CORRISPONDENZA FAMILIARE

di don Silvio Longobardi

Uno, cento, mille Alfie. Non facciamoci illusioni

7 Maggio 2018

Alfie e Tom Evans

La mentalità eutanasica che ha decretato la morte di Alfie continua a sconvolgere molte persone. Cosa possiamo e dobbiamo fare perché non si ripeti ancora? Don Silvio: “La vicenda di Alfie non è finita e non deve finire nel dimenticatoio se vogliamo evitare di avere nel futuro prossimo altri dieci, cento, mille Alfie”.

Carissimo padre,

la vicenda del piccolo Alfie ci ha tenuti tutti con il fiato sospeso. Abbiamo pregato e pianto per quel piccolino come se fosse figlio nostro. Abbiamo sperato fino all’ultimo che gli fosse permesso di venire in Italia. Abbiamo sofferto pensando ai suoi genitori, costretti a passare un anno e mezzo nel reparto di Terapia intensiva di un ospedale, e ammirato il loro coraggio. 

Io ho ricordato gli ultimi giorni passati con mio padre. Se ne stava andando, ne eravamo consapevoli. Lo sapevano i medici che lo seguivano e lo sapevamo noi. Ma io sapevo anche che papà voleva tornare a casa. Non parlava più, ma in quei pochi gemiti che ogni tanto emetteva avevo colto questo suo desiderio. Il suo ultimo desiderio. Ho dovuto lottare con il primario per realizzarlo. Perché? Perché anche se stava morendo, bisognava assicurargli tutte le cure fino all’ultimo respiro. E il timore del medico era che a casa questo non fosse possibile. Ci siamo organizzati. E a casa è stato assistito come in ospedale. Anzi meglio, perché era nel suo letto, circondato dall’amore di sua moglie e dei suoi figli.

Certo, se gli avessimo sospeso l’alimentazione e i farmaci sarebbe volato prima in Cielo. Già allora per qualcuno questa era la strada. Ricordo il commento di una persona venuta a fargli visita: “Toglietegli tutto, tanto ormai non c’è più niente da fare”. Estranei che non avevano lottato con noi, che non sapevano cosa significa passare una notti in bianco accanto ad un malato terminale davano consigli non richiesti. Come vedi, l’eutanasia è una mentalità, diffusa e radicata. La sofferenza non è un valore per tutti. 

Papà è andato via quando il Signore ha voluto. Sapere che Alfie non è stato alimentato e che non gli è stato somministrato l’antibiotico per l’infezione ai polmoni è sconvolgente. […]

Antonietta

 

Cara Antonietta,

grazie per questa tua personale condivisione, fa sempre male ricordare la sofferenza vissuta ma fa sempre bene ricordare l’amore che abbiamo donato alle persone care.

Ieri il Papa ha visitato una parrocchia della diocesi di Roma. Commentando il Vangelo, quello in cui Gesù chiede ai discepoli di vivere il comandamento dell’amore fino a dare la vita, con quel linguaggio semplice ed efficace che lo contraddistingue, il Santo Padre ha detto che l’amore non è un sentimento, non è quello che si vede nei film: “L’amore è prendersi carico degli altri. L’amore è lavoro”. E poi rivolgendosi alle mamme presenti, ha aggiunto: “Come amavate voi i vostri bambini? Con il lavoro. Prendendovi cura di loro. Che piangevano… allattarli; cambiarli; questo, quell’altro… È lavoro. E l’amore sempre è lavoro per gli altri. Perché l’amore si fa vedere nelle opere, non nelle parole”. Quest’amore non viene meno quando il bambino soffre, anzi si raddoppia, si moltiplica a dismisura, i genitori scoprono energie che neppure pensavano di avere. L’amore non viene meno perché non è un contratto a tempo determinato ma un patto che dura per tutta la vita.

Dopo l’omelia il Papa ha amministrato il sacramento della Confermazione ad una bambina di 12 anni, Maya, affetta da una malattia mitocondriale, non molto diversa da quella che ha colpito il piccolo Alfie. È la risposta più convincente ai paladini della morte, a quelli che pretendono di misurare il valore della vita, a quella cultura dello scarto che sopprime i più deboli. Tu conosci l’ambiente mediatico, non ti aspettare che questa notizia appaia in primo piano con il dovuto rilievo. Se va bene, troviamo qualche riga nella cronaca locale. A volte neppure quella…

La vicenda di Alfie non è finita e non deve finire nel dimenticatoio se vogliamo evitare di avere nel futuro prossimo altri dieci, cento, mille Alfie. Il coraggio di Tom e Kate ha permesso di scoperchiare il vaso di Pandora e di prendere coscienza che nel mondo sanitario esiste una prassi eutanasica che tende ad abbreviare la vita dei pazienti quando si ritiene che essa non abbia più valore. Come tu fai notare, questa cultura non appartiene solo al mondo della Sanità ma penetra nel tessuto della società civile e finisce per alimentare un modo di pensare e una prassi di tipo funzionale in cui la tecnica sostituisce l’amore. Dimentichiamo così che la tecnica è per sua natura limitata mentre l’amore veste di eternità la vita, fa risplendere la vita in tutto il suo splendore. Dobbiamo assolutamente ribellarci ad una cultura che punta tutto e solo sulla tecnica. La persona ammalata non ha bisogno solo di medicine ma della tenerezza di un abbraccio, ha bisogno di sentire la prossimità delle persone care.

Se la medicina conta solo sulla tecnica diventa arrogante e finisce per condannare l’uomo. Peraltro, è paradossale che proprio in queste settimane è stata individuata una nuova terapia che blocca il processo degenerativo cerebrale, una patologia simile a quella che ha colpito il piccolo Alfie. Custodire la vita di un essere umano non è solo un imprescindibile principio di natura etica, non è solo un vincolante impegno deontologico della professione medica ma è anche una scelta dettata dalla prudenza e dalla certezza che il progresso scientifico può portare a nuove e imprevedibili scoperte.

Mia cara, questa vicenda è stata una sconfitta per tutti. Anche la Chiesa inglese non ha fatto una bella figura. Ma sono convinto che questo fatto drammatico, che ha commosso il mondo, può dare forza e motivazioni per un nuovo e più esigente impegno per la vita. Ti abbraccio.

don Silvio




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