Separazione

“Ieri eri qua ora dove sei, papà?”

di Giovanna Abbagnara

Non c’è niente di peggio che affrontare l’infanzia e l’adolescenza senza la presenza dei genitori o con l’assenza di uno dei due. Sentirsi voluti e amati da chi ti ha dato la vita ed è pronto al tuo fianco a donarti il senso di questa vita è un diritto di tutti i figli. Non possiamo continuare ad ignorarlo in nome dei desideri degli adulti con tutto il rispetto per la storia di ciascuno.

Di solito mi capita di dire ai fidanzati ai corsi di preparazione al matrimonio, una frase ad effetto che ho sentito qualche tempo fa da un amico psicologo: “Il primo figlio della coppia è la coppia stessa”. Di solito mi guardano sbigottiti. Dopo un attimo di disorientamento, quando con amore li invito a prendersi cura della relazione di coppia e a nutrirla proprio come si fa con un bambino piccolo, distendono le fronti corrucciate, si prendono per mano, si guardano negli occhi e in quella intesa c’è tutto il desiderio di non trascurare mai il loro amore.

“Certo” penso tra me “fino all’arrivo del primo figlio o della promozione lavorativa…”. Purtroppo le crisi arrivano e con esse il desiderio di scappare, di fuggire lontano dal perimetro della propria vocazione (matrimonio) e se non c’è nessuno che tende una mano, che faccia da rete, che sia disposto a farsi compagno di viaggio, spesso si sceglie la strada più semplice: “Separiamoci!”. È facile trovare intorno alla coppia in crisi, chi inneggia e incoraggia questa scelta che da 30 anni dà ad un uomo o una donna il diritto di chiedere la separazione o il divorzio. Guai a mettere in discussione la conquista di civiltà! Si rischia il linciaggio. Peccato che come spesso avviene, il diritto di un uomo e di una donna “di essere felice” si scontri con l’obbligo di un figlio di soffrire per la separazione dei genitori.   

Sono letteralmente stufa di ascoltare fiabe di bambini felici di trascorrere i week end una volta dal papà e uno dalla mamma, stufa di pubblicità e telefilm che fanno vedere la felicità delle famiglie allargate dove la mamma si è risposata, il papà ha una nuova compagna, semmai figli nati da queste relazioni e tutti felici e contenti.

La canzone di Mahmood che ha vinto quest’anno il Festival di Sanremo l’avete ascoltata davvero? O l’avete liquidata anche voi come la canzonetta orecchiabile che ha vinto per l’integrazione razziale? Strumentalizzata a più non posso da giornalisti che l’hanno proclamata l’inno della sinistra in un momento di razzismo imperante. Non parliamo poi del genere musicale. Il trap, arrivato a Sanremo condito di immigrazionismo, buoni sentimenti e conformismo, è fatto passare non più come la canzone della notte di Coriano ma il motivo da ripetere sottovoce in ogni momento della giornata ed ecco servito su un vassoio d’argento un genere sconosciuto che ora tutti amano.

Al di là delle strumentalizzazioni, questo ragazzino di 24 anni, che innalza la sua coppa al cielo e piange dedicandola alla mamma, mi ha fatto riflettere molto con la sua canzone. Soldi, titolo con cui l’autore l’ha presentata, racconta il dramma interiore di un ragazzo che ha sofferto moltissimo perché il padre egiziano si è separato dalla madre sarda quando lui aveva sei anni. Rassicura la mamma che per lui ha fatto grandi sacrifici: “Mamma stai tranquilla sto arrivando”, “Ti sembrava amore e invece era altro” e poi scarica tutta la sua rabbia di bambino ferito “Mi chiede come va, come va, come va. Sai già come va, come va, come va” e aggiunge “Penso più veloce per capire se domani tu mi fregherai”.

Abbiamo qui l’immagine di un figlio che ha dovuto capire troppo in fretta che l’amore ti frega, ti tradisce, ti lascia solo. “Dimmi se ti manco o te ne fotti, fotti” chiede di avere un posto nel cuore del padre “Ciò che devi dire non l’hai detto. Tradire è una pallottola nel petto”, capisce che il tradimento è come una ferita che non si rimarginerà più. “È difficile stare al mondo, quando perdi l’orgoglio” è difficile crescere senza un padre che ti difende, che ti rassicura, che ti fa sentire che appartieni a qualcuno, che ti insegni ad andare in bicicletta.

Tutto questo dolore la stampa lo ha ignorato. Perché parlare della sofferenza di un figlio dopo la separazione? Meglio porre l’accento sull’immigrazione, che interessa alla sinistra radical chic. Ad un certo punto nella canzone, Mahmood inserisce una frase in arabo, è l’unica che ricorda della sua infanzia, pronunciata dal padre: “Figlio mio, figlio mio, amore vieni qua”. E poi alla fine del testo, c’è il momento in cui si comprende che sta parlando del padre: “Ieri eri qua ora dove sei, papà”. È la domanda che si fanno tutti i bambini piccoli quando non vedono più quotidianamente la mamma o il padre e devono fare i conti con un’assenza, con un vuoto che non sanno comprendere.

Un giorno ad un incontro con i giovani ho parlato della bellezza e del coraggio del “per sempre”. Ho chiesto loro se quando dichiarano ad una ragazza il proprio amore dicono: “Vuoi stare con me fino al 2020?”. E tutti mi hanno risposto: “Certo che no! È una cosa bruttissima!”. Un ragazzo si è alzato e se ne è andato fuori. Alla fine l’ho avvicinato e gli ho chiesto: “È stato così orribile quello che ho detto?”. E lui mi ha risposto: “No, ho sentito che anche io voglio un amore per sempre ma ho paura. Ho paura di fallire se un giorno avrò un figlio. Io ho sofferto molto per la separazione dei miei genitori. L’amore è una grande buffonata”.

Da adulti non possiamo far finta di nulla. C’è un grande vuoto su questo aspetto. Non si parla perché si ha paura di mettere in discussione il diritto di essere felice dopo il fallimento di un matrimonio o peggio si pensa che con un po’ di psicoterapia tutto si rimette al proprio posto. I pezzi di un cuore tradito purtroppo no. “Ieri eri qua ora dove sei, papà?”, un figlio se lo chiede anche da adulto.

 




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