Il senso del dolore

Nel buio del male, il senso più profondo degli affetti

affetto

di Michela Giordano

Una notizia negativa sconvolge la mia famiglia. In un attimo è tutto un gran caos da risistemare. Ti chiedi perché e poi, nel baratro, riscopri il senso vero delle cose e delle persone.

Sono così stanca in questi giorni. Stanca e preoccupata, piena di affanni: in famiglia c’è un’emergenza sanitaria e la casa è tutta da riorganizzare. Io e le mie sorelle arriviamo a fine giornata con un solo desiderio, dormire e riposare, se possibile. Nei primi momenti, almeno per me, la tentazione è stata quella di urlare: “Ma perché a noi?”. Quando vedi soffrire qualcuno che ami, la sensazione è che tu solo conosca il dolore; che non esista, nell’universo, nessun altro che combatta la medesima battaglia. Ti accartocci attorno a quella sofferenza e ne fai benzina per alimentare la terribile macchina dell’aggressività. Basterebbe guardarsi attorno, spingere oltre se stessi lo sguardo, per capire che è tutto sbagliato: in ogni casa c’è una croce da portare, non c’è famiglia che non affronti affanni e sofferenza.

Nessuno ha il primato del dolore. E allora c’è poco da fare: quando si incappa in una sfida occorre affrontarla, mettendoci impegno e grinta. Basta lamentarsi e… vada come vada. Che poi non è tutto male nel male. Lo avevamo già sperimentato 10 anni fa con la malattia di papà, lo stiamo riscoprendo oggi, noi sorelle: al cospetto della sofferenza, siamo più unite, più forti. Non c’è spazio per recriminazioni o lacrime: insieme ci diamo la determinazione giusta per fare tutto quello che c’è da fare.

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Non siamo sole. Tanto affetto ci sta accompagnando. Ci arriva tutto, avvolgente come una carezza. Tante preghiere ci sostengono. Ci aiutano a non vacillare. Nel male scopri il bene di rivedere l’elenco delle priorità, di lasciare andare il superfluo, di ritrovare il senso più profondo degli affetti di familiari e amici. Troppe cose diamo per scontate. Tutti dovrebbero entrare, almeno una volta nella vita, (da visitatori, per carità) in un reparto oncologico: impareremmo a non lamentarci d’o’ superchio, come diceva mia nonna. Quanta umanità in questi luoghi di dolore. Si crea, tra personale, pazienti e familiari, una piccola comunità che si scambia angoscia e speranza, paura e grinta. Sorvolo sulle difficoltà di trovare un aiuto retribuito e contrattualizzato in casa: mi si è aperto un mondo, davanti, fatto di tanta brava gente, desiderosa di lavorare, ma anche di furbetti, che volevano sommare una paga a nero a pregresse o future forme di sostegno dallo Stato. È stato più complicato del previsto, ma questo lo sapevo già: il rispetto delle regole rende, spesso, la vita più complicata. Ma va bene così.

 




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