Scuola

Ai ragazzi di quinta dico: “Siete preziosi! Potete farcela e ce la farete!”

di Elisabetta Cafaro

L’anno scolastico è finito. Ci sarà tutto il tempo per metabolizzare la pandemia con gli altri ragazzi, ma quelli di quinta non ci saranno più tra i banchi. A loro il saluto della prof: “Non vi scoraggiate. Se vi sentirete soffocare dal cemento, lavorate di radici”.

Finalmente inizio a gustare la gioia delle prime uscite dopo questo lungo periodo di chiusura a causa del Covid-19. Passeggiare in luoghi verdi significa riappropriarsi non solo di se stessi ma anche della bellezza del creato. La natura non manca mai di stupirmi. Sono ferma su un prato e ogni filo d’erba sembra contenere una biblioteca dedicata alla meraviglia, al silenzio e alla bontà. Ammiro incantata variopinte farfalle che si posano sui fiori, muovendo un poco le ali. Sembrano felici e forse lo sono realmente, visto che donano gioia e vita ai prati fioriti e a chi le guarda. Da una finestra di una casa in lontananza, odo le note di una vecchia canzone della mia adolescenza. È di Ramazzotti, “Cuori agitati nel vento”. La musica è un piacere per le orecchie, aiuta a viaggiare nel tempo, a evocare ricordi. Le note del brano mi riportano al primo giorno di quest’anno scolastico, ormai concluso. In modo particolare ripenso ai miei ragazzi del quinto anno, che non ho potuto salutare e che l’anno prossimo non rivedrò tra i banchi.

Ripenso al loro primo giorno di scuola e mi rivedo davanti alla porta dell’aula “VB liceo classico”. Suona la campanella. Un vociare festoso di giovani varca il cancello dell’istituto. Sono loro i cuori agitati dal vento. I ragazzi mi accolgono con sorrisi di gioia. Sono felici, anzi siamo felici di ritrovarci dopo la pausa estiva. Come sempre mi lascio coinvolgere dai loro entusiasmi facendoli diventare anche i miei. Questa è per loro la prima, ma anche l’ultima campanella di inizio anno scolastico. Sono giunti a quel traguardo tanto atteso. Scattiamo una foto per immortalare il momento. Il primo e l’ultimo giorno di scuola segnano dei passaggi decisivi nella vita dei giovani. Ricordi indelebili. Quest’anno l’ultima campanella non è suonata. Qualche preside per rendere comunque omaggio alla fine dell’anno scolastico, ha fatto un video contando i minuti che mancavano al suono della campanella finale e lo ha inviato tramite WhatsApp ai professori e agli alunni. Ma non è stata la stessa cosa. Mancavano loro, i giovani, l’anima e il cuore della Scuola.

L’altro giorno per le strade del paese ho incontrato Daniela, una mia alunna della VC liceo classico, che mi ha detto tutto d’un fiato: «Per fortuna, che nella nostra classe tutti siamo riusciti a festeggiare i diciotto anni prima della chiusura». Le sue parole avevano un tono di autoconsolazione. In realtà poi mi ha confessato che era molto dispiaciuta. La fine del liceo, si era conclusa senza poter fare la consueta festa di saluto. Senza bigliettini con frasi affettuose, regali, una buona pizza, un dolce e qualche lacrima di gioia e di commozione da spendere insieme. I dispiaceri, i dolori sono sempre dei pedagoghi nella vita dell’uomo. Le prove non devono farci ritornare come prima ma migliori di prima. Quest’anno abbiamo riscoperto che cos’è un miracolo. Un miracolo è respirare, correre, mangiare, saltare, abbracciarsi, cantare, pensare, amare…Un miracolo è poter stare insieme.

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Ripenso a tutte le volte che in classe ho ascoltato dai ragazzi le loro paure, i loro dubbi e non solo su argomenti di religione. Rivedo nei loro occhi, la voglia di lasciare al più presto l’amata e odiata aula scolastica. Un’aula che sembrava essere diventata all’improvviso troppo “stretta” per chi iniziava a sognare di innalzarsi verso nuovi orizzonti. Conoscere altre persone. Accarezzare il sogno della futura laurea. Quel piccolo, accogliente e ovattato mondo che cinque anni fa li aveva accolti, all’improvviso non bastava più. 

Attraverso le tante riflessioni che mi hanno scritto sulle tematiche che proponevo con la didattica a distanza, ho scoperto una sensibilità in tutti i miei ragazzi che non ero mai riuscita a cogliere in classe. I giovani, in questa pandemia, hanno riconosciuto i limiti dell’uomo e della scienza, rafforzato il valore della fede e rivalutato la figura di Cristo. Scrive la mia alunna Roberta, 18 anni: «Conosciamo l’aspetto di Gesù grazie ai quadri, alle statue. Ma non sappiamo qual è la sua vera immagine. In questo brutto momento per noi italiani, penso che Gesù sia vestito da medico o da infermiere, da ricercatore, da esperto in materia. Lui è l’unico in grado di aiutarci e di salvarci da questo incubo». 

Cari ragazzi, voglio ringraziarvi per quello che mi avete dato, per i tanti meravigliosi e fantastici momenti vissuti insieme. Per farlo, ho scelto per voi, una storia di don Bruno Ferrero, che porta come titolo: Via con il vento. «In un giorno di primavera sbocciò un Dente di Leone. Dopo un po’ di tempo il fiore divenne un soffione, una sfera leggera, ricamata dalle coroncine di piumette attaccate ai semini che se ne stavano stretti stretti al centro del soffione. Quante congetture facevano i piccoli semi. “Chissà dove andremo a germogliare? Solo il vento lo sa”. Un mattino il soffione fu afferrato dalle dita invisibili e forti del vento. I semi volarono via, ghermiti dalla corrente d’aria. “Addio… addio” si salutarono i piccoli semi. Mentre la maggioranza atterrava nella buona terra, uno il più piccolo fece un volo molto breve e finì in una screpolatura del cemento di un marciapiede. Il semino senza pensarci due volte, si rannicchiò e cominciò subito a lavorare di radici. Davanti alla screpolatura di cemento c’era una panchina. Proprio su quella panchina si sedeva spesso un giovane dall’aria tormentata e lo sguardo inquieto. Quando vide le foglioline dentate verdi che si aprivano la strada nel cemento rise amaramente: “Non ce la farai! Sei come me!” e con un piede lo calpestò. Ma il giorno dopo vide che le foglie erano diventate quattro e dopo qualche giorno era spuntato il fiore, giallo brillante come un grido di felicità. Il giovane sentì svanire il risentimento e l’amarezza e gridò: “Ce la possiamo fare!”».

Ragazzi miei, non abbiamo potuto salutarci come di consueto, ma vi auguro di volare in alto come le aquile, e se qualche volta vi sentite “soffocare dal cemento”, non vi scoraggiate e lavorate sempre di radici, come ha fatto il semino caduto nella screpolatura. Voi siete e resterete sempre un messaggio prezioso e in qualsiasi circostanza ricordatevi: potete farcela e ce la farete! Vi abbraccio con affetto.

La vostra prof




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