Vita
Nella Torre di Babele, il grido della vita
di Paola Bonzi
È venerdì mattina al Cav della Mangiagalli di Milano. La porta della stanza di Paola si apre e ad entrare è Elisabeth, una donna egiziana che non parla italiano. Il dialogo è difficile ma non è fatto di parole. A parlare è il mistero della vita custodito nel grembo.
Venerdì mattina, un bel caldo, la mia stanza, un po’ di musica e di profumo e un colloquio già fatto. Dalla segreteria accompagnano una donna: “Questa signora vorrebbe poter essere ascoltata, ma c’è un problema: non parla bene l’italiano”. Mi sento morire ma rispondo che me la mandino e che proveremo. Così arriva Elisabeth, le stringo la mano presentandomi e la invito ad accomodarsi. Quando lei inizia a parlare mi sembra che la cosa non sia così grave, forse potremo intenderci. Speranza vana. Dopo un po’ capisco che lei, quando parla, sembra intendere la nostra lingua, ma solo perché usa parole che conosce e che forse ha già ripetuto altre volte. Se parlo io tutto è molto diverso. Elisabeth non comprende nemmeno le frasi più facili. Nello sconforto più totale, penso al racconto biblico della Torre di Babele. Giudico infatti questa pagina come la narrazione di una grande sfida, che ha proprio il tenore del castigo. Troppo grande la pretesa di arrampicarsi fino al cielo per sfiorare la divinità! Era bella l’armonia degli uomini che volevano costruire insieme la grande città; ci si parlava e ci si capiva. Che meraviglia!
Io, davanti a Elisabeth che non mi capiva e che parlava una lingua per me assolutamente sconosciuta, ho proprio pensato alla piccola testa degli uomini e al loro grande orgoglio punito. Ecco la confusione, l’estraneità, le non relazioni e il tentativo da parte mia di ascoltare e parlare del piccolo bimbo. Mi sentivo un po’ arrabbiata per la verità, perché anche questa difficoltà? Già è così difficile parlare di quel piccolino che non si vede, che non si tocca, che non riusciamo a sentire. Rassegnata, mi siedo vicino a lei con il nostro magico libretto in mano e, trovata la pagina con la fotografia del bimbo a otto settimane di gestazione, cerco di farle capire, sfiorandole la pancia, che si tratta dell’immagine di un bambino come quello che lei sta aspettando. Mi guarda interrogativa, non capisce. Situazione impervia come scalare un montagna. Ancora tocco la fotografia del libretto e di seguito la sua pancia. Si accende in lei un barlume di comprensione. “Così mio figlio?” mi domanda. Abbiamo fatto un passo avanti. Elisabeth ora è di fronte a una realtà inconfutabile. A questo punto siamo al crocevia: “Nascerà questo figlio?”.
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Ripeto due tre volte questa drammatica domanda, sempre più preoccupata di non riuscire a capirci. Provo in un altro modo: “Elisabeth, lei è contenta?”. “Così, così” mi risponde. Mi viene una voglia disperata di gettare la spugna. Come si fa ad andare avanti in queste condizioni? Poi penso ai miei nipotini e ricomincio a lottare, mandando un po’ di accidenti a quelli della Torre, pur sapendo che il racconto è solo simbolico. Toccando ancora la fotografia, cerco di mostrarle la bellezza di un bimbo così piccolo e così perfetto. “Bello, non è vero?”. “Noi tanta fatica; marito vuole ma io grande paura”. Cerco allora di farle capire che noi l’aiuteremo, ci sarà tutto ciò che serve a una mamma e a un figlio e che glielo regaleremo. Nella stanza il condizionatore era acceso, ma mi sentivo la fronte e i capelli bagnati di sudore. “Tutto gratis?” domanda questa mamma che non possiede le parole per intenderci. Mi tocco più volte il petto dicendo “sì, sì”.
Forse siamo arrivati a una svolta decisiva: “Adesso glielo scrivo” e già la parola scrivere appare come un grande ostacolo. “Scrivere?” dice Elisabeth molto perplessa. E lì ricominciano i miei colpi sul petto per farle capire che ero io a voler scrivere un progetto di aiuto per lei. “Io però appuntamento, è tardi” dice lei. Anch’io avevo un appuntamento, la medicazione alla mia ferita che non vuol guarire. Tento di dire: “Allora venga un altro giorno”. E lei, mostrandomi un’agenda: “Tanti appuntamenti, tanti appuntamenti” ripete sfogliando le pagine. Sfinita, abbandono il campo e mi dirigo al computer. Apro un nuovo file e scrivo: “Elisabeth, di origine egiziana, ottava settimana di gravidanza, parla poco in italiano. Ho fatto per lei questo progetto: visite specialistiche presso il nostro consultorio, preparazione alla nascita da iniziare verso il sesto/settimo mese, corredino e attrezzature per il neonato, pannolini fino all’anno del bambino”.
“Ah, Pampers?” mi dice lei. Benedetto il Cielo! Forse qualcosa era passato. “Sì, certo, Pampers” rispondo. Scrivo che la signora legge e acconsente. Naturalmente mi chiedo: “Avrà acconsentito?”. Ma allo stremo delle forze mi dico che sì, avrà capito e così la affido al Signore della Vita.
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