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Il Biotestamento? Prima chiediamoci: che senso ha il dolore nella nostra vita?
di Marco Giordano
La legge sul biotestamento è ancora fresca di inchiostro, eppure non è possibile smettere di pensare a quante profonde e abneganti contraddizioni questa norma ha introdotto. Quale posto occupano il senso della vita e del dolore nella nostra scala di valori?
È passato poco tempo dall’approvazione della legge sul biotestamento, eppure non si può smettere di parlarne. Le coscienze fremono, i pensieri girano in tondo sulle contraddizioni mascherate, su una linea politica che sembra riproporre schemi già visti, dinamiche già sperimentate.
Il modo con cui ci rapportiamo al “fine vita” è, insieme ad altri grandi temi bioetici, la cartina torna-sole del grado di civiltà o di inciviltà raggiunto dalla nostra società. Esprime la capacità o l’incapacità di comprendere e custodire, anche nelle situazioni più estreme, la giusta scala di priorità tra i diversi valori in gioco. Scala nella quale, diciamolo subito, occorre assicurare alla vita l’assoluta priorità.
La norma recentemente introdotta in Italia risponde alla più generale richiesta di “essere liberi di interrompere la propria vita”, quando questa divenisse eccessivamente penosa, non più gradita. Da un lato la vita, dunque, dall’altro la libertà. La seconda sempre più esaltata… la prima sempre meno promossa, tutelata, difesa. Pare ripetersi il medesimo cliché di altre battaglie. La legge sull’interruzione volontaria di gravidanza ad esempio, sancisce che essa non debba divenire né uno strumento di regolazione delle nascite, eppure tra i più “abortiti” vi sono i “terzi figli” di coppie stabili, né l’esito di difficoltà sociali che andrebbero piuttosto rimosse con azioni di sostegno e contributi, eppure aumenta sempre più, specie tra le straniere, la scelta dell’aborto per “cause sociali”.
Di fronte alla sofferenza di un malato terminale, sia chiaro, occorre sempre grande rispetto. Anzi bisogna attivarsi maggiormente per assicurare la necessaria vicinanza, per sviluppare adeguatamente il fronte delle cure palliative e della terapia del dolore, per rendere certa e tempestiva l’assistenza al malato e ai suoi familiari.
Accanto a ciò occorre interrogarsi insieme sul senso del dolore. Troppe volte per l’essere umano di oggi, la sofferenza è solo un mistero oscuro, avvolto da una fitta nebbia, che si tenta di esorcizzare, pensando ad altro… salvo scoprire, quando poi arriva, di essere gravemente impreparati. Il compito della società, e per essa quello della politica, delle istituzioni e dei pubblici funzionari, dovrebbe essere di formare le coscienze, forgiare i caratteri, rendere le persone migliori, capaci di costruire il bene comune, il futuro, la vita, anche quando questo costa lacrime e sangue. Invece le stesse istituzioni si limitano, sempre più, a registrare o, peggio ancora, ad assecondare la disperazione e le scelte “disumanizzanti” dei singoli malati o dei loro familiari, a maggior ragione quando queste scelte sono assunte in situazioni tragiche.
Don Milani invitava a comprendere come le persone “rese umili e serie dalla vita dura” esprimono meglio la tenace tensione verso il bene. Quanto vorremmo che la nostra società e le nostre istituzioni reimparassero l’I care del prete di Barbiana, “prendendosi cura della vita”.
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