Accoglienza
Essere soli: è questa la vera povertà
di Giovanna Abbagnara
È il 12 marzo 2016, Lucia, una donna eritrea, cristiana copta, 20 anni, dà alla luce la sua bambina nel Centro di accoglienza per richiedenti asilo di Castelnuovo di Porto, alle porte di Roma. Il nome che dà alla sua bambina è Speranza.
Lucia è finalmente al sicuro, stringe in braccio la sua bambina di tre mesi nata in Italia nel Centro di accoglienza che l’ha ospitata dopo il suo sbarco in Sicilia. Ma la sua voce è ancora rotta dalle emozioni e dal dolore per quei lunghi otto mesi trascorsi viaggiando per raggiungere l’Italia. “Sono scappata dall’Eritrea il 24 giugno dello scorso anno. Ho impiegato otto giorni per superare il confine ed entrare in Sudan. Ero con il mio compagno e un gruppo di amici”. Sapevano che se li avessero fermati, per loro sarebbe stata la fine del viaggio e di ogni speranza. Dopo un periodo di due settimane in Sudan, Lucia e gli altri a bordo di due auto cercano di attraversare il deserto, ma vengono assaliti da un comando dell’ISIS. Dieci persone sono uccise. Gli altri, tra cui anche lei, vengono bastonati e torturati al grido: “Vi dovete convertire all’Islam!”. “A causa delle torture, dieci amici muoiono”. “Ad un certo punto, uno dei trafficanti decide di riscattarci per 2000 dinari. Siamo fuggiti. Per un certo tempo abbiamo vissuto in un campo nomade, mangiando pochissimo. Abbiamo cercato di imbarcarci ma non avevamo i soldi. Quando siamo riusciti a procurarli, siamo partiti. Eravamo 100 persone su un barcone, stretti come le sardine. Il mio pancione in evidenza. L’unica cosa che mi dava forza era la preghiera!”. La marina italiana ha avvistato il barcone e ha portato in salvo sulle coste della Sicilia, Lucia e i suoi compagni di viaggio. Dopo dieci giorni, Lucia viene trasferita presso il Centro di accoglienza di Castelnuovo di Porto. Qui, dopo poche ore, inizia il travaglio. “I dolori erano misti a gioia” dice Lucia “sapevo che la mia bambina ora era al sicuro e potevo proteggerla”. Dopo appena 12 giorni, il 24 marzo, con la sua bambina stretta tra le braccia, Lucia è tra le 12 persone scelte a cui papa Francesco ha lavato i piedi durante la messa in Coena Domini celebrata davanti ai profughi del Cara nel Giovedì Santo. Bergoglio ha lavato i piedi a 11 profughi e una operatrice del CARA, in tutto cinque cattolici, quattro musulmani, un indù e tre cristiani copti. “I gesti parlano più delle immagini e delle parole” ha detto papa Francesco, parlando a braccio, aggiungendo: “Tutti noi, insieme: musulmani, indi, cattolici, copti, evangelici ma fratelli, figli dello stesso Dio che vogliamo vivere in pace. Integrati”.
Lucia è stata accolta, messa in salvo, amata e fatta partorire in un ambiente sereno. Tutto questo è possibile grazie al contributo di tanti volontari. La settimana scorsa ho incontrato suor Loriana Torelli, francescana alcantarina cha lavora nella Caritas diocesana nel quartiere di Archi a Reggio Calabria, già noto per altre vicende legate alla mafia calabrese. 25 anni fa è nato un Centro di ascolto per senza fissi dimora di cui suor Loriana è responsabile. “Negli ultimi anni” mi dice suor Loriana “ci siamo aperti anche all’emergenza, che è emergenza non è più, ma è il nostro quotidiano” precisa “dei migranti”. “Nel nostro porto arrivano migliaia di persone, che vengono poi inviati nei vari centri di accoglienza in Italia. Ad Archi in modo particolare è stato istituito un centro di accoglienza per minori non accompagnati o che hanno perso i genitori o i parenti durante il viaggio. Quello che manca è che stiamo cercando di fare, insieme a tanta brava gente che ci aiuta, è quello di insegnare l’italiano a questi bambini. Ma questo è un aspetto, a noi ciò che interessa è intessere relazioni, è restare accanto. Penso che come Chiesa dovremmo interrogarci su questo. Sulla capacità di restare accanto e di accompagnare”.
Sì ha ragione suor Loriana! Ci sono tante nuove povertà ma la più grande miseria resta la solitudine. I veri poveri sono quelli che non possono contare su nessuno. Su nessuno che li aiuti a tirare fuori le risorse e le capacità di resilienza da mettere in campo per risollevarsi. La comunità ecclesiale dovrebbe interrogarsi su questo. Don Tonino Bello scriveva: “Coraggio! Il Cristianesimo è la religione dei nomi propri, non delle essenze. Dei volti concreti, non degli ectoplasmi. Del prossimo in carne ed ossa con cui confrontarsi, e non delle astrazioni volontaristiche con cui crogiolarsi”.
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