno studio intitolato The Global Divide On Homosexuality contenente i risultati di un sondaggio sull’atteggiamento verso l’omosessualità nelle principali aree geografiche del mondo. Il dato davvero interessante è che l’Italia, secondo quello studio, si colloca nella top ten, tra le dieci nazioni più gay friendly a livello mondiale, con il 74 per cento della popolazione che dichiara la propria non ostilità all’omosessualità, ed un 18 per cento che, invece, professa un atteggiamento contrario. Il nostro Paese si colloca un gradino sotto la liberalissima Gran Bretagna (76% a favore e 18% contro), anch’essa appena sotto la laicissima Francia (77% a favore e 22% contro). Se poi il clima italiano sia davvero gay friendly, almeno in politica, lo dimostra anche un dato incontrovertibile. Nel Mezzogiorno del nostro Paese, che l’immaginario collettivo dipinge come una terra culturalmente arretrata e sacca della più becera omofobia, ben due Presidenti delle due più importanti regioni, la Sicilia e la Puglia, sono stati eletti pur essendo omosessuali dichiarati e pubblicamente conviventi con i rispettivi partner. La circostanza, com’è noto, non ha impedito loro una brillante carriera culminata con l’elezione diretta da parte dei cittadini
Qualcuno ritiene che uno degli effetti inevitabili della legge proposta sia quello di incrementare l’ideologia omosessualista attraverso un’azione pervasiva nei vari settori della società. Condivide questa preoccupazione?
È una considerazione fondata. Basta leggere l’art. 6 del testo unificato, ove si prevede che l’UNAR (Ufficio Nazionale Antidiscriminazione Razziale) elabori «con cadenza triennale una strategia nazionale per la prevenzione e il contrasto delle discriminazioni per obiettivi e l’individuazione di misure relative all’educazione e istruzione, al lavoro, alla sicurezza, anche con riferimento alla situazione carceraria, alla comunicazione e ai media». Ciò significherebbe dare valore legale al documento dello stesso UNAR già elaborato nel 2013 proprio con il titolo di Strategia nazionale per la prevenzione e il contrasto delle discriminazioni, il quale si sarebbe dovuto articolare proprio secondo quattro “assi”: (I) Educazione e Istruzione, (II) Lavoro, (III) Sicurezza e Carcere, (IV) Comunicazione e Media. Mette conto evidenziare che per quanto riguarda, per esempio, il primo asse relativo all’educazione ed istruzione, la summenzionata Strategia dell’UNAR prevedeva espressamente, tra l’altro, l’obiettivo di «ampliare le conoscenze e le competenze di tutti gli attori della comunità scolastica sulle tematiche LGBT», di «garantire un ambiente scolastico sicuro e gay friendly», di «favorire l’empowerment delle persone LGBT nelle scuole, sia tra gli insegnanti che tra gli alunni», nonché di «contribuire alla conoscenza delle nuove realtà familiari, superare il pregiudizio legato all’orientamento affettivo dei genitori per evitare discriminazioni nei confronti dei figli di genitori omosessuali», anche attraverso: (a) la «valorizzazione dell’expertise delle associazioni LGBT in merito alla formazione e sensibilizzazione dei docenti, degli studenti e delle famiglie, per potersi avvalere delle loro conoscenze»; (b) il «coinvolgimento degli Uffici scolastici regionali e provinciali sul diversity management per i docenti»; (c) la «predisposizione della modulistica scolastica amministrativa e didattica in chiave di inclusione sociale, rispettosa delle nuove realtà familiari, costituite anche da genitori omosessuali» (genitore 1 e genitore 2); (d) l’«accreditamento delle associazioni LGBT, presso il Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca, in qualità di enti di formazione»;
(e) l’«arricchimento delle offerte di formazione con la predisposizione di bibliografie sulle tematiche LGBT e sulle nuove realtà familiari, di laboratori di lettura e di un glossario dei termini LGBT che consenta un uso appropriato del linguaggio».
Stesso indottrinamento nel campo del lavoro, della sicurezza e dei mezzi di comunicazione.
Si parla anche del rischio di legalizzare la prospettiva della cosiddetta ideologia gender. Cosa pensa a questo riguardo?
Il testo parla espressamente di «identità di genere». Tale concetto nasce da quel filone della filosofia post-strutturalista nordamericana, rappresentato da accademici come Judith Butler, secondo cui il genere non dipende dall’aspetto binario che si trova in natura (maschile/femminile), ma dalla volontà soggettiva di un individuo, grazie alla teoria della “performatività”. Proprio la Butler ha coniato il termine “genere performativo”. In base a tale teoria sarebbe la percezione soggettiva manifestata in un comportamento esteriore a determinare il sesso e il genere di una persona. Si tratta di una visione filosofica decostruzionista introdotta nel diritto attraverso l’espressione «identità di genere», così definita nel preambolo dei cosiddetti Principi di Yogyakarta (2007): «L’identità di genere si riferisce all’esperienza del genere profondamente sentita, interna ed individuale, che può o non può corrispondere con il sesso assegnato alla nascita, compreso il personale senso corporeo (che può implicare, se liberamente scelte, modificazioni dell’aspetto o delle funzioni del corpo con mezzi medici, chirurgici od altri) ed altre espressioni del genere, compreso l’abbigliamento, l’eloquio ed il linguaggio del corpo». In Italia esiste un documento intitolato Linee guida per una comunicazione rispettosa delle persone LGBT, redatto dall’ente governativo UNAR (Ufficio Nazionale Antidiscriminazione Razziale), appartenente al Dipartimento Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri, che così definisce l’identità di genere: «É il senso intimo, profondo e soggettivo di appartenenza alle categorie sociali e culturali di uomo e donna, ovvero ciò che permette a un individuo di dire: “Io sono uomo, io sono donna”, indipendentemente dal sesso anatomico di nascita». Questa idea è alla base della cosiddetta ideologia gender, oggetto di non poche critiche che sarà sempre più difficile continuare a sollevare nel caso in cui venissero approvate le proposte di legge in esame.
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Lei è sempre stato molto critico nei confronti dell’ideologia gender, che combatte da anni. Ma quali problemi può creare dal punto di vista legislativo?
L’idea che sta alla base di questa ideologia è che attraverso una mera autodichiarazione un individuo possa scegliere il proprio sesso, senza alcuna modificazione della sua struttura fisica che possa esternare in maniera evidente il sesso scelto. In definitiva, la percezione soggettiva deve prevalere sulla evidenza oggettiva. Ora, se questa singolare idea può, in astratto, essere presa in considerazione nell’ambito filosofico, come quello del post-strutturalismo e del decostruzionismo, nel concreto ambito giuridico può creare più di un problema. Il diritto per attuare le funzioni regolatrici che gli sono proprie necessita di situazioni, fatti e dati definitivi, determinati e soprattutto comprovabili. Ci sono casi in cui la realtà si deve poter verificare e valutare con evidenza obiettiva. Questo vale, per esempio, con il fenomeno delle cosiddette “quote rosa, ovvero quel meccanismo legislativo con cui viene garantito un mimino di partecipazione femminile in determinati ambiti come quello politico o aziendale. Ora, può invocare tale diritto un uomo che si sente donna ma che non intende sottoporsi ad alcun trattamento chirurgico per modificare il suo aspetto fisico esteriore? Un uomo con i propri genitali intatti, con le proprie caratteristiche maschili totalmente integre può pretendere che gli vengano applicate le norme sulle quote rosa, se si sente donna? E coloro che sono tenuti ad interpretare ed applicare la legge, come possono verificare e valutare una percezione soggettiva non comprovabile e indimostrabile? Altro esempio: se nel sistema legale di un Paese le donne vanno in pensione prima degli uomini, perché un uomo che si sente donna non potrebbe invocare il diritto delle donne a ritirarsi dal lavoro prima del raggiungimento dell’età prevista per gli uomini? Questa pericolosa intromissione nel campo giuridico da parte della speculazione filosofica relativa al concetto gelatinoso e arbitrario di identità di genere rischia di mettere in crisi lo stesso funzionamento del diritto.
Se esistono già tutte le tutele legali a favore delle persone omosessuali e transessuali, quali sarebbero, allora, le vere finalità che i proponenti della legge si prefiggono?
In mancanza di reali esigenze concrete, qualunque ampliamento delle garanzie giuridiche già esistenti produrrebbe l’effetto paradossale di sconvolgere e rovesciare l’ordine etico della società umana. Infatti, l’inevitabile punto di approdo di qualunque intervento normativo in materia – com’è già avvenuto in altri Paesi europei – è costituito dal matrimonio omosessuale, dall’adozione di bambini da parte di coppie omosessuali, nonché dalla loro “capacità di riproduzione” attraverso la tecnica della fecondazione artificiale eterologa. Aggiungerei, anche, che includere l’orientamento sessuale fra le considerazioni per cui è illegale discriminare può facilmente portare a ritenere l’omosessualità quale fonte positiva di diritti umani, ad esempio, in riferimento alla cosiddetta “affirmative action”, ovvero lo strumento politico che mira a ristabilire e promuovere principi di equità razziale, etnica, di genere, sessuale e sociale. In altre parole, nel momento in cui si riconosce che la categoria degli omosessuali e transessuali è stata ingiustamente discriminata al punto da meritare una privilegiata tutela giuridica, occorre rimediare agli effetti della discriminazione attraverso misure compensative, quali ad esempio quote riservate. È ciò che è successo con gli afroamericani negli USA. Gli obiettivi dell’affirmative action sono raggiunti, normalmente, attraverso quote riservate nelle assunzioni, nelle cariche istituzionali, nell’assegnazione di alloggi pubblici, nell’erogazione di servizi e così via. Già qualcuno comincia a parlare di “quote arcobaleno”, in analogia rispetto a quanto accaduto con le cosiddette “quote rosa” in materia di discriminazione femminile. Quindi lo Stato rischia di offrire un modello comportamentale più vantaggioso, in un momento di grave crisi economica.
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