Adozioni

Sono un padre sterile ma felice

padre e figlio

storia di F. raccontata da Ida Giangrande

Per i lettori di Punto Famiglia oggi la storia di un padre adottivo: “Ci sono voluti anni di ascolto e pazienza per capire che la mia sterilità non era una punizione, perché Dio non punisce e non fabbrica croci che gli uomini devono portare, semmai Dio aiuta a portarle quelle croci”.

Non so come spiegare quello che successe dentro di me quando mi comunicarono che non potevo avere figli. Tutti i sogni che avevo sempre coltivato, sparirono all’improvviso. Non avevo più progetti. Mi sembrava di aver fatto tutto inutilmente, il matrimonio, la casa, i sacrifici lavorativi. Se non dovevo vivere per un figlio, per chi avrei dovuto farlo?

Azoospermia: questa la sentenza. Apprenderla fu bruciante come ingoiare un tizzone ardente. Ce ne sono tante di coppie che non possono generare la vita, ma a me anche fare l’amore sembrava aver perso sapore. Dall’altro lato c’era mia moglie. L’amavo più di ogni altra cosa al mondo e mi sentivo responsabile perché a causa mia anche lei doveva rinunciare al sogno di essere genitore.

Mi dissero che questo è ciò che si intende quando si dice che gli sposi sono uniti fatalmente dallo stesso destino, ma in quel momento quelle parole non facevano altro che scavare un vuoto ancora più profondo dentro di me. Per me il Signore ci stava punendo, anche se non riuscivo a trovarmi una colpa tanto grave per cui dovevo essere punito in quel modo.

Mia moglie invece ha sempre visto le cose da una prospettiva differente. Per lei quella era una chiamata di Dio, una chiamata a qualcosa di più grande e di profondamente misterioso.

C’erano tanti modi per avere un figlio e chiunque avesse una bocca la usava per suggerircene uno; qualcuno diceva di andare all’estero, qualcun altro ci spingeva verso la fecondazione ma qui in Italia, qualcun altro ancora suggeriva di aspettare per vedere se magari qualche terapia poteva riuscire in un miracolo. Nessuno o quasi ci parlava di adottare un bambino ed io ero il primo ad escludere quell’eventualità a priori.

Un giorno accadde che un’amica ci invitò a visitare una casa famiglia. Era la prima volta che ci mettevo piede e ci andai solo per accontentare mia moglie, ma non ne avevo alcuna voglia. Eppure era proprio lì che Dio mi stava aspettando.

Lo sappiamo tutti che al mondo esistono bambini maltrattati e abbandonati dalle proprie famiglie. È una di quelle realtà che riesci ad accettare solo perché non ti appartengono, eppure quando ti capita di scontrartici senti tutto il dolore e l’amarezza che la meschinità umana può generare.

I bambini di quella casa famiglia, accolti e amati come figli della coppia residente, avevano qualcosa di speciale negli occhi. Forse era la luce che proveniva dal profondo vuoto lasciato dai genitori, forse era perché la sofferenza nello sguardo di un bambino è come il colore del sangue sulla stoffa bianca, una cosa impossibile da ignorare. Mi sentii interpellato, mi sembrò che Dio mi stesse facendo capire a che cosa mi stava chiamando, ma io non volevo accettarlo. Volevo un figlio mio, che avesse il mio sangue, che mi somigliasse. Credevo di averne il diritto e solo con il tempo ho capito che nessuno ha il diritto di avere un figlio, perché i bambini anche quelli che nascono da noi, non sono nostri, appartengono alla vita, alla storia dell’uomo e a quella di Dio.

Ci sono voluti anni di ascolto e pazienza soprattutto da parte di mia moglie, per capire che in fondo lei aveva sempre avuto ragione: la mia sterilità non era una punizione, perché Dio non punisce e non fabbrica croci che gli uomini devono portare, semmai Dio aiuta a portarle le croci e senza la sua forza non avrei mai potuto nemmeno raccontare questa storia.

Mi sono aperto all’adozione, ho capito che mio figlio era uno di quei bambini con una luce speciale negli occhi. Ma l’iter è stato lungo, in Italia le adozioni sono complicate, passare attraverso esami psicologici e burocratici ti sfianca fino ad esasperarti. Alla fine ci siamo arresi e abbiamo fatto domanda per un’adozione internazionale, in Bulgaria per la precisione.

Fuori dal confine italiano ci sono Stati in cui le cose che a noi sembrano scontate non lo sono, altri mondi, altre abitudini, altre lingue, uno solo è il comune denominatore: la luce negli occhi dei bimbi abbandonati. Può cambiare il colore della pelle, la nascita, la terra di appartenenza, ma la sofferenza di un bambino abbandonato dai genitori è la stessa ed io ero chiamato a riempire quel vuoto.

Le domande che mi ponevo erano, tuttavia, sempre le stesse: ma il bimbo adottato che passato avrà? Di che età ce lo daranno? Sarà scuro? Chiaro? Mi assomiglierà? Mi chiamerà subito papà?

La mia sposa con la sua fede incrollabile continuava a ripetermi: “Sarà Dio a scegliere i figli giusti per noi e noi saremo i genitori giusti per loro”. Ogni volta che eravamo convocati per un abbinamento la nostra risposta era sempre positiva anche quando pensavamo che la situazione non era alla nostra portata. Avevamo la certezza che Dio avrebbe scelto per noi, anche se umanamente avevamo paura.

Abbiamo frequentato un corso di bulgaro, ci siamo preparati psicologicamente ad affrontare il viaggio e poi un giorno la telefonata tanto sospirata è finalmente giunta. I nostri figli ci stavano aspettando. Due fratellini di 10 e 7 anni, quando siamo andati da loro la prima volta avevo paura della loro reazione e allo stesso tempo avevo il timore di non saper dire la cosa giusta come deve saper fare un padre. Invece loro ci hanno riconosciuto come fa un bambino appena nato che riconosce la sua mamma anche senza averla mai vista. Io invece mi sono sentito il padre che prende per la prima volta in braccio suo figlio: le spalle rigide, le braccia di legno, il cuore che pulsa nelle orecchie e la paura di non essere abbastanza forte.

L’esperienza dell’adozione è una qualcosa di straordinario. Da poco il nostro figlio più grande ha festeggiato il decimo compleanno. Gli abbiamo organizzato una piccola festa con parenti e amici. Le cose che per noi sono scontate, normali: quattro festoni, due dolcini, la torta finale, la musica. Mentre preparavamo tutto, lui continuava a chiederci: “Ma questo è per me?”. Forse mio figlio non aveva mai festeggiato un compleanno nella sua vita. Forse questo è stato il primo, e in quel momento ho capito che se al mondo c’è qualcuno ad avere dei diritti non sono e non ero io, ma lui, anzi loro, i bambini. Sono loro gli unici a poter reclamare un diritto: il diritto ad avere un padre e una madre.




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