Scuola

di Piero Del Bene, insegnante

“Non lo so fare!”: cronache dal fronte della didattica a distanza…

15 Aprile 2020

Una bella immagine di Scuola esaltata dal Covid-19? Essa è la frontiera tra ciò che è stato e ciò che sarà. Il punto di raccordo tra passato e futuro. La DAD (didattica a distanza) ne è una dimostrazione.

“Ma non è troppo complicato per un bambino di prima elementare? Non rischiamo di confondergli la testa?”. Posso riassumere così la lunga telefonata che ho avuto con un giovane padre che negli anni scorsi era passato per i miei gruppi di oratorio in parrocchia. È scoppiata, al tempo della pandemia da coronavirus, la didattica genitoriale. Il principio della delega alle maestre oppure alle signore del doposcuola passa ultimamente un brutto momento e anche i genitori. E forse anche i figli, chi lo sa? Il pomo della discordia era la divisione di un numero intero di palline in gruppi di due, poi tre, quattro e così via. I raggruppamenti dicono le maestre servono a far capire ai bambini che un numero si può scrivere in modi diversi a seconda di quante cifre usiamo. Per chi vuole approfondire, è un inizio di modularità o di cambiamento di base di numerazione. Non facilissimo, ma nemmeno difficilissimo. 

Il papà mi ha contattato perché gli altri genitori hanno scritto sempre lo stesso numero e nella sola numerazione decimale. A lui sembra strano: “Che senso ha scrivere sempre lo stesso numero?”. Gli spiego come stanno i fatti e allora mi pone la domanda da cui siamo partiti. Poi gli aggiungo che: “No. Non confonde le idee. Rende il cervello più elastico, secondo le esigenze moderne”. Il punto interessante è che senza il Covid-19, probabilmente quel genitore non avrebbe mai saputo che il figlio sta studiando cose diverse da quelle che ha studiato lui che pure era uno studente modello. Generalizzando, ci potremmo chiedere quanti genitori conoscono fino in fondo le cose che passano sotto il naso dei figli a scuola. Ma non è questo ciò che vogliamo approfondire. Ci teniamo, ai fini del ragionamento, la scoperta fatta dai genitori, molti dei quali hanno imparato solo adesso questo dettaglio della numerazione. È quasi comico notare che l’acronimo che si usa per la didattica a distanza, DAD, in inglese stia per “papà”.

Dall’altra parte dello schermo (niente cattedra in questi mesi!) si sta ponendo un problema per certi versi simile. L’età media dei docenti italiani supera i cinquanta anni. Il dato si ricava dall’anagrafe dei docenti pubblicato sul portale del Miur. Questo vuol dire che molti di essi hanno studiato negli anni precedenti alla diffusione dei personal computer e che quindi l’utilizzo di dispositivi tecnologici per la didattica non è rientrato nella loro cassetta degli attrezzi del mestiere. Qualcuno tra loro ha seguito lo sviluppo del mondo informatico e si è dotato di competenze digitali. Altri, invece, quelli che sapevano di essere considerati i migliori nella vecchia scuola, hanno preferito non uscire dalla propria zona di confort e hanno continuato a fare lezione “come si è sempre fatto” riproponendo ciò che a loro veniva meglio e sembrava funzionare. L’avvento della DAD, prima auspicata, poi apprezzata ed infine imposta a colpi di decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, nel breve volgere di poco più di un mese, ha colto questi docenti alla sprovvista. A dire il vero, questo cambiamento ha colto di sorpresa un poco tutti gli attori della scuola, anche i gestori di supporti tecnologici. I docenti, tuttavia, hanno dovuto fare i conti col venir meno sotto i propri piedi di quel terreno fatto di certezze costituito dal “si è sempre fatto così”. Anche le organizzazioni sindacali, dal loro punto di vista hanno fatto i conti con questa situazione straordinaria e quindi non compendiata nel Contratto collettivo nazionale della categoria. Qualche collega ha vissuto e forse vive ancora quella sottile forma d’angoscia che abita il proprio animo, quando si attraversa un territorio incognito. A costoro va rivolto un profondo e grato saluto: hanno dovuto reinventare prassi che non possono essere semplicemente delle trasposizioni digitali di un mondo che per adesso non c’è. 

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La didattica a distanza è proprio un altro mondo, un mestiere diverso che richiede altre competenze anche nel semplice parlare, che deve essere più schematico, lento. Richiede di fare a meno del “ritorno” visivo del ragazzo. Quando un docente spiega in classe, ad esempio, ha continuamente sotto gli occhi il corpo del ragazzo e, dal suo modo di porsi, capisce se questi sta seguendo oppure no. In regime di DAD questo ritorno viene meno. E questo è solo un esempio delle numerose cose che cambiano. Resta il fatto che sia le famiglie da una parte che i docenti dall’altra ci siamo trovati davanti a una constatazione riassumibile nella frase: “Non lo so fare!” Di fronte a tale terribile ma concreta realtà, la variegata umanità che gira intorno alla Scuola, quindi la maggioranza del Paese, si è presto divisa in due blocchi. Da una parte si sono situati coloro per i quali la frase “non lo so fare” rappresenta una pietra tombale, di fronte alla quale il discorso finisce, non è possibile chiedere di più. E anche le “carte” legali danno loro ragione: non si può chiedere di fornire una competenza che non si possiede. Sul fronte opposto si sono posti, invece, coloro per i quali la frase “non lo so fare” rappresenta un punto di partenza. Costoro si dicono: siccome questa non è tra le mie competenze, cosa posso fare per dotarmene? Li potremmo definire seguaci del socratico “So di non sapere”. Essi, dunque, si attivano sfruttando tutte le capacità autoimprenditoriali di cui sono dotati.

L’intero mondo scolastico, docenti, studenti e genitori, si è trovato improvvisamente catapultato in un enorme compito di realtà. Per coloro che non sono molto addentrati alle cose di scuola, il compito di realtà è, secondo una definizione diffusa, «una situazione problematica, complessa e nuova, quanto più possibile vicina al mondo reale, da risolvere utilizzando conoscenze e abilità già acquisite e trasferendo procedure e condotte cognitive in contesti e ambiti di riferimento moderatamente diversi da quelli resi familiari dalla pratica didattica». In parole più semplici, si tratta di un problema reale da affrontare usando le cose imparate a scuola, per valutare come queste aiutino a vivere nella realtà. Nella situazione odierna ci sono solo due differenze non insignificanti. La prima: questo compito di realtà non è inventato dai docenti per valutare le competenze degli alunni, ma è la realtà intera che irrompe a Scuola. La seconda differenza risiede nel fatto che il compito stavolta è assegnato anche ai docenti, ai dirigenti scolastici, ai segretari e via dicendo. Il Covid-19 conferma la sua vocazione democratica: in ogni sua sfaccettatura coinvolge tutti, per cui davvero siamo tutti sulla stessa barca e non ci sono esperti. Persino i virologi navigano a vista e sono in disaccordo su molti aspetti. Ci permettiamo tuttavia di rilevare quanto questa situazione sia da considerare di per sé un lungo e poderoso corso di formazione nella logica del life long learning (apprendimento lungo l’intera vita), che entrerà nella valigia professionale ed esperienziale di tutti e ciascuno, nella speranza di saperne far tesoro per il futuro. Esiste tutta una serie di questioni, di cui abbiamo sempre parlato in passato, che questo momento storico ci sta facendo vedere nella loro reale portata. Della competenza, dell’elasticità mentale abbiamo accennato. Una menzione particolare merita la stabilità didattica, cioè quel diritto di continuare più anni con gli stessi insegnanti. Siamo poi così sicuri che questa fissità su metodi e facce porti vantaggi per gli alunni che invece dovrebbero sviluppare maggiori capacità di adattamento? Abituarsi alla modalità didattica di un docente e seguire sempre quella senza aprirsi a nuovi modi di interagire è un vantaggio o uno svantaggio nel mondo d’oggi? O addirittura un limite se poi rende incapaci di fronteggiare le situazioni inedite? 

La principale sollecitazione che arriva al mondo della scuola dalla pandemia in corso sta tutta qui. La trasmissione del sapere è perennemente in bilico tra ciò che è stato fatto e ciò che servirà in futuro. Spesso gli insegnanti sono considerati un residuo del passato, si dice che raccontino cose vecchie che in qualche misura non servano più. D’altro canto, essi si possono porre come guide verso la frontiera ultima da varcare portando con sé gli studenti, accompagnandoli verso orizzonti ulteriori. Ecco una bella immagine di Scuola che viene esaltata dal Covid-19: essa è la frontiera tra ciò che è stato e ciò che sarà. Il punto di raccordo tra passato e futuro. Il tronco attraverso il quale la linfa vitale sale dalle radici della tradizione fino alle foglie dell’innovazione. A tutti noi spetta solo decidere da quale parte stare. Il “non lo so fare” ci interpella e ci sprona. Ci pungola. Occorre una riposta coraggiosa. Scrivo, da credente, nella settimana in albis. Abbiamo ancora negli occhi il testo dell’omelia pronunciata da papa Francesco nella Veglia di Pasqua. Essa, in alcuni passaggi può essere applicata anche a noi che viviamo la Scuola, laddove c’invita ad essere: “Annunciatori di vita in tempo di morte! In ogni Galilea, in ogni regione di quell’umanità a cui apparteniamo e che ci appartiene, perché tutti siamo fratelli e sorelle, portiamo (è un imperativo) il canto della vita!”. La Pasqua infonde coraggio perché “immette nel cuore la certezza che Dio sa volgere tutto al bene, perché persino dalla tomba fa uscire la vita”. Noi possiamo portare nella Scuola che si professa laica il nostro essere “specialisti della speranza”, per nulla intimoriti dalle novità perché sappiamo che per chi crede “tutto concorre al bene”. Le difficoltà che si stanno vivendo saranno guardate, dopo questo periodo, come una grande opportunità di rinnovamento per tutti. E questo è più di un semplice auspicio.




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