dolore Dolore: patire, pregare, fare: ecco come diventa fecondo Autore articolo Di Punto Famiglia Data dell'articolo 19 Settembre 2017 3 commenti su Dolore: patire, pregare, fare: ecco come diventa fecondo di Gianni Mussini Schivare ogni minima pena sembra essere l’imperativo del mondo di oggi. Ma a furia di sfuggire ogni dolore e inseguire ogni piacere, non siamo più felici. Tanti anni fa in un paese di campagna, un alto prelato visita due contadini che avevano perduto una figlia di vent’anni. Davanti al feretro il sant’uomo (perché va detto che era davvero un santo) benedice e aggiunge ispirato: “Felice questa famiglia che da oggi ha un angelo in Cielo!”. Raccontando l’episodio, il mio vecchio parroco – una specie di don Camillo a cui decenni di confessionale avevano insegnato di che pasta è fatta la gente – commentava che così non va bene e che oltre a tutto “si rischia di prenderle!”. “Che ti venga un mal di denti!”, fu invece l’intonato commento di don Sandro Maggiolini – il futuro vescovo di Como – a un’omelia funebre in cui l’officiante, altro sant’uomo beninteso, teologicamente esaltava la fecondità spirituale del dolore. Quell’omelia era per il fratello di don Sandro, promettente attore teatrale scomparso in giovane età con tutte le sue speranze e i suoi progetti. Per dire che il dolore umanamente ingiusto non va spiegato, ma condiviso, con l’amicizia, con il silenzio, chi ne è capace naturalmente anche con la preghiera. Magari ricordando che lo stesso Cristo, pensando alla propria morte imminente, ha sudato sangue e pregato il Padre che gli risparmiasse quel calice… Perché il dolore è proprio uno scandalo per tutti noi che siamo venuti al mondo con un desiderio di felicità intatta e infinita. Ricordate Leopardi? La sua disperazione derivava proprio da questo furto di felicità: “Entrate in un giardino di piante, d’erbe, di fiori… Tutta quella famiglia di vegetali è in stato di souffrance… Là quella rosa è offesa dal sole, che gli ha dato la vita; si corruga, langue, appassisce. Là quel giglio è succhiato crudelmente da un’ape, nelle sue parti più sensibili…” Eccetera. È pur vero che esagera un po’ il nostro grande poeta e che dopo tutto “dice di odiare la vita e te la fa amare, dice che l’amore e la virtù sono illusioni, e te ne accende nell’anima un desiderio vivissimo”. Parola di Francesco De Sanctis. In effetti come si fa a non amare la vita dopo aver letto, per esempio, l’inizio della Quiete dopo la tempesta? Rinfreschiamoci la memoria: Passata è la tempesta: Odo augelli far festa, e la gallina, Tornata in su la via, Che ripete il suo verso. Ecco il sereno Rompe là da ponente, alla montagna; Sgombrasi la campagna, E chiaro nella valle il fiume appare. Il paradiso terrestre doveva assomigliare a questo posto in cui dalle grondaie si sente il borbottio dell’acqua piovana, mentre il sole rompe le nuvole a occidente e la vita rinasce in un’allegria senza perché. Pure, secondo Leopardi, sono tutte illusioni, tutte fole in quanto ogni apparente felicità dipende dal dolore che eternamente regna. Di qui il sollievo recato dallo scampato pericolo (appunto la quiete successiva a un temporale) o dall’attesa di un evento che, quando giunge, delude: la domenica che dopo il Sabato del villaggio reca infatti “tristezza e noia”. Sarà per questo che nel mondo di oggi, liquido e consumistico, l’imperativo sembra proprio quello di schivare ogni minima pena. Visto che Leopardi ha ragione, l’ideale sarebbe entrare in quel suo giardino previa l’assunzione di una buona dose di prozac, ma vanno bene anche birre e alcolici assortiti, a tacere del resto. L’importante è assopire… Proprio come nel Mondo nuovo di Aldous Huxley dove, garantita la soddisfazione di ogni possibile piacere, per vincere la noia – che anche lì fa inevitabilmente capolino – esiste l’obbligo di assumere la soma, una droga di Stato che non fa male e che produce una felicità ben più falsa e illusoria di quella deprecata da Leopardi. D’altra parte, anche le esaltazioni a buon mercato del dolore come quelle che abbiamo visto all’inizio di questo scritto non portano lontano. Diceva il vecchio D’Annunzio, vecchio ma attualissimo, che è “un misero schiavo” chi “del dolore fa la sua veste”. Se la prendeva appunto con i cristiani e il loro sentimento del dolore. Le nostre gazzette, magari politicamente antidannunziane, la pensano oggi come il Vate e ripetono in modo ossessivo il ritornello di un piacere che deve essere cercato, assecondato, ripetuto, osannato. E alla larga da ogni sofferenza! Sicuramente c’è un campo in cui questi ‘antidoloristi’ hanno incondizionatamente ragione, quello medico. Lo può confermare la visita a un qualsiasi ospedale, dove i sedativi sono potenti alleati del corpo ma – per certi versi – anche dello spirito, restituito a una libertà negata proprio dal dolore impossibile (“benedetta morfina”, mi capitò di pensare assistendo alle pene di una persona cara, che poi grazie anche a quella ‘benedizione’ poté riprendersi). Anche per questo ho sempre faticato a capire il senso di certe penitenze eccessive, pur se devo ammettere che – almeno per alcuni santi – un senso ce l’abbiano, eccome. Personalmente, le ammetto solo se praticate con contagiosa allegria: “Quando digiuni, profumati la testa e lavati il volto”, invita opportunamente Gesù; allora il digiuno, in senso lato, è libertà interiore che supera ogni condizionamento materiale. Ci avviciniamo al punto. Diceva il beato Antonio Rosmini che “bisogna godere la vita, non cercare il godimento”. Sembra la risposta perfetta a D’Annunzio e ai suoi epigoni di oggi. La ricerca ossessiva del piacere porta infatti a quell’insoddisfazione compulsiva che è sotto gli occhi di tutti e può essere rappresentata dall’immagine dei bambini che a Natale, sotto l’albero, sono più preoccupati di scartare il prossimo regalo che di godere di quello appena scartato. Questa ricerca ossessiva del godimento è speculare alla vera fuga dal dolore trionfante nel mondo nuovo di oggi, non troppo diverso da quello immaginato da Huxley. Il risultato è che, a furia di sfuggire ogni dolore e inseguire ogni piacere, non siamo felici. Neanche un po’. Clemente Rebora, poeta novecentesco di famiglia massonica e mazziniana, convertito in età matura al cattolicesimo e fattosi, guarda caso, sacerdote rosminiano, si occupò più volte di questo tema così fondamentale. Analizzando le parole dei suoi scritti, si coglie un dato che forse ci può aiutare a rispondere alle nostre domande. Il vocabolario della sofferenza in Rebora (sacrificio, passione, sangue, ecc.) ricorre in modo sostanzialmente omogeneo prima e dopo la conversione, eccettuati due lemmi: dolore, molto più frequente nel primo Rebora; e patire, dominante nella seconda produzione poetica. Si passa cioè da una sofferenza ancora priva di un consapevole significato a una passione che partecipa a quella di Cristo e, dunque, non solo ha un significato potente ma diventa occasione di grazia. Ecco un appunto, ancora e sempre più attuale, del Rebora rosminiano: “Chi vive la vita interiore raggiunge il suo sommo nel disporre l’adeguarsi della propria volontà alla Volontà di Dio in quest’ordine: PATIRE – PREGARE – FARE. A differenza del mondo, che, capovolgendo la scala dei valori, e perciò disordinando, stabilisce invece questa altra successione: FARE – PREGARE (?!) – NON PATIRE”. Un patire che si fa dunque consapevole adesione al progetto di Dio su di noi, dal quale – per quanto ci si affanni – non è esclusa la Croce, destino comune a tutti pur in varie modalità e tempistiche. Una conferma ci viene da un testimone impensabile: “Non ero mai stato malato più di tre giorni e non ero mai stato all’ospedale. Nella vita ho sempre spinto molto sull’acceleratore… E a un certo punto sono rimasto 15 giorni con un dolore che non si può spiegare… Sono andato all’ospedale per 6 mesi. Ho scoperto un altro mondo, quello della sofferenza, gli infermieri che sono degli angeli. E siccome tutte le esperienze sono vita, questa l’ho usata per togliermi anche qualche menata che avevo. Quelle che ti vengono quando stai troppo bene. Mi sono dato una bella ridimensionata”. Parola, stavolta, di Vasco Rossi, quello della vita spericolata… Aiutaci a continuare la nostra missione: contagiare la famiglia della buona notizia Cari lettori di Punto Famiglia, stiamo vivendo un tempo di prova e di preoccupazione riguardo il presente e il futuro. Questo virus è entrato prepotentemente nella nostra quotidianità e ci ha obbligati a rivedere i tempi del lavoro, delle amicizie, delle Celebrazioni. Insomma, ha rivoluzionato tutta la nostra vita e non sappiamo fin dove ci porterà e per quanto tempo. Ci fidiamo delle indicazioni che provengono dal Governo e dagli organi sanitari preposti ma nello stesso tempo manifestiamo con la nostra fede che “il Signore ci guiderà sempre” (cfr Is 58,11). CONTINUA A LEGGERE ANNUNCIO 3 risposte su “Dolore: patire, pregare, fare: ecco come diventa fecondo” Non si puó spiegare il perchè del dolore se crediamo che Dio è Amore. Possiamo solo capire che “dopo la tempesta viene la gioia”, e che per raggiungere un Bene ci vuole la fatica per raggiungerlo e che , in seguito, viene la Gioia. E possiamo anche capire che solo nel Bene troviamo la vera Gioia e che se “seminiamo la tempesta” solo possiamo “trovare la tempesta”… Signore salvaci… Maria aiutaci…la croce c’ è ma è del Risorto Coraggio. Anche noi saremo risorti. Ave Maria e avanti. Ascolta radio Maria Grande verità con grande fede e dotti riferimenti! Un segnale e un messaggio davvero positivo per tutti! Lascia un commento Annulla rispostaIl tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *Commento Nome * Email * Sito web Per commentare bisogna accettare l'informativa sulla privacy. 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Non si puó spiegare il perchè del dolore se crediamo che Dio è Amore. Possiamo solo capire che “dopo la tempesta viene la gioia”, e che per raggiungere un Bene ci vuole la fatica per raggiungerlo e che , in seguito, viene la Gioia. E possiamo anche capire che solo nel Bene troviamo la vera Gioia e che se “seminiamo la tempesta” solo possiamo “trovare la tempesta”…
Signore salvaci… Maria aiutaci…la croce c’ è ma è del Risorto Coraggio. Anche noi saremo risorti. Ave Maria e avanti. Ascolta radio Maria
Grande verità con grande fede e dotti riferimenti! Un segnale e un messaggio davvero positivo per tutti!