Scuola

di Piero Del Bene, insegnante

Ciò che insegno ai miei ragazzi a scuola ha un senso nella loro vita?

18 Giugno 2020

Quello che apprendiamo nelle aule, serve sul serio a migliorare la nostra vita oppure resta tutto confinato tra le mura scolastiche? Me lo sono domandato nel tempo della quarantena. Quando, dunque, avremo capito come tornare tra i banchi, dovremo capire, innanzitutto, come fare in modo che la Scuola serva alla vita della Nazione. Forse è questa la sfida del domani.

Mi porto dentro il contenuto di questo articolo dalla mattina in cui i telegiornali e i mezzi di comunicazione diffusero le immagini provenienti dalle stazioni di Milano che mostravano una grande quantità di persone che si affrettavano a salire sul treno per tornare a casa, al Sud, prima della chiusura della Lombardia. Quelle immagini fecero scalpore. Si discusse molto sulla loro valenza. Si disse che queste persone rischiavano di portare il virus al Sud, si disse che tradivano la terra che fino a quel momento aveva garantito loro un lavoro ed il sostentamento. Si discusse dell’errore di aver fatto uscire troppo presto la notizia della chiusura. Si disse anche molto altro. I governatori di Puglia, Campania, Sicilia tuonarono parole di fuoco nei confronti di queste persone che tornavano anche di nascosto, di notte, come fu mostrato da alcuni video. 

 

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Va notato, per inciso, che non tutti i meridionali parteciparono a quella folle corsa verso casa. Qualcuno, infatti, ritenne giusto condividere con i lombardi anche il tempo terribile della pandemia. A me, di quella storia colpì un altro aspetto. Si tratta di una riflessione che mi riguarda in quanto formatore, insegnante e uomo di scienze. Provo a riassumerla. Le persone che “fuggivano” hanno studiato i virus a scuola, da programma, come tutti in Italia, sicuramente alla scuola primaria, sicuramente durante le lezioni di scienze in Prima Media e sicuramente nel programma di biologia agli inizi delle scuole superiori. Hanno, inoltre, studiato, in tutti gli ordini di scuola, le pandemie dal punto di vista storico. Moltissimi, se non la quasi totalità, hanno letto i Promessi Sposi ed il racconto della peste che Manzoni, con dovizie di particolari, ne fa anche in riferimento alle false credenze sulla sua diffusione e sugli “untori”, termine tristemente entrato nella lingua italiana e ritornato in auge in questi tre mesi. Ebbene, mi chiesi alla vista di quelle immagini, tutti coloro che fuggivano, rischiando di aggravare la situazione delle loro terre di origine e delle loro famiglie, non avevano imparato nulla da tutti questi “incontri” scolastici con i virus? Più in generale, mi chiesi e ancora mi chiedo, che fine fa ciò che insegniamo e studiamo a scuola? Che posto occupa nelle scelte quotidiane che tutti operiamo? Nei momenti di panico, quando maggiormente la preparazione deve servire a decidere per il meglio, deve diventare competenza, le conoscenze scolastiche come incidono sulle nostre scelte? In maniera ancora più profonda ed esistenziale per me, mi sono chiesto: ma il mio stare dietro una cattedra, contribuisce a rendere migliore la vita dei miei ragazzi? 

Gli sforzi di un insegnante serviranno nelle disparate vicende della vita di queste persone?

Sentire poi, fior di giornalisti parlare di cure ed antibiotici, in quei giorni aggravò il mio stato d’animo. Percepire lo stato di sconforto che molti pensatori trasmettevano dai televisori quando scoprivano che per quanto riguarda le armi per combattere quei virus contro i quali non esiste ancora vaccino, siamo rimasti ai livelli dei Lazzaretti e del confinamento in casa mi turbava. Ma davvero queste cose non erano note? Ma davvero nel percorso scolastico non era stata chiarita la banale differenza tra un batterio ed un virus? Ma davvero la natura di un virus è così sconosciuta? In un lampo mi sembrò di toccare con mano quanto le ricerche sugli apprendimenti, da anni, ci dicono sulla qualità del lavoro della nostra scuola.

L’ultimo reportage delle ricerche OCSE PISA è, infatti, drammatico. Esso certifica che peggiora in Italia la situazione delle competenze in Scienze nella cui misurazione esibiamo un punteggio in calo dal 2009. La tendenza evidenzia una caduta libera e il problema non è sulle competenze in termini di nozioni, ma nelle capacità di applicare il metodo scientifico. Roberto Ricci così commentava: “Dobbiamo, a partire da questi risultati, ripensare a come si insegnano le scienze. Il tema non è tanto che i nostri ragazzi non sanno, per esempio, i principi della termodinamica, sono in difficoltà nel capire perché sono importanti nella comprensione dei fenomeni che la realtà ci pone”. Hanno difficoltà anche a distinguere i dati di realtà e le evidenze scientifiche rispetto a false notizie o impressioni. E questo è un problema evidenziato soprattutto per la generazione Z, quella dei nativi digitali, nati (col cellulare in mano) tra il 1997 e il 2012, che fanno le loro ricerche in rete.
Ma questo è un problema molto più diffuso e arriva fino ai vertici dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che da questa emergenza Covid-19 esce ridimensionata di molto. Devo ancora chiedere scusa ai miei alunni per le lezioni sul coronavirus tenute il 26 febbraio, tutte tese a sminuire il fenomeno e la gravità di ciò che stava accadendo. “È poco meno di un’influenza” dissi convinto. Mi ero basato sulle indicazioni dell’OMS, che all’epoca ritenevo essere affidabili. Ma anche gli esperti di tale organizzazione, è notizia di questi giorni, stanno facendo i conti con dati che non erano per nulla “scientifici”.

E qui, sul metodo scientifico, si apre un nuovo fronte. Anch’esso è studiato a tutti i livelli scolastici. I risultati che si ottengono applicandolo vengono garantiti da passaggi lunghi e meticolosi. È questo aspetto che ha fatto la sua fortuna. Perché stupirsi allora del fatto che le cure “miracolose” scoperte in più parti d’Italia, non vengano immediatamente applicate a tutti? Un percorso serio di studi dovrebbe aver fatto comprendere che il metodo scientifico ha bisogno di tempo e di errori per essere sicuro. E invece i nostri giornali dibattono ancora sui protocolli del prof. Ascierto, della cura al plasma prelevato dalle persone guarite e di altro, insistendo per applicarla immediatamente a tutti. Non funziona così. E dovremmo saperlo al termine del nostro percorso scolastico. E che dire di coloro che sono rimasti stupiti quando hanno scoperto che per un vaccino, ottimisticamente, serve più di un anno? In questo caso è andata in crisi anche una certa visione distorta della Scienza che tende a vederla onnipotente. Ogni scienziato serio, sa che non è così, sa che la natura va affrontata con umiltà. Nelle nostre scuole questo approccio umile viene raccontato?

Ovviamente non è tutta colpa della Scuola e non è colpa nemmeno di tutta la Scuola perché al suo interno ci sono fior di professionisti, gente che dà l’anima per la crescita dei propri ragazzi e lo fa con grandi capacità. Dalla cattedra, però, mi pongo queste e non poche altre domande. Del resto, sono l’unica persona al mondo su cui detengo un po’ di potere. Posso sperare di cambiare innanzitutto me stesso e se mi dovesse capitare, come è successo, di scoprire di aver sbagliato qualcosa, potrei agire sui miei errori per emendarli. Quando, dunque, avremo capito come e quando tornare tra i banchi, dovremo capire, innanzitutto, come fare in modo che la Scuola, le attività che in essa si svolgono, servano alla vita della Nazione. Forse è questa la sfida della Scuola: mostrare la sua validità oltre l’obbligo. L’obbligo è giusto se poi si vedranno i benefici. Obbligare i ragazzi a fare una cosa inutile, a seguire per molti anni insegnamenti che non servono, si configurerebbe come puro accanimento gratuito.




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