Coronavirus

E se il mondo post-Covid uscisse peggiorato?

Coronavirus

di Michela Giordano

Restare umani al tempo del coronavirus? Non è facile. Andrà tutto bene? Temo di no e ho paura che le persone ne escano incattivite, ma spero di sbagliare…

Quanto è difficile “restare umani” al tempo del “coronavirus”. Per chi, come me, vive in Emilia Romagna la chiusura forzata in casa è cominciata il 21 febbraio. Sembrava un gioco da ragazzi all’inizio. Ho dato fondo ad approfondite pulizie domestiche e fantasiose attività per la mia bambina di 4 anni; ho fatto rinascere “Diamantina”, un lievito madre bomba, che mi fa sfornare impasti di cui sono molto fiera e riscoperto l’attenzione per la cucina e gli ingredienti sani; ho fatto scorpacciate di serie tv e di cartoni animati, ma anche di libri ammucchiati sulla colonna de “li leggerò più avanti”. Non avere un impiego fisso ha svelato, inaspettatamente, un effetto positivo: nessuna ansia per sistemare “la pupa”, né difficoltà per conciliare gli orari di lavoro con l’impegno da mamma. Il primo mese, il tempo è volato via, le giornate, tutto sommato, leggere da organizzare. Poi, qualcosa è cambiato. La noia ha fatto irruzione, insieme alla paura: per la nostra salute, per le famiglie lontane, per l’impatto psicologico dell’isolamento su Aurora, che, a 4 anni, fatica a capire perché deve stare ad un metro di distanza dagli altri. 

Notti insonni, pensando a mia madre, immunodepressa e fortemente a rischio; a mia sorella, medico in un grande ospedale napoletano, ancora oggi separata in casa, a fine turno, da marito e figlia di due anni; ai miei suoceri, soli, con il loro unico figlio a tanti km di distanza. Il terrore di accendere la tv per non dover scoprire che l’umanità era stata annientata, il mondo, come lo avevamo conosciuto, finito. L’apocalisse della speranza. Ho dovuto attingere a tutta la mia razionalità per riprendere il controllo della situazione. E abbiamo, noi tre, avviato un gioco. Si chiama “immagina se”. Ogni sera, finito di cenare, a turno, ciascuno di noi racconta un cambiamento che teme o spera accada nel mondo affetto da coronavirus. Le fantasie più significative, neanche a dirlo sono arrivate da nostra figlia “immagina se le mamme non sgridano più”, “immagina se le amichette possono stare insieme sempre”, “immagina se la cameretta si mette in ordine da sola”. Capisco ogni sera, dalle sue parole, dove ho sbagliato: ad alzare la voce, a rimproverarla una volta di troppo per la casa perennemente in disordine, a sottovalutare le sue necessità di avere contatti con le amiche del cuore, perché l’amicizia conta anche a 4 anni. Da genitore, quante cose do per scontato di sapere o fare nel migliore dei modi possibili. 

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Ho sperimentato in prima persona quanto la cattività fisica possa accompagnarsi alla cattiveria di spirito: i social, già normalmente stracolmi di haters, sono peggiorati, in quanto a odiatori: da allenatori di calcio, gli italiani si sono trasformati in ministri, virologi, docenti, medici certi, con le parole, di saper far meglio di chi, oggi più che mai, ha la responsabilità di decidere per tutti. Perfino la spesa al supermercato è diventata occasione per dimostrare quanto sia ancora vero che “homo homini lupus”: ho rischiato l’aggressione fisica per aver messo nel carrello l’ultima confezione di disinfettante mani, un secondo prima di un altro avventore, che non l’ha presa bene. Gliel’ho ceduta, accompagnando il rabbioso passaggio di consegne con una frase che non posso riportare. 

Tutti ripetono, da mesi, che “andrà tutto bene”. Io non ne sono così certa. Temo che il mondo post covid19 sarà più cattivo, spietato verso i più deboli, sacrificabili, scaricabili, come in una sorta di logica di triage di guerra: salviamo solo chi è meno grave, chi ha più percentuali di farcela. Spero di sbagliare.




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