Vita

“Cosa ho perso in bagno? Lo voglio vedere”: il dramma di una madre che perde il suo bimbo…

tristezza

di Filomena Civale, medico

Quando ti scontri con il dolore umano, tutte le frasi di circostanza e i protocolli medici spariscono. Non ci sono parole per lenire la sofferenza di una mamma che perde il suo bambino in gravidanza. Ciò che resta è la certezza che nulla si perde per sempre.

Ho incrociato lo sguardo di Anna (nome di fantasia) il mio primo giorno di lavoro. Era diverso da quello delle altre donne che, nel corso della giornata, erano state sottoposte ad interventi ginecologici in day hospital. Solita routine. Chi lavora in ospedale dovrebbe essere abituato a incrociare lo sguardo dei pazienti, ma ogni giorno scopri di non esserlo abbastanza. Asportazione di polipi e raschiamenti si alternavano ad una velocità quasi impressionante.

“Prepara i farmaci per la prossima paziente, – mi dicono – è un raschiamento”. Tutto è pronto, vado in stanza a conoscerla: cerco di conoscere sempre i pazienti prima dell’anestesia per allentare la tensione, per stabilire una relazione. Un paziente non è mai solo questo. È un mondo da scoprire, una storia formidabile, è un’anima ferita che cerca attenzioni oltre che cure. Spesso la parola di un medico o di un’infermiera può cambiare lo stato d’animo della persona. Basta un sorriso, una pacca sulla spalla per dire: “Sono con te, anche se non ti conosco”. 

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Anna è diversa dalle altre donne che ho avuto modo di conoscere quella mattina: ha uno sguardo devastato. “Perché fa il raschiamento?” chiedo allo strutturato. “Un aborto” mi risponde. “Spontaneo”, aggiunge subito dopo ed io, d’improvviso, capisco tutto. Anna è oppressa dai dolori alla pancia, all’improvviso si alza, va in bagno, perde sangue. Il ginecologo ritiene comunque opportuno operare. L’intervento è molto semplice e molto breve. Un protocollo da seguire, di quelli che a furia di farne li puoi eseguire anche ad occhi chiusi: atropina, fentanest, propofol la solita solfa, pozioni che servono a stordire il cervello, ma l’anima rimane vigile. Inietto il propofol lentamente per addormentarla in maniera dolce. Prima che l’anestesia faccia effetto mi guarda fisso, gli occhi sembrano già lontani, ma con un filo di voce mi domanda: “Cosa è successo in bagno?”. Non ho il tempo di rispondere che si addormenta. La osservo mentre i sensi l’abbandonano ed io lì con quella frase in sospeso che spero abbia dimenticato.

Quando i pazienti si risvegliano solitamente diciamo loro che è andato tutto bene. Che ora devono solo riposare, riprendersi e tornare a casa. Vorrei farlo anche con lei, ma Anna non mi dà il tempo di parlare. Riprende la conversazione iniziata prima dell’anestesia, come se non fosse mai stata interrotta. “Cosa è successo in bagno?”. Subito dopo: “Cosa ho perso? Lo voglio vedere!”. Gli occhi rossi fissi su di me. Lo sguardo allucinato, pesante, le lacrime come tanti spilli di rugiada, mi ripete in continuazione: “Lo voglio vedere! Fammelo vedere!”. 

L’ostetrica interviene: “Non c’è nulla da vedere, è solo un grumo di sangue”. Ma Anna non si dà pace. Così si consuma il dramma di una madre che perde il suo bambino in un’epoca precoce della sua gravidanza. Una mamma che ha amato il figlio fin dai primi giorni della sua esistenza. Nessuno può cancellare la certezza che quel bambino viveva in lei e forse la consolazione più grande sarebbe stata solo quella di comprendere che non è perso per sempre.




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