CORRISPONDENZA FAMILIARE
di don Silvio Longobardi
La Messa in trincea. Apriamo corridoi eucaristici
16 Marzo 2020
“Rinunciare all’incontro eucaristico quotidiano è stato per me una sofferenza. Devo rinunciare anche a quello domenicale. E fino a quando? È giusto abdicare oppure devo cercare Messe clandestine, come fanno altri innamorati dell’Eucaristia?”. È solo uno dei tanti messaggi vocali che ho ricevuto in questi giorni. Possiamo raccogliere questo grido o dobbiamo derubricarlo ad esigenza devozionale?
“La Messa in trincea non è mai mancata, la frequenza dei sacramenti, specie nelle ricorrenze, è stata soddisfacente. Nella Pasqua ho avuto moltissime comunioni (quasi duemila)”: sono stralci di una comunicazione più dettagliata che don Pasquale Caiazzo, cappellano nella prima Guerra Mondiale, scrive al suo vescovo. Se oggi il virus ci costringe a stare in trincea, la Chiesa deve fare la sua parte, deve stare in prima fila con i suoi preti e combattere la stessa battaglia ma con le sue armi, Eucaristia e Rosario.
L’umile testimonianza di questo prete, raccolta in un libro pubblicato nel centenario della Grande Guerra, illumina questo tempo segnato dal “digiuno eucaristico”, come lo definisce anche Andrea Monda, direttore de L’Osservatore Romano. Un digiuno che lui giudica imprevisto ma salutare perché ci permette di riflettere sulle condizioni della comunità dell’Amazzonia che per mesi sono private del bene eucaristico a causa della mancanza di preti. A me sembra invece che dobbiamo riflettere di più sull’assoluta necessità di chiudere le chiese e di impedire ai laici di ricevere il Pane della vita. Forse dimentichiamo che la Chiesa non ha ricevuto il compito di custodire la salute ma il ministero della salvezza. Nel mezzo della guerra i cappellani in trincea erano certamente capaci di comunicare parole di consolazione ma sapevano anche che il loro primo compito era quello di donare Gesù.
“La chiesa parrocchiale è chiusa, è difficile anche uscire dal territorio comunale, come posso ricevere l’Eucaristia, almeno nel giorno domenicale? Rinunciare all’incontro eucaristico quotidiano è stato per me una sofferenza. Devo rinunciare anche a quello domenicale. E fino a quando? È giusto abdicare oppure devo cercare Messe clandestine, come fanno altri innamorati dell’Eucaristia?”. È solo uno dei tanti messaggi vocali che ho ricevuto in questi giorni. Esprime bene il dolore e lo sconcerto di una parte della comunità ecclesiale. Possiamo raccogliere questo grido o dobbiamo derubricarlo ad esigenza devozionale?
Uno dei capitoli più dolorosi di questo tempo è l’impossibilità di partecipare alla Celebrazione Eucaristica e ricevere il Corpo del Signore. È vero, come è stato giustamente detto, l’Eucaristia viene celebrata da tutti i sacerdoti ed è sempre a vantaggio dell’intera Chiesa. E tuttavia, la decisione di proibire sempre e comunque la celebrazione comunitaria impedisce ai laici di ricevere Colui che è fonte di vita, un Bene essenziale di cui molti non possono né vogliono fare a meno.
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A mio parere era più giusto – e aggiungo anche doveroso – individuare altre forme per rendere accessibile l’Eucaristia a quanti lo desiderano. Peraltro va notato che in questo clima di diffusa paura, la comunità eucaristica è certamente più esigua. Perché dunque sbarrare la porta ad un’esigua minoranza? Nell’articolo pubblicato lunedì scorso ho chiesto di prevedere corridoi eucaristici. Prendo questa espressione dal linguaggio giornalistico e politico. Nel tempo di guerra, quando ci sono conflitti in cui purtroppo solo le armi hanno diritto di parola, ci sono sempre uomini di buona volontà che, proprio a causa di quella situazione, non si chiudono in una complice rassegnazione ma cercano e spesso trovano corridoi umanitari per mettere in salvo le persone più deboli. Un piccolo gesto di umanità in un contesto in cui il male s’impone con violenza. Un gesto apparentemente inutile perché non ferma la guerra ma è pur sempre una luce di speranza.
Allo stesso modo, ritengo che nel tempo delle epidemie è possibile – e doveroso – individuare percorsi che danno la possibilità a quanti lo desiderano di ricevere il Pane della vita. Una tale scelta nasce dalla consapevolezza che è Gesù la nostra salvezza. Senza di Lui ogni altra battaglia è perduta in partenza. Tutti sono chiamati a pregare, alcuni sentono l’intima necessità di partecipare nella forma più piena. Perché impedirglielo? A mio parere dobbiamo rispettare due principi che salvaguardano la libertà: da una parte nessuno deve essere obbligato, d’altra parte nessuno può e deve essere impedito. A ciascuno il suo.
Vorrei raccontare un piccolo episodio. Agli inizi del 1892 una grande epidemia di influenza si abbatte su Lisieux. Tocca anche il Carmelo che dispone di una sola stufa, nella sala della ricreazione. Due suore muoiono, tutte le altre si ammalano, ad eccezione di santa Teresa, sua sorella Maria e una conversa. Quella vicenda drammatica fu la prova del nove. Malgrado la giovane età – aveva solo 19 anni – Teresa mostra di avere un carattere energico e organizzativo. Si dà da fare, assiste le ammalate, dispone i funerali per le defunte, garantisce la vita della comunità per quanto è possibile. Pochi anni dopo, rileggendo quei giorni, Teresa non pone l’accento sulla sofferenza e sulla morte ma annota che la tristezza era vinta dalla possibilità di ricevere la Santa Comunione: “Per tutto il tempo durante il quale la comunità fu provata in questo modo potei avere l’ineffabile consolazione della santa Comunione quotidiana. Ah com’era dolce!” (Ms A 79v). In quel periodo neppure le monache, pur partecipando a Messa, potevano accostarsi alla Comunione quotidiana. Questo dettaglio biografico di Teresa mi sembra molto adatto al nostro tempo. Quando la malattia fa paura, abbiamo ancora più bisogno di ricevere il Pane della vita.
“Gesù, ricorda che se affondiamo, affondi anche tu”. Era questa la preghiera con la quale don Tarcisio (1906-2003) si rivolgeva amabilmente al suo Signore. Figlio dei beati Luigi e Maria Beltrame Quattrocchi, durante la Seconda Guerra mondiale era cappellano militare in marina. Aveva deciso di portare Gesù Eucaristia in una teca che teneva sempre con sé. Nel contesto bellico, in cui la minaccia poteva in qualsiasi momento concretizzarsi, l’Eucaristia era per lui l’unica garanzia e poteva diventare l’ultimo conforto per i soldati. È questa la certezza della fede. I sacerdoti stavano in prima fila, come tutti gli altri. Icona di una Chiesa che non si ritira e non alza bandiera bianca.
Briciole di Vangelo
di don Silvio Longobardi
s.longobardi@puntofamiglia.net
“Tutti da Te aspettano che tu dia loro il cibo in tempo opportuno”, dice il salmista. Il buon Dio non fa mancare il pane ai suoi figli. La Parola accompagna e sostiene il cammino della Chiesa, dona luce e forza a coloro che cercano la verità, indica la via della fedeltà. Ogni giorno risuona questa Parola. Ho voluto raccogliere qualche briciola di questo banchetto che rallegra il cuore per condividere con i fratelli la gioia della fede e la speranza del Vangelo.
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Cari lettori di Punto Famiglia,
stiamo vivendo un tempo di prova e di preoccupazione riguardo il presente e il futuro. Questo virus è entrato prepotentemente nella nostra quotidianità e ci ha obbligati a rivedere i tempi del lavoro, delle amicizie, delle Celebrazioni. Insomma, ha rivoluzionato tutta la nostra vita e non sappiamo fin dove ci porterà e per quanto tempo. Ci fidiamo delle indicazioni che provengono dal Governo e dagli organi sanitari preposti ma nello stesso tempo manifestiamo con la nostra fede che “il Signore ci guiderà sempre” (cfr Is 58,11).
2 risposte su “La Messa in trincea. Apriamo corridoi eucaristici”
Caro Don Silvio,
mi hanno molto colpito questi due articoli in cui chiedi che si creino “corridoi eucaristici”. Ne condivido ogni virgola.
Tu ricordi che i sacerdoti sono sempre stati in prima linea al fianco dei soldati per portare l’Eucarestia in mezzo alle guerre. E oggi siamo dentro una guerra. Pure io penso che la Chiesa dei nostri giorni, molto esperta di politica e di “corridoi umanitari”, forse dovrebbe adoperarsi di più ad aprire “corridoi eucaristici” per portare il “Pane di vita” al popolo di Dio, per fornire il farmaco indispensabile alla nostra anima.
Questa riflessione la sento ancora più forte quando penso che la nostra amata Chiesa ha usato pure un’enciclica per auspicare “corridoi biologici” in favore di “vermi, piccoli insetti, rettili
e l’innumerevole varietà di microorganismi” (Laudato sii, nn. 34 e 35). Nella guerra in cui ci troviamo è in ballo qualcosa di più grande dell’ecosistema e viene interpellata la nostra fede fino alle radici in modo tremendo.
La tua riflessione mi è tornata ancora alla mente stamani mentre leggevo il responsorio: “CRISTO, pane vivo e FARMACO D’IMMORTALITÀ…”.
Cordiali saluti.
Sono assolutamente d’accordo nella necessità di impegnarsi a trovare possibili modalità di garantire la S. Comunione, anche quotidiana, a coloro che la desiderino ricevere e di testimoniare sempre più con forza la necessità di non fermarsi alla salute fisica degli ammalati o degli impauriti, ma alla consapevolezza dell’importanza della dimensione spirituale e soprannaturale. Quindi prima di tutto auspico che la Chiesa non si limiti a considerare la lettera di un decreto ministeriale. Nello stesso tempo mi rendo conto del limite della definizione di “corridoi eucaristici” per il fatto stesso che i “corridoi umanitari” non possono che portare bene a coloro a cui riescono arrivare. Nel nostro caso invece i cosiddetti corridoi eucaristici insieme all’ineffabile e infinito dono della Santa Comunione potrebbero anche portare il nefasto contagio del coronavirus. Per tornare all’esempio, insomma, insieme ai volontari che portano aiuto potrebbero infiltrarsi dei nemici che tutto vogliono tranne che il bene delle persone a cui giungono. Resta inteso che appena è scattato il divieto di celebrare in pubblico e addirittura la chiusura delle chiese nel mio cuore è subito apparsa la figura di padre Damiano come esempio per ciascun sacerdote: condividere fino a contagiarsi il destino di coloro ai quali era stato mandato pur di testimoniare con la vita l’amore di Dio per l’uomo. Se si trattasse solo del pericolo per noi sacerdoti di contrarre il Covid19, allora si, astenersi dal raggiungere ogni anima, equivarrebbe a tradire la nostra vocazione e a diventare dei “don Abbondio”, ma sapere di poter mettere a repentaglio la vita altrui, equivarrebbe a invece a farci diventare dei “don Rodrigo”.
Mi viene in mente, quindi, l’indimenticabile espressione di San Giovanni Paolo II alle soglie del terzo millennio, che ci invitava alla “fantasia della Carità”. Ritengo quanto mai necessario impegnarsi a trovare modi per permettere di far ricevere la S. Comunione, la Confessione e gli altri sacramenti in assoluta sicurezza per chi li riceva e in assoluta donazione per chi li amministra. E questo dovrebbe essere, insieme all’incessante preghiera, il primo e più grande impegno della Chiesa in questo momento.