cultura
Il sex appeal di Lucia Mondella
di Gianni Mussini
Dov’è finita la sensualità femminile nell’epoca della dittatura della pornografia? Dai Promessi Sposi, una risposta impareggiabile: Lucia Mondella.
Non ha avuto troppa fortuna Lucia Mondella tra i lettori dei Promessi sposi. Nella migliore delle ipotesi è stata presentata come campionessa di un idealismo cristiano così elevato da apparire algido se non proprio frigido: alla larga dalla carne! Lo stesso don Abbondio, con la sua ottusità morale, la considerava non altro che una “madonnina infilzata”… Chi non ricorda poi i commenti di certi smaliziati compagni di scuola sull’insulsa imbranataggine di questa ragazza, incapace persino di portare a termine il matrimonio di sorpresa?
Non per caso, Lucia è stata oggetto di facili parodie, anche televisive, che non è neppure il caso di nominare. Sorprende che a troppi sia sfuggita la profonda verità umana del personaggio, dunque anche la sua profonda verità erotica: esattamente il contrario della facile ostentazione pornografica che – sadicamente scomponendo i corpi femminili – fa a pezzi l’unità stessa della persona (ove anima e corpo sono congiunti anche nell’espressione sessuale).
Queste cose naturalmente Manzoni non le esplicita ma le lascia trapelare con grande sapienza attraverso gli occhi e le parole dei suoi personaggi. Un po’ come Omero, che non descrive mai in modo diretto la bellezza di Elena (la donna più bella del mondo), ma ce la fa commentare dai vecchioni di Troia che, vedendola passare, ammettono a bassa voce che valeva davvero la pena di combattere una guerra così lunga per una creatura tanto magnifica.
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Ma torniamo a Lucia e al suo fascino. Il giorno inizialmente previsto per le nozze, Renzo s’incammina verso la casa della sposa con la “lieta furia” di un ragazzone dai sentimenti e dagli ormoni giusti; nello stesso tempo lei, a casa sua, sta uscendo “tutta attillata dalle mani della madre” e, circondata dalle amiche, si va schermendo “con quella modestia un po’ guerresca delle contadine, e intanto “facendosi scudo alla faccia col gomito, chinandola sul busto, e aggrottando i lunghi e neri sopraccigli, mentre però la bocca s’apriva a sorriso”. La modestia guerresca è un ossimoro che Manzoni deriva direttamente dal Tasso, il poeta dei brividi e delle sfumature, dunque appunto anche degli ossimori. E tornerà in un altro grande esperto d’amore come il novecentesco Umberto Saba… Ma insomma è un’immagine, come tutto il contesto citato, che ci rappresenta una ragazza viva, cui il pudore conferisce un “fascino invincibile” (così un vecchio mangiapreti come Anatole France, che di donne se ne intendeva sin troppo).
Si capisce insomma come mai, lo scrive stavolta Beppe Severgnini, Lucia sia “più sexy di una modella”. Lo dimostra il fatto che proprio di lei, e non di tante altre che avrebbe potuto puntare, si era invaghito don Rodrigo. Solo invaghito? Anche qui Manzoni dimostra di saperla lunga. È vero che per don Rodrigo Lucia, come tutti i poveri del suo feudo, può considerarsi come una proprietà personale, una cosa (“gente perduta… gente di nessuno… non hanno neanche un padrone”); ma è anche vero che quello che all’inizio pareva il semplice capriccio di un signorotto feudale, si rivela via via come una vera passione. Quando viene a sapere che Lucia, con l’aiuto di padre Cristoforo, è riuscita a sottrarsi al rapimento da lui stesso architettato e a scappare verso Monza con Renzo e Agnese, le parole di don Rodrigo sono quelle di un innamorato geloso: “Fuggiti insieme!” gridò: “Insieme! E quel frate birbante! Quel frate!”. Manzoni aggiunge che al povero Rodrigo “la parola gli usciva arrantolata dalla gola, e smozzicata tra’ denti”… Altroché un semplice capriccio!
Aggiungiamo un’altra testimonianza indiretta del fascino di Lucia. La bigotta donna Prassede, abituata a scambiare “per Cielo il suo cervello”, si era messa in mente di raddrizzare quello di Lucia, che si era promessa a un giovane implicato – innocente – nell’assalto ai forni milanesi. Il primo incontro con Lucia conferma l’infallibile pregiudizio di donna Prassede: “Quella testina bassa, col mento inchiodato sulla fontanella della gola, quel non rispondere, o risponder secco secco, come per forza, potevano indicar verecondia; ma denotavano sicuramente molta caparbietà: non ci voleva molto a indovinare che quella testina aveva le sue idee”. Un vero rovesciamento parodico del carattere della ragazza, al quale si aggiunge un particolare decisamente erotico: “E quell’arrossire ogni momento, e quel rattenere i sospiri… Due occhioni poi, che a donna Prassede non piacevan punto”. Eh già, il rossore che esprime pudore (vedi sopra Anatole France!) e soprattutto quei pericolosi occhioni che non piacevano punto a donna Prassede perché erano in effetti pericolosi per gli uomini (don Rodrigo insegna) ma – e questo la bigottona non poteva capirlo – erano promessa di gioia per Renzo: il giovane che Lucia aveva scelto per marito.
Che poi Lucia sia tutt’altro che la creatura asessuata superficialmente descritta da molti lo dimostra anche l’episodio del voto durante la notte terribile al castello dell’innominato: rapita e rinchiusa in una tetra cella, con la sola compagnia di una vecchia malvissuta, la ragazza sembra cedere alla disperazione ma si ricorda che può “almen pregare”. Inizia così a recitare il Rosario, ricevendone subito conforto. Per corroborare l’efficacia della preghiera, pensa a un certo punto di offrire alla Vergine un voto. E che cosa offre? Come ci dice Manzoni con la sua gran sapienza umana e cristiana: “Quello che aveva di più caro, o che di più caro aveva avuto”. Non dunque banalmente e moralisticamente la “verginità”, ma piuttosto la sua sessualità coniugale, ciò che aveva di più caro appunto, e che aveva già deciso di celebrare attraverso il sacramento del Matrimonio.
Del resto era stata la stessa Lucia, su suggerimento di padre Cristoforo, a volere anticipare le nozze: “Fu allora che mi sforzai, – proseguì, rivolgendosi… a Renzo, senza alzargli però gli occhi in viso, e arrossendo tutta, – fu allora che feci la sfacciata, e che vi pregai io che procuraste di far presto, e di concludere prima del tempo che s’era stabilito. Chi sa cosa avrete pensato di me!”. Ancora una volta l’irresistibile pudore di Lucia, gli occhi bassi, il proverbiale rossore.
E sarà ancora lei, in chiusura, a sigillare il romanzo nel nome dell’amore. Nelle ultime battute del libro Renzo ricorda tutte le avventure e i pericoli corsi: “Ho imparato, – diceva, – a non mettermi ne’ tumulti: ho imparato a non predicare in piazza: ho imparato a guardare con chi parlo: ho imparato a non alzar troppo il gomito: ho imparato a non tenere in mano il martello delle porte, quando c’è lì d’intorno gente che ha la testa calda: ho imparato a non attaccarmi un campanello al piede, prima d’aver pensato quel che possa nascere. E cent’altre cose”. A cui Lucia risponde: “e io… cosa volete che abbia imparato? Io non sono andata a cercare i guai: son loro che sono venuti a cercar me. Quando non voleste dire, – aggiunse, soavemente sorridendo, – che il mio sproposito sia stato quello di volervi bene, e di promettermi a voi”. È questa l’unica vera dichiarazione d’amore del romanzo. E viene dalla madonnina infilzata Lucia Mondel
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