Fecondazione in vitro

Generare figli? Non è più un’esclusiva dell’essere umano…

di Ida Giangrande

A quarant’anni dalla nascita della prima bimba in provetta è boom di nascite di figli da laboratorio.

La nascita della piccola Luise segnò una svolta storica nella storia dell’umanità, ma potremmo anche definirla un punto di non ritorno. Da quel momento in avanti si scoprì che i figli potevano essere messi a punto e fabbricati ad hoc dalle esperte mani degli scienziati e con l’aiuto delle più sofisticate tecniche di laboratorio. L’incontro tra un uomo e una donna, la capacità generativa dell’essere umano, la relazione affettiva e sentimentale tra i due volti della vita, sembrava destinata a diventare una moda superata.

Oggi a quarant’anni dalla nascita della signora Brown, facciamo il punto della situazione passando attraverso i numeri: sono otto milioni i bambini nati in provetta. Attenzione: non otto milioni di coppie che hanno risolto il problema della sterilità. Aiutare una coppia infertile ad avere figli usando le tecniche da laboratorio, non vuol dire infatti, risolvere la causa del problema, ma agire sugli effetti.

E quali sono state le ricadute della diffusione delle tecniche di fecondazione in vitro?  Embrioni creati ben oltre il necessario, per essere selezionati, congelati, eventualmente scartarti sulla base di una logica eugenetica di fronte alla quale qualcuno ha ancora la decenza di rabbrividire. Quando la tecnica sostituisce l’uomo non c’è più un limite da rispettare, è come scivolare giù in un pozzo senza fondo. L’ultima frontiera è il mercato degli essere umani: donne da affittare per nove mesi nel fiorente business della surrogazione di maternità e bambini da fabbricare su misura per essere venduti al committente di turno: che si tratti di coppie etero, gay o di genitori single fa poca differenza. I figli non si vendono, le donne non si affittano. Dovrebbero essere due delle più elementari regole del vivere civile, ma l’etica è diventata una zona grigia insapore, incolore e inodore.

In tutto questo marasma di sconfinamenti nell’inaccettabile c’è ancora un altro aspetto da sottolineare: malgrado decenni di ricerca e investimenti la percentuale di successi delle tecniche su scala mondiale si aggira attorno a un bambino nato ogni cinque cicli avviati. In Italia la relazione ministeriale sulla fecondazione artificiale nel 2016 parla di 13.582 nati (il 2,9% di tutte le 473.438 nascite) per 77.522 coppie e 97.656 cicli effettuati. Significa il 17,5% di successi, un tasso che in altri settori della medicina verrebbe considerato fallimentare.

Eppure i dati resi noti dall’ultimo congresso della Società europea di riproduzione umana ed embriologia (Eshre) parlano di una corsa continua al figlio in provetta arrivata alla soglia degli 800mila cicli e 160mila bambini nati ogni anno con meno di un quinto dei successi rispetto ai tentativi, dunque. Il Paese europeo più attivo è la Spagna con i suoi 120mila cicli.

Quarant’anni dopo Louise forse è arrivato il momento di invertire la rotta della nostra corsa, non più verso un bambino a tutti a costi, ma in direzione del recupero della fattore umano, apparentemente disperso nelle pieghe del delirio d’onnipotenza dell’umanità.




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