XII Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 19 giugno 2016 La maieutica della misericordia cioè l’arte dell’aiutare l’altro a tirar fuori il bene che ha dentro! Autore articolo Di PUNTO FAMIGLIA Data dell'articolo 17 Giugno 2016 Nessun commento su La maieutica della misericordia cioè l’arte dell’aiutare l’altro a tirar fuori il bene che ha dentro! di fra Vincenzo Ippolito Nel dialogo doniamo all’altro ciò che siamo solo se ci sentiamo amati, altrimenti ci chiudiamo e le domande non sortiscono nessun effetto, ci mettiamo discussione per essere aiutati a divenire migliori quando percepiamo che l’altro non cerca il proprio interesse, ma il nostro vero bene. Dal Vangelo secondo Luca (9,18-24) Un giorno Gesù si trovava in un luogo solitario a pregare. I discepoli erano con lui ed egli pose loro questa domanda: «Le folle, chi dicono che io sia?». Essi risposero: «Giovanni il Battista; altri dicono Elìa; altri uno degli antichi profeti che è risorto». Allora domandò loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Pietro rispose: «Il Cristo di Dio». Egli ordinò loro severamente di non riferirlo ad alcuno. «Il Figlio dell’uomo – disse – deve soffrire molto, essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e risorgere il terzo giorno». Poi, a tutti, diceva: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua. Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà». Dopo la resurrezione del figlio della vedova di Nain (cf. Lc 7,11-17) e l’esperienza del perdono per la donna peccatrice nella casa di Simone il fariseo (cf. Lc 7,36-50), saltando l’intero capitolo ottavo e parte del nono, la liturgia odierna ci conduce in un luogo solitario perché il cuore dei discepoli, provato nella fede, accolga la Parola della croce e si incamminino con Cristo verso Gerusalemme. Come per la comunità di Corinto (cf. 1Cor 1,18-31), la Pasqua di Gesù è il cardine della fede cristiana – articuls stantis aut cadentis – perché la nostra vita è scandita dalla sequela del Signore solo nella partecipazione al mistero della sua croce. Oggi il Maestro chiede anche a noi un serio esame di coscienza sul nostro essere discepoli suoi, perché solo chi ha approfondito l’identità del Cristo, può tra gli uomini parlare di Lui e agire in suo nome con potenza. Silenzio, preghiera e relazione Siamo sul finire del ministero pubblico di Gesù in Galilea (cf. Lc 4,14 – 9,50), prima del grande viaggio verso Gerusalemme (cf. Lc 9,51-19,27). Il capitolo nono – di cui leggiamo una pericope – rappresenta una linea di demarcazione perché in esso è richiesto ai discepoli un salto di fede nella sequela del Maestro. Dopo la missione dei Dodici (cf. Lc 9,1-6) e la narrazione della ricerca di Erode su chi sia Gesù (cf. Lc 9,7-9), tra la moltiplicazione dei pani e dei pesci (cf. Lc 9,10-17) e la Trasfigurazione (cf. Lc 9,28-36), Luca presenta un momento di sosta del Maestro con i discepoli, in un luogo solitario. È significativo che il Signore si ritagli del tempo per vivere in serena intimità dei momenti di pace e di riposo, per dialogare con i suoi ed ascoltare i loro pensieri. Gesù non solo dona il suo insegnamento, ma vuol anche rendersi conto del cammino che essi stanno compiendo dietro a Lui, di come la sua Parola metta radici nei loro cuori e determini un cambiamento profondo della loro mentalità. Come Luca introduce la scena, oltre che dai numerosi riferimenti nel suo Vangelo, ci accorgiamo che sta descrivendo un’azione abituale. Trovarsi in luoghi solitari è un’esigenza richiesta per riposare il corpo, dopo le fatiche apostoliche – si pensi ai cinquemila sfamati miracolosamente da Cristo – e per ritemprare lo spirito nella preghiera e nel silenzio. Ci sono momenti nella vita in cui Gesù si rende conto che non solo Lui ha estremo bisogno di ritirarsi, ma anche i discepoli hanno bisogno di una sosta, anche se non ne avvertono talvolta l’esigenza. È Lui ad avere il polso della situazione e a dare il ritmo della vita del suo gruppo. Il Maestro non è solo chi insegna e indica la strada con la sua vita, ma soprattutto chi condivide le situazioni e indica percorsi che insieme si attuano per la crescita di tutti e di ciascuno. L’organizzazione del tempo è essenziale, altrimenti si è fagocitati dai mille impegni da fare e non si trovano momenti di mutuo ascolto e di condivisione, si fanno tante cose, ma senza che vengano gustate e se ne percepisca la bellezza. La cura del silenzio è essenziale nella vita di ogni credente, come per Gesù e i discepoli. Una vita che ne risulti priva è come una pianta senz’acqua, destinata ad inaridirsi e a morire. Abbiamo bisogno di momenti di intimità e di silenzio con noi stessi, tempi di solitudine che non sono di solipsismo o fuga dalle proprie responsabilità ed impegni. Il luogo solitario Gesù lo vive con i discepoli, non è solo, ma è in compagnia di coloro che condividono la sua missione e più degli altri sono associati, per singolare privilegio, a partecipare alla sua vita intima di relazione con il Padre. La solitudine è il tempo ed il luogo della comunione con Dio e con i fratelli, il momento in cui si prega il Padre, si dialoga con Lui e si ascoltano gli altri. Può apparire strano, ma proprio quando si è lontani dalle folle, quando la mente non è immersa nel frastuono dei fiumi di parole, ciascuno averte la bellezza e la necessità del rapporto con gli altri, ci si percepisce come essere in relazione, strutturalmente fatto per la comunione con Dio e con gli altri. È nel silenzio che scopriamo come Dio ci ha creati, in questo impasto di individualità come irripetibilità e relazionalità, nella necessità di una comunione profonda con gli altri. Nella solitudine abitata dai fratelli, nei momenti di sosta per il riposo del corpo e la pace del cuore, impariamo ad armonizzare questa tensione e a saper dividere il tempo per sé e per gli altri. Armonia tra individualità e relazione rappresenta una sfida nella vita di coppia e dei consacrati perché talvolta la ricerca dei propri spazi viene avvertito come un tentativo per evitare l’altro, non come una sincera ricerca del volto di Dio che alimenta la nostra vita, trasforma il nostro cuore perché la relazione abbia Dio ed il suo amore come punto di riferimento, termine di confronto, sorgente di forza. È importante però che questo sia un impegno portato avanti insieme per questo è fondamentale che si decidano i ritmi della vita domestica, con l’elasticità di rallentare secondo la necessità di tutti. La sposa deve rendersi conto che il suo sposo ha bisogno di una sosta, come anche il marito deve custodire il cuore della sua sposa da ogni tipo di affanno ed insieme scandire il ritmo delle attività familiari, dando il giusto peso a tutto, senza mortificare le sensibilità dei figli, ma sapendole ricondurre all’unico vero fine che è la maturità e la crescita del singolo nella comunità domestica. Anche in casa è importante il silenzio, come possibilità per rientrare in se stessi e donare all’altro ciò che si è scorto nel cuore, perché senza riflessione e interiorità, il dono di me stesso, attraverso le parola, è confuso, non cristallina l’offerta di me stesso, passata attraverso il vaglio della preghiera e della luce di Dio. Anche in famiglia, il silenzio deve generare la preghiera come dialogo con Dio e nutrire lo scambio e l’ascolto reciproco. A questo servono i momenti di deserto e i luoghi di solitudine che vanno curati tra gli sposi e con i figli, attraverso delle giornate distensive in cui si cresce e ci si prende cura l’uno dell’altro. Spesso viviamo come delle macchine e la sosta è intesa più come un momento per ricarburarsi, in vista del riprendere la corsa, non come il tempo del riposo – si pensi alla teologia del sabato in Genesi 1 – come occasione per vivere l’armonia della comunione con l’intera creazione. Abbiamo bisogno di spazi e momenti di silenzio non solo a livello personale, ma anche di famiglia e di comunità religiose e parrocchiali. Le attività ci divorano, la tentazione dell’efficientismo ci porta spesso a girare come delle trottole, senza concludere nulla oppure, se raggiungiamo dei risultati, siamo convinti che sono la conseguenza del nostro impegno, dimenticando che, nella vigna di Dio “se il Signore non costruisce la casa, invano vi faticano i costruttori, se la città non è custodita dal Signore, invano veglia il custode” (Sal 126,1) Silenzio per la preghiera e per il dialogo tra noi: è questo il senso della domenica. Potremmo dire, a buon diritto, che ci è stata strappata la bellezza del riposo, in nome del guadagno ad oltranza e dell’efficientismo a dismisura. È necessario che riacquistiamo il senso del nostro spazio familiare, la casa per la coppia e la famiglia, la parrocchia con le strutture pastorali per la comunità ecclesiale, la propria casa, convento o monastero per la comunità religiosa perché anche lo spazio fisico è importante soprattutto quanto è stato studiato, sognato, disegnato, ideato e realizzato in modo funzionale alle esigenze di chi vive in quei luoghi. È necessario abitare gli spazi e far sì che divengano luoghi di incontro e di relazione. Il dialogo che nutre la relazione e la fiducia reciproca Diversamente da Marco e Matteo che ambientano la scena a Cesarea di Filippo (cf. Mt 16,13-20; Mc 8,27-30), Luca, secondo la sensibilità che gli è propria, presenta la preghiera come cornice del dialogo tra Gesù e i suoi discepoli, quasi a voler dire che il dialogo e lo scambio tra noi è possibile solo in un clima di profonda preghiera. L’ascolto di Dio genera l’ascolto vicendevole, lo motiva e gli dona spessore, come il dialogo con il Signore conduce a crescere nella condivisione, perché è Lui che dona le modalità perché la parola costruisce la casa comune e non venga utilizzata per alzare muri di divisione. La preghiera rasserena i cuori perché in essa manifestiamo il primato di Dio nostro Creatore e impariamo ad averlo sempre dinanzi agli occhi anche nelle molteplici attività della nostra giornata. Ecco perché l’orazione prolungata e profonda, quella fatta con il cuore che rifugge le parole giustapposte e ripetute senza l’attenzione e l’amore, svela la verità del tempo, perché ci fa comprendere che nella relazione è l’essenza della nostra vita e solo se curiamo un rapporto con noi stessi, con Dio e con gli altri, in un dialogo a cerchi concentrici – sarebbe utili rileggere e ristudiare la prima enciclica del beato Paolo VI, Ecclesiam Suam, incentrata proprio sul dialogo a cerchi concentrici che è l’impegno della Chiesa del Concilio – per crescere, secondo il progetto di Dio, in spessore di interiorità come capacità di relazionalità. Solo così il dialogo diventa proficuo e costruttivo nelle nostre famiglie e comunità. La preghiera, infatti, fuga le ire e scaccia i cattivi pensieri, rende il cuore docile all’ascolto e gli occhi pronti a riconoscere nell’altro un dono di Dio. La preghiera ci dona la possibilità di vedere che nessuno ha in tasca la ricetta della felicità, ma che tutti siamo chiamati ad istaurare quel confronto costruttivo che ci conduce ad essere gli uni per gli altri collaboratori della gioia dei fratelli. La preghiera dona la volontà di Dio come l’orizzonte del parlare e dell’agire, il suo disegno come meta da perseguire, la potenza del suo amore come unica forza che anima il cuore e spinge le menti a conversione e a vita nuova. La certezza che il Signore ci è accanto e sostiene il nostro andare dona al rapporto di coppia una marcia in più, perché è Lui che ha chiamati alla vita insieme, Lui che ha unito nel vincolo matrimoniale, Lui che ha reso feconda l’unione sponsale, sempre Lui ora a infondere il coraggio di mettersi in discussione nel dialogo di coppia per accogliersi come la prima volta ed ascoltarsi con il desiderio e la tenerezza del primo incontro. Perché è così difficile pregare prima di parlare, invocare il Signore, chiedere la sua presenza e la sua azione? Ruba troppo tempo alzare lo sguardo al cielo, come Gesù dinanzi al sepolcro di Lazzaro, perché il fratello venga liberato dalle sue morti, chiamato fuori dal suo sepolcro perché ritrovi la vita, attraverso la nostra parola? Gesù prega e poi intavola il dialogo con i suoi, non ha paura di ciò che diranno perché sa bene che si parla e si lascia parlare gli altri non per sentirsi dire ciò che si vuole, ma perché la persona che mi sta accanto senta la libertà di poter dire anche cose che potrebbero farmi male. Il Maestro non ha paura. La sua è una domanda a risposta libera, i discepoli possono rispondere come hanno sentito da altri, quando trasmettono ciò che la gente dice sul conto di Gesù e di manifestare le proprie idee, quando saranno loro ad essere direttamente interpellati. Il Nazareno chiede se la sua identità, il mistero della sua figliolanza, la missione ricevuta dal Padre è chiara per la folla e per i suoi che lo seguono e vivono con Lui, apprendendo non solo da ciò che insegna, ma soprattutto da quanto vive, il mistero della sua natura divina. È come se il Maestro stesso chiedendo: “Voi cosa avete compreso di me? Chi sono io?”. La domanda spiazza i discepoli e sembra di vivere nuovamente tra i flutti della tempesta, nessuno sa cosa dire, da che parte potrà venire la salvezza. A Gesù non interessa la folla, il parere della gente, sa che il popolo cambia facilmente parere, portato più dall’effimero e dal passeggero, che dalle cose che veramente contano. Egli stesso potrà vedere come gli “Osanna al Figlio di Davide!” (Mt 21,9b) diverranno, dopo pochi giorni, “Sia crocifisso” (Mt 27,22). Il Cristo sembra che stia guardando negli occhi i suoi discepoli, chiedendo a ciascuno quale posto Egli occupi nella scala dei valori, cosa sono riusciti a scoprire della sua Persona, del suo mistero, del suo cuore tutto proteso a realizzare il volere del Padre. Gesù è diretto ed è proprio questo che destabilizza i discepoli, come avviene anche a noi. Quella del Signore non è una domanda scontata, come non lo è neppure nelle nostre famiglie, dove ciascuno è quotidianamente chiamato a manifestare la propria identità, rivelare quella della persona che gli è accanto, aiutandola nel realizzare tutte le sue potenzialità. “Chi sono veramente io per te? Quale posto occupo nella tua vita?” sono le provocazioni che anche gli sposi si fanno continuamente, perché nulla è scontato e, con il passare degli anni, perché la routine non spenga la fiamma dell’amore e del dono è fondamentale dirsi e dire l’identità che ciascuno scopre nella relazione con colui/colei che il Signore ci ha donato e a spendersi con laboriosità perché la persona amata si senta preservata, pensata, custodita, serbata, accolta, sempre. Perché, come i discepoli, non rispondiamo alle domande che ci vengono rivolte? Perché eludiamo sia quelle di Gesù sia anche le provocazioni che sono poi delle richieste, indirette, di attenzione, di affetto, di amore? Dire ad una persona “Chi sono io per te?” nella relazione di coppia equivale a chiedergli “Sono veramente importante per te? Occupo tra tutti il primo posto? Hai bisogno di me come dici o mi fai intendere? Mi ami più di te stesso e della tua vita?”. Gesù vuole da noi il primo posto, lo vuole da noi, come anche dalle nostre famiglie e comunità. È nel dialogo che le nostre relazioni crescono, dalla capacità di fare domande sincere e vere come anche dalla volontà di rispondere senza sotterfugi e tranelli, vincendo la paura di non voler ferire e di accomodare le situazioni tra noi. Dio chiede la verità di noi stessi e siamo chiamati a fare nostra la sua dinamica, accogliendo il silenzio per ponderare e non evitare l’altro e quanto ci dice. È necessario la dialettica del dialogo e dello scambio se vogliamo veramente crescere, altrimenti il nostro sarà un accontentare ed essere accontentati, non un impegno continuo a fare verità e a condurre l’altro a mettere sul terreno ciò che pensa e desidera. Gesù attua la maieutica della misericordia – la maieutica è l’arte dell’aiutare l’altro a tirar fuori ciò che ha dentro, come una levatrice, ammoniva Socrate, aiuta la donna a partorire il proprio bambino – perché sa che il parlare è franco e rispettoso, sincero e mai violento solo in un clima di amore e di accoglienza. Nel dialogo doniamo all’altro ciò che siamo solo se ci sentiamo amati, altrimenti ci chiudiamo e le domande non sortiscono nessun effetto, ci mettiamo discussione per essere aiutati a divenire migliori quando percepiamo che l’altro non cerca il proprio interesse, ma il nostro vero bene. È proprio quello che fa Gesù, aiuta i discepoli a giungere ad una consapevolezza profonda della sua identità, spingendoli a seguirlo lungo la strada verso Gerusalemme. Devono comprendere che la via della croce attende anche loro nella testimonianza del Regno, perché che senso ha seguire il Maestro verso il Golgota se poi non si vuol vivere la stessa dinamica dell’amore che giunge al sacrificio della vita? Dire parole giuste ed intendere ciò che si dice La risposta di Pietro alla domanda di Gesù “Ma voi chi dite che io sia?” (Lc 9,20) è secca, priva di tentennamenti “Tu sei il Cristo” (Lc 9,20). Diversamente da quanto aggiunge Matteo – il primato petrino e l’affermazione della supremazia di Pietro tra gli Apostoli, cf. Mt 16,17-19 – Luca, seguendo in questo Marco 8,30, presenta l’ordine severo di non riferire a nessuno ciò di cui stanno parlando. Verrà il tempo dell’annuncio franco e coraggioso del Vangelo di salvezza a tutti i popoli, ma questo non è ancora il momento perché è necessario approfondire il senso della vita e del ministero del Maestro. Il problema non è la confessione della fede, ma intendersi bene sul significato delle parole che si dicono. Una risposta può anche essere ineccepibile da un punto di vista formale e, al tempo stesso, sbagliata perché non accompagnata da una profonda consapevolezza di ciò che si professa. Non basta dire che Gesù è il Cristo, è necessario, infatti, che si capisca cosa voglia dire la categoria “Cristo” perché talvolta le parole possono essere equivoche. Se vediamo i paralleli di Marco 8,31-33 e di Matteo 16,21-23, ci si rende conto che Pietro ha travisato il senso delle parole e non dimostra la stessa consapevolezza di Gesù nel confessarlo “Cristo”. Ecco perché il Maestro annuncia la sua passione, morte e resurrezione, per indicare che il messianismo che Egli vive non è modellato sulle categorie umane, ma sulla strada tracciata dal Padre. Il Signore sceglie, infatti, la modalità della croce perché solo l’amore che arriva al dono di sé è vero e credibile. Tocchiamo qui le corde della grande tentazione che attanaglia continuamente la nostra fede. Noi desideriamo e confessiamo Gesù come Cristo, ma senza croce, non vogliamo una gioia che nasca dalla sofferenza – la natura, fin da quando nasciamo ci dice, invece, che è dal dolore del parto che nasce la gioia che è venuto al mondo un uomo – perseguiamo una salvezza comoda, senza coraggio ed impegno, una sequela come un cammino in pianura, le salite ci spaventano, il solo pensarlo ci fa venire il fiatone. Una professione di fede che non accoglie la croce come unica modalità di salvezza non è vera e fruttuosa, è mondana, secondo le categorie ed i propositi nostri. Diceva papa Francesco alla sua prima Messa, nella Cappella Sistina, il 14 marzo 2013, commentando proprio questo brano evangelico: “Pietro che ha confessato Gesù Cristo, gli dice: Tu sei Cristo, il Figlio del Dio vivo. Io ti seguo, ma non parliamo di Croce. Questo non c’entra. Ti seguo con altre possibilità, senza la Croce. Quando camminiamo senza la Croce, quando edifichiamo senza la Croce e quando confessiamo un Cristo senza Croce, non siamo discepoli del Signore”. La confessione dell’amore crocifisso è il cuore del Vangelo della misericordia perché rivela l’identità di Dio amore sino al dono estremo della vita umana da noi assunta e diviene per ogni discepolo modello della sua esistenza che egualmente deve essere scandita dalla serena accoglienza del mistero della sofferenza e del male che solo l’amore abita e misteriosamente trasforma. Dalla giusta comprensione dell’identità di Cristo e del suo modo di essere salvatore e redentore degli uomini (cf. Lc 9,22) deriva una diversa cognizione della vita del discepolo e del suo cammino di sequela (cf. Lc 9,23-24) perché la sua vita non può mai essere in dissonanza con la parola che annuncia, non può predicare il primato della Pasqua di Gesù e poi vivere completamente immerso nella mentalità mondana. “Quando non si confessa Gesù Cristo – sono sempre parole di papa Francesco del 14 marzo 2013 – si confessa la mondanità del diavolo, la mondanità del demonio”. È la croce che ci rende discepoli del Signore, percorrendo, con la forza che viene da Dio, la via del rinnegamento – e quante occasioni abbiamo ogni giorno per morire a noi stessi! –troviamo inaspettatamente la vita, imboccando la strada del perdersi per ottenere la salvezza che consiste nel conservare la relazione con Dio e con i fratelli. In questo consiste la gioia della salvezza, nel non permettere che nulla e nessuno ci divida dall’amore di Dio, neppure la sofferenza e la morte (cf. Rm 8,35-39). Ecco il senso della risurrezione di Gesù, il dono del Padre di conservare la relazione amorosa con quel Figlio che, per essere unito a Lui, non è indietreggiata davanti alla croce. La sequela di Gesù, un cammino in tappe Dal silenzio alla preghiera, dalla preghiera al dialogo, dal dialogo alla fede, dalla fede all’accoglienza della croce, dietro a Cristo e con la sua forza, per trovare la resurrezione: sono queste le tappe del cammino del discepolo. Noi dove ci troviamo? All’inizio o a metà strada? Dove ci troviamo come coppia e come famiglia? Dinanzi alle nostre difficoltà, non scoraggiamoci. Il nostro capocordata è Gesù, è Lui ad infonderci forza e a sostenerci nel cammino. Aiutiamoci a vicende nell’avventura della sequela e, nel continuo rinnegamento di noi stessi, bonificando il terreno del cuore perché il Signore vi pianti la sua croce, la sorgente della vera gioia, il segno dell’abbandono alla volontà di Dio, l’unico che non ci lascia mai e ci tiene sempre stretti nel suo tenerissimo abbraccio di Padre. Aiutaci a continuare la nostra missione: contagiare la famiglia della buona notizia Cari lettori di Punto Famiglia, stiamo vivendo un tempo di prova e di preoccupazione riguardo il presente e il futuro. Questo virus è entrato prepotentemente nella nostra quotidianità e ci ha obbligati a rivedere i tempi del lavoro, delle amicizie, delle Celebrazioni. Insomma, ha rivoluzionato tutta la nostra vita e non sappiamo fin dove ci porterà e per quanto tempo. Ci fidiamo delle indicazioni che provengono dal Governo e dagli organi sanitari preposti ma nello stesso tempo manifestiamo con la nostra fede che “il Signore ci guiderà sempre” (cfr Is 58,11). 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