Nel “Far West” dell’aborto farmacologico quanto prevale il diritto alla salute?

pillola

di Vito Rizzo

Nel tempo della pandemia si pretende di garantire l’aborto in ogni modo. Norlevo, Levonelle ed Ella One, più comunemente noti come “pillola del giorno dopo” e “pillola dei cinque giorni dopo”, sono gli strumenti a disposizione. Ma riconoscere il valore della maternità e tutelare la vita umana sono obiettivi anche della legge 194 e quanto sono tutelati dall’uso di questi farmaci?

L’emergenza COVID-19, l’impossibilità di frequentare normalmente i Pronto Soccorso e gli ospedali, ha scatenato le rimostranze dei pro-death che considerano violato dall’emergenza sanitaria il «diritto all’aborto». Sì, proprio così. Continua un’interpretazione a senso unico di quella che nel nostro Ordinamento prende il titolo di “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”. Proprio lei, la legge n.194/78. 

Proteste contro i medici, contro i direttori sanitari, contro il governo, i presidenti di regione, i sindaci, contro tutto e contro tutti, contro la stessa pandemia che non consente di “accedere liberamente ai trattamenti abortivi”. Non bastavano le campagne contro il sacrosanto diritto all’obiezione di coscienza, le posizioni dei filo-abortisti chiedono di fatto di superare anche le procedure di “consenso consapevole e informato”. Dovrebbe essere ricordato a questi paladini libertari della morte degli innocenti che l’art.1 della legge afferma che lo Stato, sebbene preveda le modalità per procedere legalmente all’interruzione della gravidanza, «riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio»

Tutela la vita umana sin dal suo inizio… è per questo che la battaglia ideologica vuole negare l’esistenza della vita nascente, proprio per spingere lo Stato a non assolvere alle necessarie forme di tutela previste dalla legge. Una battaglia che prende forza in quello pseudo-femminismo radicale che si mostra sempre più una convergenza tra materialismo marxista e liberismo etico. L’art.2 della legge 194 riconosce l’importanza dei consultori e attribuisce loro, tra l’altro, il compito di contribuire «a far superare le cause che potrebbero indurre la donna all’interruzione della gravidanza»: immaginiamo le fragilità psicologiche emerse durante il lockdown e pensiamo a quante vite hanno rischiato, o sono state soppresse, anche soltanto per un crollo emotivo. Gli articoli 4 e 5 della legge infatti regolamentano il percorso per una IVG più consapevole, non “frapponendo ostacoli alla volontà della donna”, come sostengono i pro-death, ma aiutando la donna a valutare con maggiore consapevolezza le conseguenze di una scelta irreparabile. 

Una scelta più autenticamente “femminista”, nella quale alla donna viene offerto di chiedere allo Stato di farsi carico di quel principio costituzionale fissato dall’art.3, che è un dovere della Repubblica, e che deve portare a «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana». Ora, in questo caso, il pieno sviluppo della persona umana è sia quello della madre ad essere tale, del padre ad essere tale, del figlio a nascere e a realizzare quel «pieno sviluppo della persona umana» che non soltanto è nel disegno divino ma anche, più laicamente, nel progetto costituzionale.

L’art.31 della Costituzione afferma in maniera esplicita che «La Repubblica […] protegge la maternità, l’infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo» e l’art.37 sancisce che «le condizioni di lavoro devono […] assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione». L’art.8 della legge 194 disciplina le modalità di esercizio dell’IVG entro i 90 giorni nelle strutture sanitarie pubbliche o private, purché «praticata da un medico del servizio ostetrico-ginecologico» che è tenuto anche a verificare «l’inesistenza di controindicazioni sanitarie». Per abortire, quindi, è chiarito che tale diritto va esercitato attraverso il controllo sanitario di un medico. Punto questo nodale alla luce del sempre più diffuso “Far West” dell’aborto farmacologico. È questo il vero scandalo, non le sale operatorie “bloccate” dall’emergenza COVID.

Rispetto ai prodotti attualmente presenti sul mercato, Norlevo, Levonelle ed Ella One, più comunemente noti come “pillola del giorno dopo” e “pillola dei cinque giorni dopo”, l’idea prevalente è che si tratti di metodi contraccettivi di nuova generazione; in realtà studi scientifici attestano che l’effetto non sia quello anti-concezionale o anti-ovulatorio ma piuttosto anti-nidatorio: impediscono cioè che la parete interna dell’utero si renda ospitale per l’embrione già fecondato. E l’embrione fecondato è riconosciuto chiaramente dal Comitato nazionale di Bioetica “essere umano”. È quanto mai urgente, quindi, che tanto la bioetica, quanto la ricerca scientifica, quanto la scienza giuridica sappiano riportare al centro del dibattito le evidenze della verità: se non quella metafisica, quanto meno quella scientifica. È questo il terreno di confronto cui chiamare a raccolta la società contemporanea: una “buona battaglia” (2Tm 4, 7) per gli “ultimi degli ultimi” come ebbe a definirli Santa Teresa di Calcutta, cui troppo spesso viene negata ogni forma di dignità.




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