Nonni

“Melì, non ti preoccupare che io ti aspetto!”: 64 anni insieme e aspettarsi oltre la morte

nonna

di Ida Giangrande

Che buon sapore hanno i racconti della nonna! L’eco di un tempo che sembra passato per sempre e che invece si manifesta in tutta la sua potente saggezza. I racconti della nonna, sono una verità intramontabile da seguire e perseguire e soprattutto da custodire nel tempo, che consuma e macera ogni cosa.

“Nonna, raccontami una storia!” le dissi accoccolandomi sul suo seno. Intendevo una fiaba, una di quelle che le nonne sono sempre così brave a raccontare e invece lei, cominciò con la storia della sua vita. “Ero appena signorina quando scoppiò la guerra. Ce la passavamo brutta. Eravamo cinque figli e tre fratellini erano morti, due subito dopo la nascita, l’altro mentre fuggivamo nel ricovero dopo che era suonata la sirena”. Mi sollevai sul gomito e la guardai quasi incredula, non ebbi il coraggio di interromperla, i suoi occhi, circondati da rughe profonde sembravano persi nel tempo. Sono ricordi orribili eppure lei non sembrava triste. “Aveva nove mesi il mio fratellino quando il Signore se lo portò. Mamma correva giù dalle scale con lui in braccio, qualcuno la spinse, lei perse l’equilibrio e cadde sopra di lui. È stato brutto, mia nonna continuava a ripetermi che mi sarebbe passata; a me sì, ma a mia madre no!”. La guardai con le lacrime agli occhi. “La guerra è fetente, è fetente assai!” osservò lei stringendo le labbra a fessura. “E che cosa è successo dopo?”. Alzò le spalle, si prese qualche minuto di tempo per riordinare i pensieri e subito riprese: “I tedeschi divennero sempre più cattivi, qualcuno diceva che gli alleati erano sbarcati in Sicilia. Io non sapevo nemmeno chi erano gli alleati, ma sapevo che la Sicilia era lontana e il tempo che arrivavano fino a Napoli saremmo morti tutti quanti …..non c’era tempo dovevamo scappare e così ci mandarono sfollati a Cervinara, un paesino in provincia di Avellino. Fu un viaggio lungo, mi sembrava un altro mondo. Noi venivamo dalla città, dove passava il tram e c’erano già le macchine, lì invece si vedevano solo carretti e fieno, e non c’era asfalto, ma solo pietre e polvere. All’epoca non era come oggi” sorrise, mi accarezzò con le dita nodose e subito dopo riprese: “Sono stata profuga pure io, anche se non ho mai attraversato il mare. I paesani ci guardavano con sospetto, ci chiamavano ‘gli sfollati’. Alcuni ci aiutavano però, ci facevano stare nelle stalle. Non era molto, ma era meglio di niente. Altri, si mettevano paura che rubavamo qualcosa. Rubare! – sorrise – l’ho fatto pure io. Una volta ho rubato un pezzo di pane. La contadina lo aveva appena sfornato e lo aveva messo sul davanzale, io sentivo un profumo che mi faceva venire l’acquolina. Erano due forme di pane di quelle rotonde, e appena la signora si distrasse, io me ne presi una, me la nascosi sotto la veste e me la portai via. Erano così tanti giorni che mangiavamo solo sciuscelle (ndr carrube) che non ci vidi più. Non ho mai mangiato pane più buono di quello, mai più”. Ridemmo. Mi accoccolai di nuovo sul suo grosso seno che sapeva di lavanda. Mi piaceva il suo racconto. Non potevo credere che fosse tutto vero. “Poi?” le domandai vedendo che lei non riprendeva.

“La guerra finì, ma la fame no. Un giorno mio padre tornò a casa e mi disse che c’era uno che mi voleva sposare. Io lo avevo visto solo una paio di volte e quando entrò dalla porta tuo nonno, tutto vestito bene con la giacca a doppio petto e il fazzolettino bianco che usciva dal taschino, mi feci di cento colori. Profumava di dopobarba, mio padre non ce l’aveva il dopobarba, e quello che mi sembrava il profumo più bello del mondo. Quando mi veniva a trovare mi girava la testa. Lui era di una famiglia che stava bene economicamente, brava gente, mentre io non avevo nulla, né un corredo e nemmeno i soldi per cucirmi un vestito, avevo solo fame. La prima volta che siamo usciti insieme io, lui e la commara Tatina, la madrina, zitella di mia madre, ci portò a mangiare in un ristorante di via Caracciolo. Me le ricordo ancora quelle tovaglie a quadroni bianche e rosse, ho mangiato talmente tanto che dopo lui mi ha detto: “Melì, meglio un vestito che una mangiata con te!”. Scoppiai a ridere e lei pure, ma questa volta il suo sorriso si trasformò rapidamente in una smorfia malinconica. “Mi ha comprato tutto, tutto quello che mi serviva, ma il vestito da sposa no, papà disse che toccava a lui e così me lo fece prestare dalla commara Tatina. Il vecchio vestito della sorella o di una nipote non mi ricordo!”. Mi prende la foto del matrimonio, l’unica che ha di quel giorno, me la fa vedere: uno di quei vecchi ritratti in bianco e nero, con le pieghe del tempo che hanno rugato la carta spaccandola un po’ qui, un po’ là. Una foto semplice, il classico gruppo di parenti e amici fuori dalla chiesa, gli sposi al centro in bella posa, e tutti intorno, le comari in prima fila tutte vestite di nero con i capelli argentati intrecciati in eleganti chignon fai da te e poi c’erano i bambini, che la nonna mi indicava uno a uno. “Questo è zio, questa è zia”, e poi dopo arriva a sua marito e le sue dita lo accarezzano mentre la voce le si spegne in gola, inghiottita dall’emozione. Lo amava ancora così tanto. “Quanto tempo è durato il vostro matrimonio?” le chiesi con la delicatezza di un elefante. “Perché è finito?” mi rispose. “Siamo stati insieme per 64 anni, qualche volta abbiamo litigato, qualche altra volta no. Non era un uomo perfetto, era un uomo e basta.  Mi ha amato come un uomo deve fare e io me lo sono sposata e ci ho fatto due figli. Non ci ha fatto mancare niente, ha sempre provveduto per noi, era un gran lavoratore! Io sono stata per lui, balia, madre, amica, amante. Anche ora sta provvedendo per me, me lo viene a dire ogni notte, quando non posso dormire perché mi manca il calore suo sotto le coperte e mi sento sola, anche se c siete tutti quanto voi. Lo vedo che sta qua, seduto vicino e mi dice: “Melì non ti preoccupare che io ti aspetto!”.




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