Prostituzione

“Sono solo una prostituta, c’è speranza anche per me?”

pozzanghera

Storia di Michela raccontata da Ida Giangrande

È il mestiere più vecchio del mondo. Qualcuno dice che sia anche il più remunerativo. Un lavoro come tanti altri, dove la merce in vendita è il corpo. Mi chiamo Michela e sono una prostituta.

È difficile ammetterlo. Una verità che ti brucia dentro come un tizzone ardente e fa male ogni volta. Sempre di più. Anche se nella vita non hai conosciuto una realtà migliore, sai che esiste una dimensione in cui ci si può guardare allo specchio senza vedere il nulla. Eppure, sono la più vecchia tra le mie colleghe. Qualcuna è proprio giovane, quasi una bambina, se chiudo gli occhi mi rivedo a saltellare tra gli sparuti cespugli di erbetta della mia terra. Un campo abbandonato dietro un ammasso di ferraglia arrugginita spacciato per stazione ferroviaria. Giocavo con le bambole. Una bambola, per la precisione. Rotta, ma sempre una bambola. Ho un passato difficile, ma tutte quelle che ho conosciuto fino a questo momento ne hanno uno. Rumene, polacche, italiane, ma soprattutto nigeriane e sudamericane. Ne stanno arrivando a fiotti ultimamente sui barconi, che – se non affondano durante il tragitto – arrivano in Sicilia. Qualcuno mi ha detto che gli scafisti non fanno partire le barche se non sono sicuri di aver caricato una bella fetta di carne fresca da vendere al mercato nero della prostituzione. 

Le donne arrivano terrorizzate e quando si rendono conto che la realtà è peggiore di qualsiasi incubo, ti guardano come per chiederti aiuto. Tu capisci che l’unica cosa da fare è insegnare loro ad accettare la brutalità con il disincanto e il distacco. Una mistura esplosiva, che facilmente diventa odio per il cliente di turno, per il protettore, che in fondo tanto protettore non è, visto che ti lascia sola sul ciglio di una strada malamente illuminata. Può fare freddo, piovere, può brillare alto un sole in grado di sciogliere anche le pietre, lui è lì a proteggere i suoi interessi. Non i tuoi. Poi leggi di qualcuna che è morta per mano di uno psicopatico, la gente fa spallucce, perché tanto era una prostituta. Solo una prostituta. Se l’è cercata. Le donne vere, quelle che possono denunciare un abuso sono altre, sfilano sotto il naso nella loro auto in corsa verso posti di lavoro rispettabili, con le loro vite rispettabili. Se ti vedono si girano dall’altro lato e distraggono i figli perché non si accorgano di niente. Perché non si accorgano di te. Forse lo farei anch’io nei loro panni. In fondo, una madre deve fare in modo che il proprio bambino conosca il lato brutto della vita il più tardi possibile. Qualcun’altra invece ti guarda incuriosita, raccapricciata mentre immagina le scene che io vivo ogni giorno, chiedendosi: «Ma come fa? Com’è possibile per una donna accettare un degrado simile?». Io vorrei tanto risponderle: hai ragione, sorella mia, non è possibile accettarlo. Non lo si accetta mai. È che la vita è un tiranno intollerante. Una chiesa senza Dio. Hai bisogno di soldi, perché la fame spesso è più dura di quello che fai sulla strada. Hai bisogno di andare lontano per non tornare indietro da dove sei venuta, perché il tuo passato è più sporco dell’abitacolo di quella macchina dove ogni volta se ne va via un pezzo della tua dignità. Non sei tu è solo il tuo corpo. Ti è stato dato perché ti servisse e ora mi serve per mangiare.

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Non è tuttavia così difficile per tutte. Ne ho conosciute tante di signore come me. Siamo un universo nascosto, parallelo, che vive all’ombra di quello giusto, in grado di essere illuminato dalla luce del sole. Noi siamo le lucciole della notte, ma anche di giorno nessuno ci vede, perché dove siamo noi è sempre notte.

Alcune che lo fanno per scelta, ne hanno passate talmente tante che hanno perso l’uso della ragione, il senso del decoro e della decenza e sembra quasi che si divertano a farlo. Altre invece sono costrette con la forza. Bambine o poco più, importate come carne da macello da qualche terra di nessuno nel sottoscala del mondo, dove si conservano in genere le cose che non servono più o che sono troppo vecchie e per questo incapaci di essere utili a qualcuno. Arrivano sulla strada con il viso gonfio di botte, barcollando sulle gambe come in preda alla droga e in realtà sono solo stordite, disperate, sconvolte. Donne di cui non si parla più, perché questo mestiere è nato subito dopo il peccato originale e resterà fino alla morte della terra. Non c’è legge o sgombero che possa aiutarci, perfino le gazzelle della polizia passano dritto e qualcuno si ferma a chiedere quanto viene. 

Sulla strada guardavo spesso la mia immagine riflessa nella pozzanghera davanti ai miei piedi. Da quando ho cominciato a fare quello che faccio, non amavo più guardarmi allo specchio ma in quel momento mi sembrava facile, perché l’acqua si muoveva e la mia immagine si sbiadiva tra quelle piccole pieghe, poi arrivava una macchina e la prendeva apposta per schizzarmi. Io restavo ferma e non mi muovevo, quasi non sentivo le scintille d’acqua che mi trivellano i vestiti. La mia figura in quella pozzanghera sgranata mi piaceva di più, rifletteva quello che avevo dentro: caos, ambiguità, disagio, sdoppiamento, mortificazione. Non so quando sia successo ma a un certo punto mi sono persa nell’indifferenza del mondo, in quell’anonimato freddo dove si stipano le figure che non hanno bisogno di nome perché si classificano da sole. Ci sono i delinquenti, i markettari e me. Io sono una prostituta e tanto basta a questo universo per riconoscermi. Cammino su questa terra, sorrido e respiro come tante altre e allora mi chiedo: esiste una speranza anche per me? 

È una domanda che mi pongo ancora adesso che sono fuori dal giro. Ho smesso di specchiarmi in quella pozzanghera, ma il mio volto rimane ancora infangato e in ogni schizzo nero che mi ritrovo spruzzato sulla pelle rivedo, una ad una, le compagne di sventura che ancora languono sul ciglio della strada. Quante di loro troveranno la via del ritorno? Quante invece al termine di una lunga lotta per la sopravvivenza, decideranno di farla finita? Ci vuole coraggio per raccontare storie come la mia. Ho usato un nome inventato, non ho inviato foto, nessuno può arrivare a me, perché non è di me che voglio parlare raccontando la mia storia. Voglio solo squarciare il velo dell’ipocrisia che separa le prostituite dalle donne, che le rende meno rispettabili, meno degne, meno tutto… Vorrei solo poter immaginare un mondo dove non ci siano più prostitute, dove la devianza sessuale è curata non assecondata, dove non ci sia più spazio per “mestieri” tanto subdoli e degradanti, dove ogni donna possa essere tratta con amore, diventare madre e vivere serena. Forse la mia è un’utopia, ma io ce l’ho fatta e se ci sono riuscita io allora possono riuscirci tutte.

 




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