XXIV Domenica del Tempo Ordinario - 11 settembre 2016
La misericordia è l’abito che riveste l’amato quando è nudo, il balsamo che lenisce le ferite del cuore
di fra Vincenzo Ippolito
Se leggiamo con attenzione le tre parabole, ci accorgeremo che la parola misericordia è la grande assente perché, eccettuato il v. 20 (ne ebbe compassione), il vocabolo non ricorre nel brano. Da questo comprendiamo che per l'Evangelista la misericordia più che una parola da usare, è un sentimento da vivere, una dinamica del cuore che si lascia interpellare dalla vicenda dell'altro. Il padre dimostra misericordia, non parla ed insegna misericordia e se la insegna lo fa con la vita.
Dal Vangelo secondo Luca (15,1-31)
In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». Ed egli disse loro questa parabola: «Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova? Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, va a casa, chiama gli amici e i vicini, e dice loro: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta”. Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione. Oppure, quale donna, se ha dieci monete e ne perde una, non accende la lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finché non la trova? E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, e dice: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduto”. Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte».
Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre. Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa.
Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».
Siamo a metà del grande viaggio di Gesù verso Gerusalemme (cf. Lc 9,51-19,28) e, lungo la via, come un giorno avverrà nel volgere di poche ore sulla strada di Emmaus, il Maestro apre gli occhi dei discepoli nel contemplare la bellezza del volto del Padre. Il racconto che l’evangelista Luca presenta sembra un inciso nel suo narrare, una sosta ben ponderata perché la potenza della misericordia infonda forza nel procedere risoluti dietro Gesù sulla via della croce. È come se Luca stesse dicendo che il cammino di sequela deve condurre ciascun discepolo a penetrare nell’intimo del cuore di Dio per sperimentare quell’amore sorgivo che è capace di guarire i fallimenti dell’uomo e di trasformarli in possibilità di crescita. È la rivelazione della potenza della misericordia. Lungo la strada Gesù insegna la misericordia; sulla croce vive la misericordia; nel dono dello Spirito effonde misericordia ai discepoli perché, irrobustiti dalla sua forza (cf. At 1,8), dispensino quell’amore che guaisce e risana, trasforma in creature nuove e dona la pace. Anche noi, come i discepoli, facciamo ressa intorno al Maestro, solo Lui ha parole di vita eterna, solo il suo sguardo rivela il mistero dell’amore misericordioso del Padre, solo Lui può ricondurci dalle strade più disparate della nostra vita all’ovile sicuro di Dio.
L’amore come capacità di trasformare tutto in bene
Stiamo seguendolo Gesù nella sua missione, ascoltando la sua parola e vedendo ciò che la sua mano opera per la potenza di Dio. Il suo insegnamento è spesso esigente e la sua parola è dura da digerire – è quanto abbiamo sperimentato la scorsa domenica, cf. Lc 14,25-33 – ma egualmente il Maestro di Nazaret mostra una straordinaria capacità di attrazione. Non solo, infatti, l’attività di Gesù incuriosisce Erode (cf. Lc 9,7-9), ma spinge pubblicani e peccatori a rivolgersi a Lui, senza nessun tipo di timore. È quanto ci mostra san Luca, nelle prime battute del suo nuovo capitolo. Ci saremmo aspettati un nuovo miracolo come quello dell’idropico (cf. Lc 14,1-6) oppure una parabola dal chiaro risvolto esistenziale, che mostrasse ciò che è necessario compiere di buono, bello e santo per noi e per Dio, come fatto in precedenza (cf. Lc 14,15-24). Nulla di tutto questo. L’Evangelista vuol battere non sul fare, tentazione sempre attuale da Marta di Betania e anche prima fino a noi, ma sull’essere, su ciò che veramente conta, sull’essenziale. Nel Vangelo non solo ci viene descritto chi è Dio, nella rivelazione del suo volto, ma viene anche offerto a ciascun discepolo la possibilità di scoprirsi immagine e somiglianza sua, in un cammino di risalita alla ricerca dell’identità che il peccato, da Adamo ed Eva, ci ha fatto smarrire. Più scopro Dio, contemplando il suo volto e più imparerò a lasciarmi modellare su di Lui dal suo Spirito perché ciascuno è attratto da ciò che ama e desidera divenire ciò che nella persona amata contempla per essere sempre più simile a lui. È questa la chiave per comprendere le tre parabole solitamente definite della misericordia. In esse Gesù conduce gli uomini a capire che il volto del Padre è amore, ma quando l’uomo si trova nel peccato e nella notte, l’amore del Padre si veste di compassione e di misericordia. L’amore di Dio prima di trasformare e cambiare la vita dell’uomo, muta e trasforma se stesso, perché l’uomo sia capace di accoglierlo. È il mistero dell’amabilità di Dio nel quale Egli si mostra non solo per quello che è, – amore per essenza – ma per come Lui può essere nella vita dell’altro, amore misericordioso che guarisce e risana. In tal modo l’uomo avverte il fascino di Dio e non può non sentirsi attratto dalla bellezza della proposta del Signore. È quella che capita nella pagina odierna del Vangelo dove Gesù mostra chi è Dio – Padre ricco di misericordia – come si comporta – tutti attende, accoglie e perdona – e, di rimando, come l’uomo deve guardare se stesso e gli altri, con occhi intrisi di misericordia, la stessa che il Cristo vive e rivela in pienezza. Ci fermiamo nella riflessione alle prime due parabole, visto che la liturgia della IV Domenica di Quaresima ha già offerto di riflettere sulla terza, quella solitamente definita del Padre misericordioso. In realtà, bisogna dirlo, non è mai superfluo ritornare sulle stesse pagine evangeliche perché la Parola di Dio offre sempre spunti nuovi di riflessione e preghiera.
Un primo dato che emerge dal brano nella sua interezza è l’accondiscendenza di Cristo, la sua capacità di calibrare il suo insegnamento a secondo dei suoi interlocutori. Non tutti, infatti, possono ascoltare tutto, ma questo non significa che il Maestro non dica la verità o che la nasconda. Il suo è un semplice principio pedagogico per aiutare i discepoli e quanti lo ascoltano ad interiorizzare progressivamente la sua parola e ad accogliere il suo annuncio di salvezza. Si tratta della pedagogia della gradualità che, leggendo bene, il testo ci dona tra le righe. Il registro narrativo, infatti, è cambiato rispetto ai brani delle scorse domeniche. Se in precedenza Gesù si era rivolto con determinazione alle folle per evitare ogni tipo di fraintendimento o di equivoco riguardo il suo annuncio, se nella casa di uno dei capi dei farisei aveva messo in guardia dalla ricerca dei primi posti per coltivare l’umiltà e l’abnegazione volontaria, ora, invece, il suo dire diviene più dolce perché si tratta di persone che non hanno bisogno di parole di condanna, ma di accoglienza, devono gustare la nostalgia di Dio, sentirsi da Lui amati e cercati. Sono i “detentori del sacro” che hanno il cuore indurito e quindi ricevono continue bacchettate perché si ravvedano e si convertano a Dio, raggiunti anch’essi dalla potenza della misericordia, ma per chi è raggiunto da Cristo come Levi Matteo (cf. Lc 5,27-32), per chi è cercato come Zaccheo (cf. Lc 19,1-10) non servono dure parole di condanna, ma di accogliente misericordia. Dinanzi la santità di Dio l’uomo che ha conosciuto le vie scoscese del proprio egoismo, come in uno specchio tersissimo, contempla la propria immagine in Dio e si riconosce bisognoso di quel lavacro di rigenerazione e di vita nuova che Cristo dona in abbondanza. È la relazione con Gesù che mostra la piaga del proprio peccato, non le prescrizioni della legge, la bellezza del più Bello tra i figli dell’uomo rivela le brutture causate dal nostro peccato. Da questo ci rendiamo conto che è necessario comprendere che la Chiesa, come anche ogni educatore, ogni genitore deve mostrare la bellezza dell’ideale alto della vita cristiana, non potare continuamente l’albero, ma orientarlo, concimarlo, donargli possibilità di sviluppo e di vita. È proprio questo che fa Gesù, non mortifica chi si presenta a Lui, ma parla il linguaggio dei suoi interlocutori, si mette al loro livello. Tale dinamica Paolo tradurrà, decenni dopo, con una espressione lapidaria “mi sono debole con i deboli per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto a tutti per salvare in ogni modo qualcuno” (1Cor 9,22-23). Nel mettersi al livello degli altri è il segreto della pedagogia evangelica che non è abbassare il tiro, ma tutt’altro. Si tratta della stessa dinamica che il Verbo ha vissuto con la sua Incarnazione, da Dio diviene uomo senza smettere di essere Dio così da arricchirli. Un genitore può anche fare l’amico/a nella relazione educativa con il proprio figlio, ma senza smettere di essere padre o madre, senza dimenticare che il suo ruolo non potrà e dovrà mai misconoscerlo, altrimenti i figli non riusciranno a comprendere il registro comunicativo che si utilizza, se quello del genitore o l’altro dell’amico/a. I ruoli non vanno confusi. Gesù resta sempre il Maestro. Nel suo farsi prossimo, Egli non smette la sua identità di Signore, ma dona tempo perché l’altro accolga la sua presenza e si faccia investire dalla sua potenza. Misericordia significa tempo e pazienza. Gesù sa bene dove vuole arrivare e al tempo stesso conosce – già nel suo essere Dio è onnisciente e poi, con l’Incarnazione, ha sperimentato dal di dentro il nostro bisogno di gradualità – quanto dolce e tenera attesa è necessaria nella conquista della roccaforte del nostro cuore inquieto dove solo Lui può donare la pace. Comprendiamo bene allora che dobbiamo sapere dove vogliamo arrivare, ma calcolare bene le modalità da attuare – il Vangelo di domenica scorsa sui calcoli da fare con prudenza prima di costruire una torre o di intentare una guerra (cf. Lc 14,25-33) – perché anche i progetti più belli e perfetti hanno bisogno di realizzatori prudenti e saggi. La nostra deve divenire sempre più la Chiesa che non smette di predicare la verità della dottrina, la retta fede che ogni domenica professiamo, ma donando e mostrando che siamo sulla strada e che lungo la via il Signore ci rafforza nel vivere ciò che professiamo, guarendo le nostre cadute. Noi camminiamo verso la pienezza dell’amore che è Dio nella sua essenza più profonda, ma camminando siamo sorretti dal suo essere misericordia, ovvero capacità di ricondurre al bene ogni umana realtà. Se non ci fosse la misericordia divina non potremmo giungere alla pienezza dell’amore che Dio è e dona ai suoi figli. Senza la misericordia la verità sarebbe così astratta ed irraggiungibile perché chi è senza peccato, ovvero non bisognoso della Misericordia, scagli per primo la pietra!
Contro la mormorazione dei benpensanti
Le parabole della misericordia sono la risposta del Maestro di Nazaret alla mormorazione dei farisei e dei dottori della legge contro di Lui. Come risplende nella vita di Cristo la chiarezza della sua parola “benedite coloro che vi maledicano, pregate per coloro che vi trattano male” (Lc 6,28). Egli dice e fa in quella meravigliosa armonia che è il segno eloquente della misericordia. Non solo Gesù fa quello che dice, ma ha una portata straordinaria e rivoluzionaria il suo rispondere cercando di non allontanare i pubblicani ed i peccatori che si avvicinano a Lui e al tempo stesso spingendo i farisei e gli scribi ad una seria revisione di vita. Era capitato lo stesso nella casa di Simone il fariseo (cf. Lc 7,36-50) e anche lì l’Evangelista aveva lasciata aperta la possibilità del cambiamento da parte dei benpensanti. Lo stesso capita qui. Quanti mormorano contro il Maestro sono chiamati ad identificarsi con il figlio maggiore della parabola per confessare che, pur stando nella casa del padre, il suo cuore è per loro il grande sconosciuto. In tal modo Gesù non parla solo per i pubblicani e per i peccatori, né solo per i farisei e i dottori della legge, ma per tutti ed il suo non è l’equilibrismo di chi cerca di barcamenarsi tra fazioni differenti se non opposte, ma la misericordia che cerca tutti di ricondurre verso il bene. Se riuscissimo a comprendere anche noi, nelle nostre piccole e grandi lite che il vero problema non è tanto chi ha torto e chi ha ragione, chi vince e chi perde nel rapporto di coppia o nelle nostre comunità religiose o parrocchiali, quanto, invece, la capacità di salvare l’altro, di armonizzare le differenze, di riconciliare i pareri contrastanti non con l’equilibrismo di chi non ha il coraggio di prendere posizioni o di schierarsi a favore della verità, quanto, invece, con la misericordia che la parabola manifesta nell’atteggiamento del padre, capace di usare viscere di compassione con entrambi i figli, insieme chiamati a convertirsi, ovvero ad entrare nell’abbraccio di colui che li ha generati da sempre e che solo ora riescono consapevolmente a conoscere nella sua vera identità di padre con viscere di madre. Il vero problema per la comunità di Luca è comprendere che non ci sono né giusti – i farisei e i dottori della legge – né rei e peccatori – i pubblicani – perché tutti siamo figli bisognosi della misericordia di Dio. Forse la definizione più bella di creatura è “essere bisognosa, dipendente”, bisognosa di misericordia per esistere, dipendente dalla misericordia del Padre per continuare a vivere. Tutti abbiamo bisogno della misericordia e più crediamo di essere giusti, di rispettare le leggi e i comandamenti e, pur senza accorgercene, rendiamo sterile la nostra fede, incapace di nutrire quella relazione amorosa che rende salda la comunione con Dio. È un grave peccato la sufficienza, la presunzione, l’illusione di non aver bisogno di nulla. Chi vive con queste convinzioni, abita la valle dell’infelicità perché nella dipendenza c’è il segreto non solo della verità di se stessi, ma anche del fidarsi consapevolmente dell’altro che mi è accanto e che vede e comprende ciò che io non riesco a guardare con distacco e percepire con oggettività.
Sono veleni mortiferi la sufficienza nella coppia e nel rapporto con gli altri, come anche la presunzione di non aver bisogno di nessuno. Che senso ha la vita insieme se alla persona che mi è accanto non confido la mia difficoltà e mi mostro per quello che veramente sono? Io ho bisogno della misericordia di chi mi circonda, dell’affetto che mi offre la persona che condivide con me la vita che il Signore ha dato ad entrambi di unire in una sola carne. Ho bisogno del suo alito che mi ricrea, della sua voce che mi sveglia, del suo bacio che, magico come quello del Principe per Biancaneve, è capace di ridestarmi dal sonno della morte che l’invidia e la gelosia degli altri spesso infligge. Quante volte anche noi siamo farisei e dottori della legge, non ci avviciniamo agli altri e da lontano siamo giudici dalle parole mordaci, dalle espressioni pungenti, che fulminano con gli occhi ed infliggono la morte sociale? Gesù non solo non risponde, ma offre la possibilità di trovare un punto comune di orientamento attraverso il volto misericordioso del Padre. Abbiamo bisogno di un punto di convergenza perché altrimenti ciascuno, arroccato sulle proprie posizioni, non vive nella verità e non si apre alla carità, prima verso se stesso e poi verso gli altri. Dobbiamo chiedere a Gesù il dono del suo Spirito per rispondere benedicendo in ogni situazione della nostra vita, abbiamo proprio bisogno della sua grazia per non assecondare i pensieri di odio e di risentimento da combattere sempre con impegno crescente. Sì, abbiamo bisogno che il Signore ponga una custodia alle nostre labbra per non rispondere alle provocazioni e per non attaccare con violenza chi sentiamo alle nostre spalle, tessere intrighi. Solo la forza di Dio può darci la capacità di non difenderci, di attendere che la verità faccia il suo corso, che la sincerità delle rette intenzioni risplenda alla luce del sole. Solo la grazia dello Spirito frena l’istintiva violenza delle parole, pone un morso quando la rabbia straripa come un morbo nella mente, abbagliando la vista. Abbiamo bisogno dello Spirito di Gesù per benedire nella difficoltà, magnificare nelle sofferenze, lodare nelle contrarietà, sorridere quando il peso della croce smorza perfino il fiato sulla salita del Golgota che accomuna il discepolo al maestro Gesù.
La forza di Cristo è la sua relazione con il Padre, solo quella è la sorgente che alimenta la sua arrendevolezza, che riempie il suo cuore di misericordia, che infonde coraggio per non abbattersi davanti alla durezza d cuore dell’uomo. Solo chi è portato da Dio riesce a tenere duro nella lotta, a non soccombere nella battaglia perché sa che la capacità che dimostra viene dal Signore, altrimenti cadrebbe sotto il peso delle difficoltà. Nelle nostre famiglie è Dio che infonde la forza per superare i problemi, per mettere sotto silenzio le parole ascoltate, spesso violente e mordaci, per lasciar cadere le situazioni che non servono a nessuno. In noi c’è la medesima forza che Gesù dimostra, ci è stata donata il giorno del nostro battesimo. Lo Spirito è sempre con noi, basta farlo agire e vivere nella sua continua compagnia e guida. C’è una cosa più bella e dolce di questa?
La misericordia che genera la gioia
Se leggiamo con attenzione le tre parabole, ci accorgeremo che la parola misericordia è la grande assente perché, eccettuato il v. 20 (ne ebbe compassione), il vocabolo non ricorre nel brano. Da questo comprendiamo che per l’Evangelista la misericordia più che una parola da usare, è un sentimento da vivere, una dinamica del cuore che si lascia interpellare dalla vicenda dell’altro. Il padre dimostra misericordia, non parla ed insegna misericordia e se la insegna – la parabola ha sempre una finalità didascalica – lo fa con la vita, al pari della donna che mostra, nella moneta perduta e ritrovata, come Dio cerchi la sua creatura e sia disposto a mettere a soqquadro la sua casa pur di riaverla. La misericordia è come il sale, se manca ne avverti l’assenza, ma quando c’è, dona sapore scomparendo in ciò che condisce. La vera misericordia, quella che viene da Dio, non è preceduta da squilli di trombe o da cortei, ma prediligi il nascondimento e l’umiltà, non ama parlare, ma preferisce l’azione, la concretezza della vita alle disquisizioni oziose. Anche per noi quindi che viviamo con intensità questo anno giubilare, la misericordia non è e non deve essere una parola, ma un sentimento che manifesta un modo di essere. Dio è amore ed ama l’uomo e per amor suo opera nella sua vita ciò che lo realizza come persona. Quando Egli soccorrere l’uomo, l’amore che è ed ha diviene misericordia, capacità di adattarsi al bisogno dell’amato perché ritrovi la via della vita. Dio è amore (1Gv 4,4) e, per amore dell’uomo, diviene misericordia. In tal modo, la misericordia è la veste che l’amore dona all’amato quando è nudo, il farmaco che risana, il soccorso nella debolezza, il balsamo che lenisce le ferite del cuore. Ecco dove nasce la gioia, dalla vita ritrovata grazia alla misericordia, dalla salvezza sperimentata nell’afflizione, dalla consapevolezza che non c’erano vie di uscita e Dio, nella sua bontà, ha aperto una strada nel deserto. Solo la potenza dell’amore che diviene misericordia può far rifiorire il deserto e scorrere acqua nella steppa, trasformando l’abito di sacco in veste di letizia. Noi – sembra dire l’Evangelista – siamo chiamati a vivere nell’amore di Dio e dell’amore di Dio per donare misericordia ai fratelli, oltre che a noi stessi. E più si vive di amore e più ciò che traspare è la gioia. Non è un caso che il termine che più torna nelle tre parabole è proprio gioia al punto tale che sarebbe preferibile parlare delle parabole della gioia perché il testo evangelico mostra un graduale cammino dalla tristezza del peccato alla gioia della salvezza.
Abbiamo bisogno di gesti di misericordia, non solo di parole, perché è la concretezza che convince e trascina più delle parole. Siamo chiamati a vivere la misericordia come sentimento cordiale, del cuore abitato da Dio e dalla sua potenza che investe ogni nostra realtà e dall’interno trasforma. La cordialità è la capacità di fare tutto con il cuore che non è incentrato su se stesso, ma in un movimento verso l’altro. Un cuore in movimento è ciò che dobbiamo chiedere senza stancarci mai perché è questo il segno che la misericordia sta agendo in noi e produce frutto la presenza dello Spirito del Signore. Quando il cuore non va verso l’altro i rapporti si stagnano, le relazioni perdono mordente e anche le parole divengono vuote. L’amore che diviene misericordia è come l’anima, rende vivo un corpo, dall’interno lo spinge ad agire. Ogni nostro rapporto di coppia, ogni relazione familiare e amicale, nelle comunità religiose o parrocchiali senza misericordia è un corpo senz’anima. Difatti, come il cuore è l’organo che dona il movimento della vita ad ogni organismo, così la misericordia dona il movimento della vita all’organismo interiore. Se si ferma la misericordia, al pari del cuore, non si vive più e regna la morte. Se, invece, si attinge l’amore da Dio e lo si lascia dilagare in noi e tra noi, il ritmo della vita ci invade e la gioia trasborda.
Ma quali sono i gesti della misericordia? Come passare dalle parole della misericordia ai gesti che la mostrano, la esplicitano, la donano? Se il brano evangelico non usa parole – abbiamo visto come il termine misericordia non compaia che una sola volta – ma sentimenti, atteggiamenti, dinamiche totalmente rinnovate dalla modalità che è propria di Dio e del suo amore, quali gesti nel discepolo devono e possono manifestare in pienezza l’essenza del Padre celeste ed il suo andare incontro all’uomo? Nel peregrinare del pastore, nella ricerca della donna e nell’attesa del padre, Luca mostra la dinamica di Dio il cui amore prende le fattezze della misericordia.
La prima cosa che notiamo nella narrazione lucana è il fatto che Dio ama senza fare calcoli. È, infatti, sproporzionato il rapporto tra le cento pecore e quell’unica perduta, tra le dieci monete e quella sola smarrita. Noi uomini avremmo abbandonato l’impresa, dicendoci: “Conviene pensare ad una pecora sola, visto che il gregge ne ha ancora novantanove? Ci saranno altri parti e verrà rimpiazzata. Vale la pena spazzare tutta la casa se ho ancora nove monete?”. Il primo gesto che Dio dimostra amando è quello di non fare calcoli, di non pensare all’interessa, di non legare il cuore al tornaconto. Quella pecora è unica, come quella moneta che, pur se coniata in serie, non sarà mai uguale ad un’altra. Amare significa considerare l’altro unico, irripetibile e allora se lo perdo per mia colpa, se si smarrisce per sua volontà, io sarò povero perché l’altro/a è per me insostituibile, unico. Dio ama così, per Lui ciascuno di noi è unico ed è disposto a fare “pazzie”, come quella di mandare il suo Figlio sulla terra, permettendo persino che il rifiuto del suo amore giunga alla croce. Quante volte Gesù mi viene a cercare, nello smarrimento della mia mente, nello sbandamento dei miei desideri, nella notte del mio cuore? E quante volte io sono capace di ricercare l’altro/a di andargli incontro, dimenticando i suoi affanni, di non fare conto delle sue cadute? Quante volte sono io per l’altro è l’altro per me specchio di Dio, dei gesti della sua misericordia?
Dio è capace per me di abbandonare tutto perché amare significa preferire l’amato a tutti e a tutto – è questo il secondo gesto della misericordia – ovvero non permettere che nulla e nessuno si antepongano al bene che desidero per l’altro. Il pastore non si lascia fermare “finché non la ritrova” (v. 5), specifica Luca, amare significa ritrovare l’altro, vivendo persino lo smarrimento della sposa del Cantico dei Cantici che spasmodicamente ricerca il suo sposo, amato e sempre atteso. Il Padre non preferisce nulla a me, non antepone nulla al mio bene. Ed io amo così? L’altro/a sente la preferenza dell’amore mio, la capacità di cercare il suo bene, di mettere a repentaglio la mia vita perché egli/ella abbia la vita?
Il terzo gesto della misericordia è poi la gioia. Nessuna punizione per la pecora – l’animale non avrebbe capito e questo porta a chiederci, le punizioni servono a soddisfare le nostre ire e la nostra delusione oppure sono veramente imposte perché l’altro impari? E poi, nelle situazioni di difficoltà e di angoscia, l’altro/a salvato/a sarà capace di comprendere il mio intervento pedagogico?. Il pastore non usa violenza, ma esercita quella tenerezza che risolleva dal peccato, guarisce le ferite, cancella il male e getta in fondo al mare la difficoltà perché lo scrupolo non rallenti la risalita nella stima e nella ripresa della retta via. Dio è contento quando ritrova l’uomo (cf. Lc 15,5), vive la gioia del ritrovamento e partecipa agli altri la letizia che il suo cuore sente. Non fare calcoli, abbandonare tutto, vivere e partecipare la gioia sono i gesti della misericordia che l’Evangelista mostra, gli stessi che anche la donna mette in atto nel suo desiderio di ritrovare ciò che ha smarrito.
Entrare nella dinamica del ritrovare ciò che è perduto
Per Gesù il perdersi ed il perdere non è uno stato definitivo, ma una situazione di passaggio, un momento che ci matura, ma dal quale possiamo uscire per la sola grazia di Dio, attraverso quei gesti di misericordia che altri pongono nei nostri riguardi. Dobbiamo comprende che la misericordia va accolta, sperimentata, gustata in profondità, altrimenti saremmo sterili come i farisei e i dottori della legge, incapaci di generare in noi stessi vita divina e sprigionare negli altri la gioia del ritrovare la strada del Padre. Dobbiamo abituarci alla dinamica del perdere e ritrovare e sceglierla come via maestra nella nostra vita perché è questo il ritmo che scandisce la relazione con Dio e tra noi.
Questa certezza il Signore radichi in noi in questa ogni straordinaria di grazia che è il giubileo della misericordia: non possiamo vivere senza misericordia perché mai potremmo credere di essere così arrivati da non aver bisogno di essere ritrovati, ripescati, riconquistati all’amore di chi veramente ci ama e ricerca sempre e solo il nostro bene.
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stiamo vivendo un tempo di prova e di preoccupazione riguardo il presente e il futuro. Questo virus è entrato prepotentemente nella nostra quotidianità e ci ha obbligati a rivedere i tempi del lavoro, delle amicizie, delle Celebrazioni. Insomma, ha rivoluzionato tutta la nostra vita e non sappiamo fin dove ci porterà e per quanto tempo. Ci fidiamo delle indicazioni che provengono dal Governo e dagli organi sanitari preposti ma nello stesso tempo manifestiamo con la nostra fede che “il Signore ci guiderà sempre” (cfr Is 58,11).
1 risposta su “La misericordia è l’abito che riveste l’amato quando è nudo, il balsamo che lenisce le ferite del cuore”
Io mi perdo continuamente ma il Signore non una sola volta ma ha lasciata sola nel mio smarrimento. Viene attraverso volti a volte nuovi, a volte vecchi ma.perduti….e in quei volti ri/trovati c è Lui che mi riveste di misericordia infinita e mi ri/porta a Casa….la Casa de l Padre.