Solidarietà

Desideravo solo che Albert sorridesse. Io non ci sono riuscito, la nuova scuola forse sì

africa-bimbo

di Salvatore Guerriero

La storia del piccolo Albert ci arriva dal Burkina Faso, una delle zone più povere del continente africano. È una storia di povertà e di degrado, ma anche di amore e di solidarietà, raccontata dalla passione di un missionario.

Era la prima volta che mettevo piede in Africa. La mia prima sera nell’Oasi Santa Teresa di Koupela, in Burkina Faso, la nostra casa africana.

Il bel giardino interno che tanto strideva con l’aridità e la miseria delle strade fuori da quelle mura, brulicava di bambini allegri e festosi. Eravamo arrivati noi, gli occidentali carichi di doni, i “nasara” come ci chiamano lì. Quella per i bambini del circondario, sarebbe stata una serata speciale, avrebbero festeggiato tutto ciò che durante l’anno gli veniva negato per la povertà e la fatica di vivere. I bambini sapevano che stavano per ricevere regali e cibo in abbondanza.

È stato lì che l’ho conosciuto. Tra tanti occhi vivaci e sorrisi bianchissimi, lui se ne stava in silenzio, lo sguardo triste, il bel viso imbronciato. Si chiamava Albert. Poteva avere due anni, forse tre, un viso paffutello da bambolotto nero, che contrastava con la magrezza del suo corpicino. L’ho preso in braccio. Lui mi ha lasciato fare senza mai perdere di vista la sua bussola, la sua sorellina, non molto più grande, che badava a lui. Gli ho accarezzato le manine, gli ho donato un bon bon, l’ho preso sulle spalle e l’ho fatto correre per il giardino. In cambio gli chiedevo solo la gioia di vederlo sorridere. Non lo ha fatto.

Nei giorni successivi ho chiesto di lui a Elodie, una giovane del Centro: Albert aveva un padre alcolista che aveva abbandonato la madre e i suoi quattro figli. Si ricordava di lei solo per abusarne sessualmente e per lasciarla di nuovo incinta. Al momento era il più piccolo. Viveva insieme alla sua famiglia in una casa poco distante dal Centro e trascorreva l’intera giornata senza i genitori. Il padre assente, la madre in cerca di qualcosa per sbarcare il lunario. Unico amico, un bimbo più piccolo di lui, Charles. I loro giochi: pietre, pezzetti di legno da scagliare. Indosso solo vestiti laceri, coperti di terra rossa e urina.

Era il febbraio del 2013, da allora sono tornato altre due volte a Koupela. Albert era una ferita aperta nel mio cuore, avrei voluto portarlo via, regalargli una vita normale, fatta di cose normali, ma è stato impossibile adottarlo, impossibile portarlo via da quella realtà e forse non sarebbe stato nemmeno giusto. Ho cercato di fare del mio meglio per assisterlo, di far recapitare alla sua famiglia un po’ di riso, dell’olio, cose scontate per noi e invece costose e inaccessibili per loro.

Durante il mio secondo viaggio ho deciso che avrei conosciuto i genitori di Albert, non mi bastava più fargli ricevere dei doni. Così insieme a Elodie, sono andato a trovarli. La loro casa è difficile da raggiungere, le strade sono spesso impraticabili e non illuminate. Quando siamo arrivati ho scoperto con mio grande sconcerto che la famiglia viveva al buio. Elodie nella melodiosa lingua moore ci ha annunciati e il padre di Albert si è fatto avanti e si è presentato. Gli occhi liquidi, tipici di chi beve di professione. Lo sguardo smarrito di chi non ha altra via che la disperazione. La madre non stava meglio, aveva partorito un altro figlio. Un’altra bocca da sfamare.

A gennaio 2015 sono ritornato a Koupela per la terza volta e un pensiero angoscioso si è fatto largo con prepotenza dentro di me: “Albert era ancora vivo? Ce l’aveva fatta a superare un altro anno di stenti e di abbandono?”.

Per fortuna Albert c’era, ma vedendolo da lontano ho subito capito che non stava bene: era smagrito, aveva le occhiaie, la pancia più gonfia del solito. Mi sono avvicinato a lui, mi sono inginocchiato, i miei occhi hanno incontrato i suoi. Mi ha riconosciuto subito, e anche senza sorridere, mi ha preso per mano. Era il suo modo per dirmi che era felice di rivedermi. Ho chiesto spiegazioni a Elodie sul perché era così emaciato. Mi ha risposto che aveva avuto un grave attacco di malaria, ma ora le cose andavano meglio.

Grazie alla donazione di un’insegnate italiana, la signora Ciancio, l’Oasi ha potuto aprire un piccolo asilo in cui accogliere i bambini provenienti da famiglie difficili. Albert era tra loro e ora indossava uno splendido grembiulino rosa. Mi sorrideva e mi sembrava quasi più sereno. Se provavo a giocare con altri bambini si infastidiva, mi metteva il broncio e andava a nascondersi. Gli stenti gli hanno insegnato ad affinare i sensi, Albert aveva riconosciuto il mio leale affetto, il mio profondo desiderio che lui sorridesse.




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