Cultura
L’amore è anima e carne, Dante anticipa la teologia del corpo
di Gianni Mussini
Quanta sapienza cristiana c’è nascosta nelle pagine della celebre letteratura? Oggi primo appuntamento con il nuovo blog di Gianni Mussini, “Da cielo in terra: la sapienza nascosta delle parole”. Si parte con la figura immortale della Beatrice dantesca colei che “par che sia una cosa venuta da cielo in terra a miracol mostrare”.
Abbiamo letto tutti a scuola almeno un paio di testi della Vita nuova di Dante, sorta di romanzo di formazione scritto in prosa e versi (cioè un “prosimetro”) che è espressione della nuova sincerità poetica del Dolce stil novo. In questa opera il poeta, ancora giovanissimo, racconta appunto la storia del suo amore per Beatrice, dalle prime fasi legate ancora agli stereotipi della lirica cortese sino alla scoperta delle cosiddette rime della loda.
Attraverso una simbologia tipicamente medievale, Dante spiega di avere visto per la prima volta Beatrice a nove anni (nove è il multiplo di tre, il numero della Trinità), ricavandone un’impressione indelebile. La rivede dopo altri nove anni, ricevendone un saluto in cui – come da etimo – riconosce la propria salute, cioè latinamente la salvezza. È innamoramento vero, ma si tratta anche di figure tipiche dell’amore cortese, così come i passaggi successivi delle donne schermo, che dovevano celare (termine tecnico) il sentimento dei due giovani, preservandolo dai pettegolezzi. Con una di queste donne il poeta porta però così avanti la finzione da suscitare la reazione di Beatrice, che gli nega il saluto, cioè la salute. Dante è affranto dal dolore e dalla vergogna, tanto più dopo che in un’occasione l’amata, vedendolo in quello stato, sorride di lui con alcune amiche: probabilmente un sorriso indulgente più che di scherno, ma egualmente esso viene avvertito come un terribile gabbo.
È a questo punto che Dante esce dalla sua condizione dolorosa attraverso un’intuizione tanto semplice quanto portentosa: non conta che l’amore sia ricambiato, basta esprimerlo lodando incessantemente la donna amata. Come avviene in questo che è il più noto forse dei sonetti danteschi:
Tanto gentile e tanto onesta pare
la donna mia, quand’ella altrui saluta,
ch’ogne lingua deven, tremando, muta,
e li occhi no l’ardiscon di guardare.
Ella si va, sentendosi laudare,
benignamente e d’umiltà vestuta,
e par che sia una cosa venuta
da cielo in terra a miracol mostrare.
Mostrasi sì piacente a chi la mira
che dà per li occhi una dolcezza al core,
che ‘ntender no la può chi no la prova;
e par che de la sua labbia si mova
un spirito soave pien d’amore,
che va dicendo a l’anima: Sospira.
Il linguaggio è ancora oggi fruibile, privo di vocaboli peregrini (ecco uno dei miracoli della nostra lingua che, essendo di origine letteraria, è stata soggetta molto meno delle altre all’inesorabile usura che nel corso dei secoli ha ‘consumato’ e modificato per esempio il francese o l’inglese, parlate da milioni di persone). Bisogna però stare attenti a quelli che oggi si definiscono i “falsi amici”. Nel contesto stilnovistico infatti, come ci insegna Gianfranco Contini, gentile non significa come oggi “cortese, bene educato”, ma “nobile d’animo”; quanto a onesta, vale “degna di onore”; il termine pare, infine, sta per “appare” e fa sistema con il lemma mostrare, non a caso ripetuto alla fine della seconda quartina e all’inizio della prima terzina: costituisce dunque il cuore concettuale della poesia, imperniata sulla manifestazione esteriore dell’oggetto dell’amore. Il verbo parere è infatti presente in ogni strofa tranne la terza, dove viene surrogato – come abbiamo appena visto – da Mostrasi; analoga la funzione di vestuta, che esprime appunto il modo in cui fisicamente la gloria ‘veste’ la donna; infine labbia vale “fisionomia”, più che “labbra”: è tutta la donna a promanare quello “spirito soave” su cui si chiude il sonetto. Attenzione anche a cosa, che mantiene l’etimo forte del latino causa, indicando cioè una realtà dinamica, non statica: Beatrice è strumento efficace di qualcosa che la supera ed è venuta, in una sorta di incarnazione, “da cielo in terra a miracol mostrare”.
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La gratuità disinteressata delle rime della loda infonde in Dante una profonda pace interiore, che non viene scalfita neppure dall’improvvisa morte di Beatrice (già presagita in sogno). Nell’inevitabile dolore, il poeta trova nella filosofia una preziosa consolazione: l’amore che prova è ora parte dell’eternità e nulla potrà mai più minacciarlo. In conclusione della Vita nuova Dante si propone di non scrivere più di Beatrice sino a quando non saprà “dicer di lei quello che mai non fue detto d’alcuna”. E dove potrà succedere una cosa simile? Secondo i commentatori nella Divina Commedia, dove Beatrice diventa allegoria e strumento della Grazia divina che efficacemente aiuta il poeta nel suo pellegrinaggio ultraterreno accompagnandolo dal Purgatorio al Paradiso; dopo che il pagano Virgilio, allegoria della ragione e della saggezza umana, lo ha fedelmente seguito attraverso l’Inferno e buona parte della seconda cantica.
L’apparizione di Beatrice nella Divina Commedia avviene nel canto XXX (vv. 31-39) del Purgatorio in un vero e proprio ‘trionfo’:
… dentro una nuvola di fiori
che da le mani angeliche saliva
e ricadeva in giù dentro e di fori,
sovra candido vel cinta d’uliva
donna m’apparve, sotto verde manto
vestita di color di fiamma viva.
E lo spirito mio, che già cotanto
tempo era stato ch’a la sua presenza
non era di stupor, tremando, affranto,
sanza de li occhi aver più conoscenza,
per occulta virtù che da lei mosse,
d’antico amor sentì la gran potenza.
Da notare nella prima parte i tre colori delle vesti di Beatrice, bianco rosso verde, che alludono alle tre virtù teologali (Fede, Speranza e Carità). Ma per il nostro discorso sono più interessanti le ultime due terzine, che rivelano l’amore incarnato per una creatura incarnata: stupor, tremando, affranto, antico amor, gran potenza. Come si vede, è un amore che pulsa nell’anima e nel corpo, altro che la Beatrice creatura eterea di cui hanno parlato troppi manuali scolastici! Ed è proprio questa ‘fisicità’ a garantire il valore allegorico della donna, secondo il dettato di quel “realismo figurale” individuato da Erich Auerbach, maestoso critico tedesco del secolo scorso, come chiave di interpretazione della Divina Commedia.
Ma Dante aveva rappresentato questo tipo di amore anche in una dimensione non allegorica, nel famoso episodio di Paolo e Francesca (canto V dell’Inferno, vv. 127-138):
Noi leggiavamo un giorno per diletto
di Lancialotto come amor lo strinse;
soli eravamo e sanza alcun sospetto.
Per più fiate li occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse.
Quando leggemmo il disiato riso
esser basciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,
la bocca mi basciò tutto tremante.
Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante.
Anche questa è storia nota, ne ha parlato persino Antonello Venditti in una fortunata canzone. Costretta a sposare Gianciotto Malatesta, secondo la logica perversa dell’amore cortese, che prevedeva matrimoni combinati riservando solo ai rapporti extraconiugali il beneficio della sincerità sentimentale, si innamora fatalmente del cognato Paolo. L’occasione è quella raccontata qui sopra. I due stanno leggendo (intimamente vogliono leggere) la storia di Lancillotto che riesce ad amare Ginevra, la moglie di re Artù, attraverso la mediazione di un certo Galehaut (il Galeotto di Dante): il momento fatale del bacio scatena quasi per emulazione la passione di Paolo e Francesca. Il ruolo di Galeotto è dunque svolto in questo caso dal libro. Sappiamo poi dallo stesso poeta, e dalle cronache, che i due amanti saranno fatti uccidere da Gianciotto.
Da notare che in tutto questo episodio è evidente e quasi coinvolgente una certa simpatia di Dante per i due dannati, che – nel nome dell’irresistibile sentimento – ha poi contagiato legioni di lettori, sino appunto al già ricordato Venditti. Ma attenzione, si può parlare di simpatia solo nel senso etimologico di “patire insieme”, perché qui la posta in gioco è grossa: nel peccato di Paolo e Francesca il poeta riconosce il proprio, cioè l’adesione giovanile a quegli stessi principi dell’amore cortese che ora liquida collocando nell’Inferno i due cognati. Non per caso in tutto quel canto ricorre più volte il termine pietà, da intendersi non solo come “compassione” ma anche come “angoscia”: il poeta vive e soffre sulla propria pelle il peccato commesso, frutto di un errore teorico, vale a dire l’adesione a una concezione sbagliata, destinato a produrre miriadi di errori pratici. (È naturalmente fatta salva la misericordia infinita di Dio, attiva – lo dice il Catechismo della Chiesa Cattolica – in particolare sulle cadute che sono effetto di umanissime debolezze).
In ogni caso, quello del bacio tra Paolo e Francesca è “il più bel verso d’amore che sia stato scritto” a giudizio del poeta novecentesco Umberto Saba, il quale in una sua prosa genialissima ne mette in luce il perfetto equilibrio di “tenerezza e sensualità”, che non si trova – a suo dire – nel Canzoniere di Petrarca (tutto dedicato all’amore del poeta per l’inattingibile Laura): stilisticamente perfetto ma sentimentalmente algido (manca la sensualità). Mi pare che Saba colga bene l’aspetto incarnato dell’amore dantesco, che è poi quello dell’amore cristiano, fondato appunto su una suprema Incarnazione. Il meccanismo è così spiegato e approfondito da Saba in un altro passo, dedicato alle diverse forme di espressione letteraria: “Di una poesia non resta solo, come di una prosa, lo spirito che l’animava, ma anche la materia in cui s’è incarnato; non è la commemorazione dei protestanti, ma l’ostia del rito cattolico; tutto il corpo e tutta l’anima del Signore”. Raramente noi cattolici sappiamo essere così persuasivi!
Saba parlava d’amore in termini puramente umani (non aderendo a una religione positiva), ma ha colto molto bene il fondamento dell’eros coniugale, quasi anticipando spunti della Teologia del corpo di san Giovanni Paolo II, ripresa ora con vigore da papa Francesco nell’Amoris Laetitia.
Ma torniamo alla nostra Divina Commedia per un’ultima importante riflessione. Ritrovata la sua Beatrice nel passo che abbiamo sopra riportato, Dante dovrà subire dall’amata una dura reprimenda per i tradimenti consumati (ancora una volta: altrochè creatura eterea!), prima di seguirla sino alla “mirabile visione” di Dio che tutto pacifica. Abbiamo detto sopra che Beatrice è allegoria della Grazia divina eccetera eccetera… Bisognerebbe però precisare che in una famosa pagina del Convivio, Dante spiega quali siano i “quattro sensi” in cui intendere le scritture: letterale, allegorico, morale (cioè il succo etico che se ne ricava) e finalmente anagogico, ovvero “quando spiritualmente si [e]spone una scrittura”. È vero che da sempre, e per suggestione di una lettera dello stesso Dante (al suo protettore Cangrande della Scala), i due ultimi significati vengono inglobati in quello allegorico, anche per una forma di comodità didascalica. Resta però il fatto che pure da sempre il significato anagogico è stato trascurato dai commenti danteschi, che così hanno finito per tradire la vera ispirazione dell’autore, intrisa di sapienza cristiana (è come se si leggessero le magnifiche Lettere dal carcere di Gramsci censurandone l’ispirazione comunista).
Ha però potentemente corretto il tiro Anna Maria Chiavacci Leonardi, grande studiosa dantesca scomparsa pochi anni fa, alla quale si devono memorabili commenti della Divina Commedia, finalmente restituita alla sua pienezza di grande poema cristiano. Commenti scolastici (ma anche un dottissimo Meridiano Mondadori) da raccomandare agli insegnanti e a tutti i non pochi appassionati di Dante.
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