Eutanasia
Sentenza caso Cappato: il diritto ad essere aiutati a morire
di Chiara Chiessi
Diritto ad essere aiutati a morire? Se non ci sarà una reazione forte da parte di tutte le persone di buona volontà, saremo vicini alla fine della nostra società. Ma se risponderemo alla cultura della morte con la vita, allora ci sarà speranza.
Si è aperto l’8 novembre 2017 il processo a Marco Cappato, tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni, imputato per aver aiutato Dj Fabo, divenuto paraplegico dopo un incidente d’auto, a raggiungere la Svizzera per ottenere il suicidio assistito, ed il 14 febbraio 2018 si è parzialmente concluso con l’assoluzione per la parte che lo vedeva imputato di istigazione al suicidio.
All’udienza del 25 settembre 2019, la Corte Costituzionale ha ritenuto non punibile ai sensi dell’articolo 580 del codice penale, a determinate condizioni, “chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli”.
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In data 22 novembre 2019, veniva depositata la sentenza n. 242/2019, con la quale la Corte Costituzionale dichiarava l’illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p., confermando dunque la decisione della Corte di fine settembre.
Nonostante la mobilitazione di tante associazioni cattoliche e pro life, la Corte ha deciso che la condizione dei disabili gravi sia “indegna” da vivere e che dunque, chiunque agevoli l’esecuzione del proposito al suicidio (secondo quei requisiti espressi, ma che, come la legge 40 e la 194 ci hanno insegnato, ben presto cadranno, garantendo il “diritto al suicidio” a tutti), non debba essere punito.
Saranno le strutture pubbliche del Servizio sanitario nazionale a verificare l’esistenza dei requisiti che rendono legittimo l’aiuto al suicidio nei casi indicati dalla Corte costituzionale.
Si arriverà alle situazioni presenti in tanti Paesi europei, come l’Inghilterra e l’Olanda, per cui, il Servizio sanitario locale, cerca di fare di tutto per togliere di mezzo un disabile grave, piuttosto che assisterlo fino alla fine, in quanto viene considerato un costo economico per la società.
E piano piano, come in un pendio scivoloso, i requisiti che deve avere la persona, agevolata nel proposito del suicidio, si abbasseranno sempre di più: basterà essere anziani, o avere problemi mentali, o essere depressi; anche perché come si può definire se “le sofferenze fisiche e psicologiche” che si patiscono siano intollerabili? Ed inoltre, come può il proposito di suicidio di un malato essere veramente libero ed essersi formato autonomamente, se intorno a lui viene istigato da un’intera cultura di morte e si trova in una condizione psicologica già molto fragile? E come si possono prendere decisioni lucide se si soffre così tanto?
Inoltre, nel comunicato stampa annesso alla motivazione, la Corte ha rivendicato un inedito ruolo di supplenza del Parlamento, affermando implicitamente non solo che esista un vero e proprio diritto al suicidio, ma soprattutto che essa stessa sia l’unico arbitro delle situazioni in cui le sarebbe permesso intervenire. In altri termini, stiamo consegnando l’ordinamento a quindici persone: ovvero i giudici della Corte costituzionale.
L’impatto di questa decisione sull’esistenza di tanti disabili sarà di portata incalcolabile, senza contare l’azione pedagogica che una sentenza del genere avrà nei confronti delle giovani generazioni, che vedranno il suicidio come un diritto a cui potranno accedere in un qualsiasi momento di difficoltà della loro vita.
“Da oggi quelle persone che rientrano nelle condizioni stabilite dalla Consulta hanno già diritto a essere aiutate a morire: non serve una legge del Parlamento”. Così ha dichiarato in conferenza stampa Cappato, subito dopo la sentenza.
Diritto ad essere aiutati a morire? Se non ci sarà una reazione forte da parte di tutte le persone di buona volontà, saremo vicini alla fine della nostra società. Ma se risponderemo alla cultura della morte con la vita, allora ci sarà speranza.
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