Eutanasia

E se la morte cerebrale non fosse così irreversibile?

di Gabriele Soliani

Alfie, Eluana o Charlie avrebbero potuto risvegliarsi o migliorare le loro condizioni di vita? Erano pazienti incoscienti oppure semplicemente impossibilitati a comunicare col mondo esterno? Domande a cui non è più possibile dare una risposta, ma la ricerca scientifica oggi solleva molti dubbi sul concetto di “irreversibilità”.

La lunga tradizione giuridica e medica occidentale fino agli anni Sessanta riteneva che l’accertamento della morte dovesse avvenire tramite il riscontro della definitiva cessazione di tutte le funzioni vitali e cioè respirazione, circolazione e attività del sistema nervoso. Poi cinquant’anni or sono, nel 1968, un comitato istituito dalla Harvard Medical School, propose un “nuovo criterio” di accertamento della morte fondato sulla definitiva cessazione delle sole funzioni cerebrali, il cosiddetto “coma irreversibile”. Da allora la cosiddetta “morte cerebrale” è il criterio che consente di effettuare legalmente la pratica degli espianti degli organi vitali nella maggior parte degli Stati del mondo.

Sono trascorsi 50 anni da quella definizione di morte (cerebrale) e la scienza neurologica ha fatto nuove scoperte e attuato nuove metodiche. A Milano il 2 febbraio scorso si è svolto un interessante meeting internazionale sui disordini della coscienza, organizzato dalla Fondazione Irccs dell’Istituto Neurologico Carlo Besta, proprio per capire meglio cosa accade nei gravi traumi neurologici. Le tecniche di neuroimaging permettono di studiare le reazioni del cervello stimolato da suoni, odori ed immagini. La neurologa Silvia Marino del Centro neurolesi di Messina, relatrice al meeting di Milano, ha detto che ai pazienti apparentemente privi di contatto con il mondo esterno, e immobili da mesi o anni nel loro letto, vengono somministrati stimoli di ogni genere, soprattutto grazie alla fondamentale collaborazione dei familiari. Durante la stimolazione con la risonanza magnetica funzionale si possono vedere se si “attivano” le aree del cervello del paziente.

Nel centro neurolesi di Messina hanno studiato 27 persone con diagnosi di “minima coscienza” e 23 in “stato vegetativo”. Proprio tra questi ultimi ben 10 sono passati ad uno stato di minima coscienza. Pertanto, ribadisce la neurologa, la parola “irreversibile” applicata ai disturbi della coscienza, stato vegetativo compreso, non è più utilizzabile.

Nel 2017 la rivista Current Biology ha reso noto un importante esperimento scientifico condotto dalla neuroscienziata italiana, Angela Sirigu che è riuscita a recuperare la coscienza di un paziente in “stato vegetativo” attraverso elettrostimolazioni del nervo vago protratte nel tempo. Anche la comunità scientifica sostiene ora che almeno il 40 per cento delle diagnosi di stato vegetativo risultano errate. La particolarità del paziente sottoposto all’esperimento della Sirigu riguarda il fatto che la “certezza della diagnosi” sembrava fuori discussione dato che egli non aveva più alcun contatto con il mondo esterno da 15 anni e la sua condizione sembrava effettivamente irreversibile. Il concetto di “morte cerebrale”, ora messo scientificamente e lecitamente in discussione, ha portato con il criterio etico del “piano inclinato” alla definizione arbitraria di “vita degna” e “vita indegna” (o vita di “scarto” come la definisce papa Francesco). Così è stato per la povera Eluana Englaro, Terry Schiavo e da ultimi (per ora) i poveri Charlie Gard e Alfie Evans.

Certo la domanda legittima, che ci lascia inquieti, è che se lasciati vivere quei pazienti avrebbero potuto risvegliarsi o migliorare le loro condizioni di vita? E quanti di questi pazienti erano profondamente coscienti ma impossibilitati a comunicare col mondo esterno? Domande a cui non è possibile dare una risposta sicura e che fanno propendere per l’antica e saggia locuzione latina che riguarda le vite umane: “Primum non nocere”.




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