XXIII Domenica del Tempo Ordinario - Anno C - 4 settembre 2016

Più si ama Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze, e più si ama l’altro

di fra Vincenzo Ippolito

Amare Dio al di sopra di ogni cosa porta a vivere la bellezza dell'amore anche con le persone che ci sono accanto perché queste saranno amate in Dio, in quell'amore suo che nessuno esclude e tutti accoglie.

Dopo la catechesi sull’umiltà e la gratuità della scorsa domenica (cf. Lc 14,1.7-14), la liturgia odierna, saltando la parabola degli  invitati alla festa (cf. Lc 14,15-24), ci propone una delle pagine più esigenti del Vangelo, nelle quali Gesù incentra il suo insegnamento sulla radicalità della sequela e l’amore incondizionato a Lui. Si tratta di una parola molto forte, inequivocabile, che scuote la nostra coscienza, assopita e anestetizzata dalla mondanità, aprendoci l’universo di Dio, l’orizzonte sconfinato di una volontà di bene che abbraccia tutti nel desiderio di costruire un mondo nuovo. Chiarezza, determinazione, coraggio sono le parole chiavi del brano evangelico di oggi che spingono i nostri occhi a contemplare in Cristo ciò che lo Spirito dove operare in noi. Creati ad immagine e somiglianza di Dio (cf. Gen 1,26), siamo chiamati ad essere “conformi all’immagine del Figlio suo” (cf. Rm 8,29) Gesù Cristo. Dal progetto alla sua realizzazione è questo il cammino che attende le nostre famiglie, guardando Gesù, seguendo Lui, senza che nessuna difficoltà rallenti il nostro incedere nella volontà del Padre.  

Perché seguo Gesù?

Ci troviamo sempre nel capitolo XIV del Vangelo secondo Luca, ma il contesto del  brano sembra diverso rispetto a quello della scorsa domenica. Non si parla più di banchetto e anche il linguaggio si discosta molto da quello usato in precedenza (cf. Lc 14,1-24). É vero, l’Evangelista non lo specifica con chiarezza, ma “la casa di uno dei capi dei farisei” (Lc 14,1) non sembra essere lo scenario del brano o, per lo meno, non ricopre tutta l’importanza avuta in precedenza (cf. Lc 14,1). Difatti, il tenore dell’insegnamento del Maestro non richiama la convivialità e totalmente nuovo è il tema proposto dall’Autore che trae il suo “La” dal versetto 25: “grandi folle andavano con lui”. I Vangeli ci offrono una svariata gamma di desideri per cui si segue Gesù, ma al tempo stesso ci presentano il Cristo che non vuol essere frainteso, né tantomeno strumentalizzato. Egli, infatti, dal canto suo, cerca di evitare ogni equivoco, perché non lo si consideri un semplice guaritore oppure un comune benefattore del popolo. Ecco perché, dopo la moltiplicazione dei pani, scappa sul monte per evitare che lo acclamino re (cf. Gv 6,15) e spessissimo comanda di non rivelare quanto ha operato con i suoi miracoli per schivare ogni incomprensione. L’uomo spesso segue Gesù per interesse, ma non per interesse Gesù ama l’uomo e si fa suo compagno nel cammino della vita. Da questo si origina la chiarezza del suo insegnamento, la sincerità del suo dire, la durezza – così la percepiamo noi, incapaci di penetrare l’amore, unica e sola ragione che lo muove – unita alla volontà di cercare sempre e solo il nostro vero bene. Il Maestro è così diverso da noi! Egli rifiuta gli onori delle folle e frena ogni entusiasmo che non sia accoglienza volontaria della croce come meta di ogni autentico cammino di sequela, passaggio obbligatorio di un amore che è vero perché orientato al dono. Nessuno può dire che Gesù abbia alimentato false speranze – come, invece, erroneamente diranno i due discepoli sulla strada di Emamus – né che abbia sobillato le folle contro il potere romano, né tantomeno che abbia perseguito una regalità terrena. Il Maestro, diversamente da noi, non si serve dell’uomo, ma si mette al servizio degli uomini. Questa dinamica dell’amore che sceglie l’ultimo posto non è imposta, ma scelta, non pretesa, ma offerta. Ecco perché risulta essenziale per tutti coloro che si avvicinano a Gesù purificare i propri desideri, rivedere i sogni e le attese, ponendosi in seria discussione prima di lasciare spazio a Cristo e al cammino dietro a Lui.

Ed io perché seguo Gesù, perché mi metto in ascolto della sua Parola? Mi siedo ai suoi piedi come Maria di Betania perché il suo dire, come l’acqua di una sorgente, sgorghi dalle sue labbra e disseti i deserti del mio animo oppure perché vivere la fede è un’abitazione che riempie la mia domenica? Sono cristiano per scelta o per tradizione? Prego per convinzione e per amore o per sentirmi tranquillo con la coscienza?  Seguo Gesù o me stesso, quello che la mia volontà mi dice o che lo Spirito ispira, il mio egoismo pretende o il mio essere figlio del Padre mi chiede come mio unico bene? Seguo Gesù con la totale disponibilità di chi ama, l’ardente desiderio di chi ricerca il suo volto, la ferrea determinazione di chi sa che senza Dio la vita non ha pienezza di gioia? Vado da Gesù come la folla che vuole essere sfamata o come Zaccheo assetato di salvezza e di pace nel profondo dell’animo? Ricerco il Maestro per guarire nel corpo o perché voglio essere risanato nel cuore? Seguo Gesù perché lo riconosco mio Signore oppure perché mi aspetto che Egli premi la mia fedeltà? Possono queste sembrare delle domande fuori luogo, ma il più grande errore è dare tutto per scontato, credere che ogni cosa sia chiara e distinta. Lo stesso accade nel rapporto di coppia e nella vita familiare: quanto è scontata la conoscenza della persona che si è scelta come carne della propria carne, certezza l’amore scambievole, ovvia la fedeltà nella vita matrimoniale e il rapporto con i figli, proprio allora che ci si crede arrivati, la sfida dell’amore resta un mistero da vivere nell’offerta quotidiana e spesso nell’incomprensione che l’egoismo dell’altro/a, pur senza saperlo, impone.

Gesù “si volta” (v. 25) ed il suo è il gesto di chi si prende cura dell’altro e della sua vita, di quanto ricerca e di ciò che desidera. Egli non procede dimenticando chi lo segue, interessato solo al suo ministero e alla sua predicazione. Gesù vive sempre, in ogni attimo della sua vita la compassione del buon samaritano, anzi la supera di gran lunga. Non solo, infatti, passando accanto all’uomo, lo cura e risolleva dal suo stato di prostrazione, ma si volge verso di lui, anche quando non è sotto il suo raggio d’azione, e lo guarda negli occhi, leggendo ciò che nel cuore nasconde, nella mente rimugina, nell’animo attende e spera. Chi ama, si accorge dell’altro, mai procede indifferente a quanto la persona che gli è accanto vive e porta nel cuore. Chi ama veramente si volge, come Gesù verso l’altro, lo osserva in silenzio, penetra nel suo cuore con l’acume di chi soccorre, consola, usa compassione ed offre aiuto anche quando non è richiesto. Quanta indifferenza scandisce i nostri rapporti! Quanto spesso facciamo finta di non vedere e di non sentire, per la paura di doverci scomodare, di rimboccarci le maniche, delegando ad altri ciò che tocca a noi per vocazione cristiana, promessa matrimoniale e responsabilità genitoriale? È così difficile volgersi verso l’altro/a e guardarlo/la negli occhi, penetrare nel suo cuore ed ascoltarne i battiti, raccoglierne le paure e sostenerne le speranze? È così difficile camminare l’uno accanto all’altro, evitando di procedere uno dietro l’altro? Come sposi bisogna sempre camminare mano nella mano, vicini per fare quadrato con il proprio corpo contro ogni difficoltà, ma ci sono momenti in cui, per stanchezza o per paura, è  necessario procedere uno dietro l’altro, ma questa è l’eccezione, non la norma. In caso contrario uno si culla sulle spalle dell’altro e non si vive l’alternanza dell’amore, ma l’irresponsabilità nel rapporto, ci si fa carico dell’immaturità dell’altro/a, malattia dalla quale si guarisce solo con la consapevolezza del proprio limite da superare con l’aiuto insostituibile di Dio attraverso la persona che si ama e dalla quale ci si sente amati. Solo così il volgersi dell’altro/a diviene promozione, cura e capacità di compiere quel salto di qualità che rende la vita insieme un’avventura nella quale si matura e si cresce sul serio.

Andare da Cristo con la consapevolezza e la volontà del vero discepolo 

Gesù non solo pone dei gesti eloquenti e significativi, ma ad essi accompagna anche parole che rivelano le sue intenzioni e la finalità che desidera perseguire nella relazione con ciascuno di noi. Il suo dire serve per correggere il tiro dell’uomo, cosicché impari chi sia veramente Lui e cosa Egli sia disposto ad operare nella sua vita. “Se uno viene a me”. L’amore vero lascia liberi, propone il bene, ne mostra la bellezza, ne rivela le esigenze, mai però si impone e pretende perché un amore che richiede qualcosa, che cerca il contraccambio, che, pur in maniera nascosta, mira al tornaconto, non è vero amore. La gratuità dell’amore non ricerca neppure la gratificazione del riconoscimento, perché è pura ricettività dello Spirito di Dio che abilita nel cuore umano la corsa del dono.

“Se uno viene a me”. Gesù non fa distinzione di persona, tutti sono uguali ed amati, cercati ed attesi da Lui e dal Padre, attratti al suo Cuore, fornace ardente che brucia ogni peccato, purifica i nostri desideri, rafforza i propositi di bene. Cristo sa che più ci si indurisce nella proposta, che diviene così una imposizione violenta, e più l’uomo si chiude a riccio, rifiutando ogni cosa e considerandosi sulla retta strada. Bisogna educarsi ed educare nella libertà perché è questo il terreno che rende consapevole e responsabile ogni risposta, soprattutto quando si è adulti, perché è ancor più difficile il cammino della maturità e della crescita insieme quando si è grandi! Il “se vuoi” è legge di libertà, il nostro cuore spesso non vorrebbe pronunciarlo, ma è Cristo che ci insegna a lasciare libere le persone nella relazione affettiva, perché tenerle legate non serve, ma fa crescere la dipendenza e non matura la responsabilità personale. Il “se vuoi” di Gesù mostra l’orizzonte nel quale l’amore si muove ed opera, le possibilità smisurate che crea ed offre, la gioia che riserva a chi, accogliendo il dono che l’altro fa di sé, è condotto a rispondere con l’offerta volontaria di se stesso all’amore che l’altro gratuitamente concede. E più ci si inoltra nella strada della libertà, più ci si muove nell’orizzonte del dono e si gareggia nella benevolenza e nell’offerta di sé, più si avvertono le vertigini del salire dietro Cristo, sperimentando nell’amore la necessità di dare il primo posto perché nella vita dell’altro il primo posto tu già occupi.

Gesù non chiede l’odio del padre e della madre, della moglie, dei figli e dei fratelli, ma domanda, come riposata all’amore suo di essere amato più degli altri, di occupare il primo posto, di avere, nella scala dei valori, il primato. È questo perché Egli “ci ha amati per primo” e ci considera primi nel suo cuore. Come faccia Dio ad amare ogni uomo in maniera unica ed irripetibile, resta per noi un mistero, anzi è questo il segno del suo essere Dio. Nel suo cuore tutti abbiamo il primo posto, non ci sono graduatorie, ma ogni suo figlio è amato e pensato per primo. Amare è dare all’altro il primo posto ed è questo l’amore che Dio richiede, che resta pur sempre un amore di risposta all’amore del Signore che sempre ci ama per primi, in maniera totalmente gratuita, senza attendersi nulla dall’uomo. Cristo chiede di avere il primo posto nella nostra vita, ma la sua richiesta è la necessità che nasce nel cuore di chi ha veramente sperimentato in sé l’amore di Dio. Solo chi ha conosciuto l’amore vero, può rispondere con il suo stesso trasporto di totalità e di coraggio, con quella vena di avventura, di eroicità e di sana follia che rende l’amore capace di colorare la vita di gioia vera e piena. Chi scopre l’amore di Dio lo ama al di sopra di ogni cosa e questo non preferire nulla e nessuno all’amore che si nutre per l’altro, nasce proprio dall’esperienza dell’amore. Come potrebbe non rispondere all’amore chi dell’amore divino è un vaso traboccante? Come potrebbe non vivere d’amore chi è continuamente immerso in Dio e da Lui ricerca, come il tralcio dalle vite, la linfa vitale di quell’affetto che nutre e sostiene?

Amare Dio al di sopra di ogni cosa – non è forse questo che si legge come prima delle dieci parole del Decalogo e nella professione di fede del pio israelita in Dt 6,1?  – amare Dio con la totalità del proprio essere non significa escludere gli altri – questo è il nostro modo di amare, non quello di Dio! – ma condurre tutti nel vortice dell’amore vero che si origina in Dio e a Lui conduce. Chiamato ad amare Dio con la stessa moneta di Cristo, il discepolo impara, nella frequentazione della sua parola e della sua vita, che le relazioni acquistano in Lui una direzione diversa e sono diversamente orientate e vissute. “Odiare il padre e la madre” non vuol dire solo dare a Dio il primo posto, a scapito degli affetti umani, ma amare tutti in Dio in quel mistero d’amore che tutti abbraccia. È come se Cristo stesse dicendo: Se mi ami al di sopra di ogni cosa, l’amore che lo Spirito infonderà in te per riamarmi, ti donerà la luce per vedere in un’ottica totalmente nuova i tuoi rapporti e per viverli avendo come modello della relazione affettiva il rapporto preferenziale che ti unisce al tuo Dio.

Amare il Signore più di tutto e tutti i fratelli conduce ad amare i fratelli più e meglio di prima perché è proprio questo che ha vissuto Gesù, il suo amore preferenziale per il Padre lo ha portato a rimanere nel tempio dodicenne, a lasciare la sua casa ed i suoi affetti, lo ha condotto ad amare gli uomini fino al dono della vita perché portato per mano da quello Spirito che è il segno dell’amore del Padre per noi e che spinge il nostro cuore verso Dio e, di rimando, verso i fratelli. Dio non è geloso dell’amore che gli portiamo, ma se chiede di essere amato con la medesima intensità è perché sa che lo Spirito compie in noi questa trasformazione e che nella forza sua, , il nostro amore per gli altri viene totalmente rivitalizzato, purificato da ogni egoismo e scandito dalla totale gratuità. In tal modo, amare Dio al di sopra di ogni cosa porta a vivere la bellezza dell’amore anche con le persone che ci sono accanto perché queste saranno amate in Dio, in quell’amore suo che nessuno esclude e tutti accoglie. In tal modo, potrà sembrare strano, ma odiare il padre e la madre – dove il  verbo odiare sta ad indicare “amare di meno”, non quel sentimento di naturale avversione che spesso noi ci portiamo dentro e che sta ad indicare la morte dell’altro in noi e per noi! – non solo vuol dire non preferire nulla e nessuno a Dio, ma – ironia della sorte – vuol dire amarli in Dio e per questo amarli di più e meglio perché è il Signore a dettare le regole della relazione. Più si ama Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze, maggiormente le persone che ci sono accanto riceveranno non le pretese del nostro egoismo, ma l’offerta di un amore che, come quello di Cristo, ricerca solo il bene dell’altro e gioisce della felicità che l’altro vive. Così facendo si comprende anche il ruolo che la croce occupa non solo nella vita umana – la sofferenza è propria della vita di ogni uomo – ma soprattutto del discepolo di Gesù. Un amore che rifiuta il “portare la croce” ovvero vivere la sofferenza con amore, dietro a Cristo, non è vero amore. Gesù, con la sua Pasqua, dona un senso al nostro soffrire ed accende nel cuore la luce di quell’amore di Dio che nulla e nessuno potrà mai spegnere. La croce, il dolore e la sofferenza sono i luoghi limite nei quali l’amore sprigiona tutta la sua potenza di trasformazione che solo chi si abbandona nella braccia del Padre come il Signore crocifisso, può sperimentare. È la croce che rende maturo ed adulto il nostro amore e, senza passare attraverso il dolore, la nostra vita non potrà mai dirsi vissuta fino in fondo. Ecco perché Gesù chiede che il suo discepolo condivida ogni attimo della sua esistenza, dalla predicazione ai miracoli, dalla croce alla resurrezione perché l’amore vero condivide della persona amata tutto e sempre.

Il sacramento del matrimonio è il segno di questa dinamica totalmente rivoluzionaria dell’amore nella quale più sembra che l’altro è secondario rispetto a Dio, più, invece, ricopre il primo posto perché l’altro di Dio è l’immagine la somiglianza. Da questo si comprende che più  si ama l’altro in Dio, più i rapporti familiari acquistano la potenza dell’amore che ha in Dio la sua fonte perché Egli ci rimanda agli altri dopo che, entrati nel cenacolo con Lui, da Lui apprendiamo la legge dell’amore e la modalità del dono che Egli ha vissuto e che noi siamo chiamati, con il suo Spirito, ad attuare tra noi. La famiglia cristiana vive e deve vivere il primato di Dio e, lontana dalle logiche umane, deve crescere nella consapevolezza che quello che noi chiamiamo amore, molto spesso è puro egoismo. Non ha senso chiedere di occupare nella vita dell’altro il primo posto, se Gesù non ci insegna a mettere il Padre al centro. Ogni relazione nella quale io amo l’altro/a al di sopra di tutto e l’altro/a ama me più degli altri è destinata a morire perché l’uno è per l’altro e viceversa misura è termine del proprio egoismo. Quando nella relazione di coppia interviene Cristo, con la potenza del suo Spirito, avviene una vera rivoluzione perché dall’io si passa al tu attraverso Dio che potenzia la nostra capacità di amore ed apre spazi nuovi ai fratelli, sopratutto i più poveri e dimenticati. È questo il segreto della vita di Madre Teresa di Calcutta, la matita nelle mani di Dio che ha lasciato a Lui di scrivere le più belle pagine della sua vita e della storia di carità della seconda metà del secolo che ci lasciamo alle spalle.

Il discepolato, un calcolo a perdere

La seconda parte del brano odierno (cf. Lc 14,28-32), attraverso il ricorso ad immagini di vita quotidiana, è dedicata al necessario discernimento che ciascuno deve attuare prima di compiere una scelta importante, in questo caso prima di porsi nella sequela del Signore. Calcolare il da farsi prima di costruire una torre e sedersi per misurare le proprie forze per poi, eventualmente, attaccare battaglia appaiono realtà scontate a livello generale, ma poi, quando si tratta di scelte importanti della vita, facilmente si elude il discernimento prudente, la riflessione ponderata, la preghiera per domandare la volontà del Padre su di noi e sulla nostra vita. Non è forse questo che spesso manca nel periodo del fidanzamento, come capacità a porre solide fondamenta alla propria vita insieme? La comunità cristiana deve sempre di più essere, unitamente alle famiglie di origine, luoghi di riflessione e di discernimento dove si calcola la costruzione della vita insieme e si misurano le proprie forze nella guerra al proprio egoismo.

Solo così la rinuncia a tutti propri beni è scelta come vero segno dell’amore a Cristo e condizione essenziale per costruire una vera vita insieme.




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