Zaccheo
Zaccheo, quando la rinascita interiore parte da uno sguardo
di Gianni Mussini
Oggi ultimo appuntamento con l’alfabeto di Gianni Mussini: “Le cose importanti della vita hanno a che fare con uno sguardo e anch’io, come Zaccheo, una volta fui guardato e riconosciuto. Da chi? Da san Giovanni Paolo II”.
L’episodio è noto. Il capo dei pubblicani, gli spregiudicati esattori al soldo dei Romani invasori, sente dire che Gesù sta entrando in Gerico, la città in cui abita. È abituato a fare i propri interessi, a frodare impunemente il prossimo tanto così fanno tutti… Chissà, forse comincia anche a provare il tarlo della noia dinanzi allo scorrere inarrestabile della vita. Perché, nonostante quello che si dice, il peccato non è poi così divertente e alla lunga stanca. Ma è proprio in questa inquietudine la risorsa salvifica del pubblicano: non si accontenta di vivere così, desidera invece una pienezza che soldi e potere non possono neppure lontanamente procurare. Cerca qualcosa che abbia un senso e dia felicità. Deve aver sentito parlare del Maestro, dei suoi miracoli e della misericordia che dispensa con inaudita prodigalità. E decide fulmineo di volerlo vedere.
L’evangelista Luca (19,1-10) ci tratteggia in poche sapienti battute questo personaggio che, piccolo di statura e sovrastato dalla folla, decide di arrampicarsi sopra un nodoso sicomoro per godersi lo spettacolo. La sua curiosità è premiata. Gesù alza lo sguardo e gli dice: «Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua». Con questo «devo fermarmi», inesorabile come una grazia, prende avvio una delle storie più belle di tutti i Vangeli: nonostante le mormorazioni dei farisei, il pubblicano ha il cuore «pieno di gioia», ospita Gesù e si impegna a una radicale conversione («Ecco, Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto»). La conclusione del passo rimodula la parabola del Figliuol prodigo, raccontata da Luca solo qualche capitolo prima, insistendo sulla misericordia di Cristo «venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto».
Piccolo di statura, Zaccheo ha dunque un cuore grande. Scopre forse di averlo sempre avuto, bisognava solo liberarlo da quelle impalcature che l’interesse e l’egoismo avevano silenziosamente eretto intorno a lui, forse persino dentro di lui. Ma ciò che lo salva veramente non è neppure questo cuore, tanto meno un giudizio etico. La parola chiave del passo è infatti vedere, alludendo a uno sguardo (quello di Zaccheo e, ancor più, quello di Gesù) che ha un profondo valore conoscitivo, garantendo un incontro personale: il buono inizia dal bello e viene espresso attraverso di esso. Dopo tutto l’etimo della parola estetica viene dal greco aistetikòs, ovvero «capace di sentire per mezzo dei sensi»: è la bellezza ricca di significato che secondo la profezia di Dostoevskij salverà il mondo…
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Se ci pensiamo, le cose importanti della vita hanno a che fare con uno sguardo di questo tipo: quello con cui il neonato comincia a riconoscere, amandola, la madre; quello che si riconosce sul volto dell’innamorata; quello compassionevole con cui aiutiamo qualcuno; quello con cui ammiriamo un’opera d’arte, un paesaggio… A quest’ultimo proposito, ricorderò sempre l’insegnamento della mia professoressa di quinta ginnasio: «Nei Promessi sposi – ci ripeteva – i personaggi positivi riconoscono e amano il paesaggio; quelli negativi lo ignorano». Giusto. Ricordate Renzo che cammina furente verso Milano, dopo aver lasciato Lucia al convento di Monza? Sale a un certo punto sul ciglione della strada e non può fare a meno di ammirare incantato «la gran macchina del Duomo». Analogo stupore più avanti quando, fuggendo verso Bergamo, dopo una nottata trascorsa praticamente all’addiaccio vede nel «cielo di Lombardia, così bello quando è bello» la promessa di una positiva soluzione dei suoi travagli. Don Abbondio invece, durante la sua solita passeggiata mentre biascica le preghiere del breviario ed è impegnato a scansare i ciottoli che gli fanno da inciampo, non ha tempo per la bellezza: i suoi occhi, «girati oziosamente» verso occidente, non sanno vedere il magnifico tramonto che ci presenta Manzoni: «La luce del sole già scomparso, scappando per i fessi del monte opposto, si dipingeva qua e là sui massi sporgenti, come a larghe e inuguali pezze di porpora». No. Don Abbondio non sarebbe mai salito su quel sicomoro…
Torniamo dunque a Zaccheo, notando però che non ha goduto della fortuna letteraria e artistica di altre figure evangeliche. Su di lui ricordo una fortunata filastrocca per bambini in lingua inglese e una poesia dello scozzese George MacDonald (1824-1905), scrittore e ministro di culto protestante che ispirò grandi autori cristiani del Novecento come Tolkien e C. S. Lewis. In questa sua poesia, MacDonald ripercorre in rapide quartine il passo evangelico, facendone una sorta di parafrasi in versi e illustrando con vivezza il protagonista, sino all’arguta conclusione:
‘Salvation here is entered in;
This man indeed is Abraham’s son!’
Said he who came the lost to win –
And saved the lost whom he had won.
Ovvero: «’La salvezza è entrata proprio qui; / Quest’uomo è davvero il figlio di Abramo!’ / Disse egli [Cristo] che era venuto a vincere chi era perduto / E a salvare il perduto che aveva vinto».
Per il resto, poco o nulla. Colpisce così, e torna a suo merito, che un autore scaltrito e dai gusti raffinatissimi come Eugenio Montale abbia voluto dedicare proprio al nostro personaggio una brevissima lirica intitolata appunto Come Zaccheo e compresa nel suo Diario del ’71. Sia pure scettico l’assunto (il poeta non riesce a vedere il Signore), dimostra comunque la vitalità dell’immagine evangelica, che mantiene inalterata quella tensione estetica di cui abbiamo parlato prima:
Si tratta di arrampicarsi sul sicomoro
per vedere il Signore se mai passi.
Ahimè, non sono un rampicante ed anche
stando in punta di piedi non l’ho mai visto.
Anche in Iride (raccolta La Bufera e altro) compare un sicomoro ispirato, sia pure in modo più mediato, al nostro passo evangelico. Ricordato invece esplicitamente in un articolo scritto da Montale per il Corriere della sera in occasione del viaggio di Paolo VI in Terrasanta (gennaio 1964). Vale la pena di riprenderne qualche spunto per capire l’attenzione del poeta, che sarà Nobel nel 1975, per la grande eredità del Cristianesimo:
Nel viaggio di ritorno Paolo VI sosterà a Cana, dove battezzerà un bambino, e a Ramla, dove nacque Giuseppe d’Arimatea. Si pensa che gli sarà mostrato il sicomoro sul quale si arrampicò Zaccheo per vedere Gesù.
Ma non manca una notazione religiosamente rispettosissima:
A chi mi chiede se un viaggio in Terrasanta riesce a confermare o a infiacchire la fede di un cristiano d’altre terre io posso rispondere: ai cristiani di scarsa fede il viaggio sarà certamente utile, perché solo un cieco e un sordo potrebbero negare che qui qualcosa è accaduto, qualcosa molto più importante della scoperta dell’America e della dichiarazione dei diritti dell’uomo.
Resta da dire che lo scettico Montale volle i funerali religiosi (celebrati nel Duomo di Milano dal Cardinal Martini) e, come testimonia la nipote prediletta Bianca, teneva sempre nel portafoglio un santino con un’Adorazione dei Magi accompagnata dalla scritta: «La bontà di Dio si è manifestata in Cristo».
Da parte mia, per quello che conta, ho vissuto un piccolo episodio alla Zaccheo intorno alla metà degli anni Novanta. A Roma in gita scolastica, ci intrufolammo in San Pietro per una funzione riservata a pellegrini nordamericani. Con i miei ragazzi mi spostai sul transetto sinistro. Eravamo in piedi, ma davanti c’erano solo fedeli seduti. Così, quando papa Woitila venne verso di noi per prendere qualcosa da un leggio, io che – alto un metro e 87 centimetri – posso considerarmi un piccolo sicomoro ambulante, lo salutai vigorosamente agitando un braccio. Avevo una giacca a vento colorata, da battaglia. Il Papa mi guardò, sorrise e mi fece un cenno di saluto forse con complicità montanara. Mi sarebbe poi capitato di incontrarlo personalmente per via dei miei incarichi nel Movimento per la Vita. Ma quella volta fu unica, perché io mi sentii riconosciuto proprio come Zaccheo.
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