X Domenica del Tempo Ordinario – Anno C

“Si vede bene solo con il cuore”

di fra Vincenzo Ippolito

Avere a cuore l’altro è il segno che si è alla scuola del Maestro di Nazaret. Perché non dirsi, con l’amore ed il trasporto del primo giorno: “Tu mi stai a cuore! Voglio aver cura di te! Mi interessa la tua vita, più di quanto mi possa interessare la mia?”.

Dal Vangelo secondo Luca (7,11-17)
In quel tempo, Gesù si recò in una città chiamata Nain, e con lui camminavano i suoi discepoli e una grande folla. Quando fu vicino alla porta della città, ecco, veniva portato alla tomba un morto, unico figlio di una madre rimasta vedova; e molta gente della città era con lei.
Vedendola, il Signore fu preso da grande compassione per lei e le disse: «Non piangere!». Si avvicinò e toccò la bara, mentre i portatori si fermarono. Poi disse: «Ragazzo, dico a te, àlzati!». Il morto si mise seduto e cominciò a parlare. Ed egli lo restituì a sua madre.
Tutti furono presi da timore e glorificavano Dio, dicendo: «Un grande profeta è sorto tra noi», e: «Dio ha visitato il suo popolo». Questa fama di lui si diffuse per tutta quanta la Giudea e in tutta la regione circostante. 

 

Riprende oggi il Tempo Ordinario, con la lettura continua del Vangelo secondo Luca che accompagnerà il nostro commino fino al termine dell’anno liturgico, nella solennità di Cristo Re dell’universo (20 novembre 2016), che quest’anno coincide con la conclusione del Giubileo straordinario della misericordia. Il brano evangelico che la Chiesa propone per la nostra sosta domenicale è un quadro familiare, nel quale la morte continuamente infligge i suoi colpi e rompe le relazioni fondamentali che scandiscono la vita domestica. Una donna, già vedova per la perdita del marito, ora sperimenta il tragico dolore per la prematura scomparsa del suo unico figlio. La vita di Dio che Cristo trasmette è più grande della morte ed è in grado di trasformare la veste di lutto in abito di gioia. Gesù è capace di rivitalizzare i nostri rapporti, basta solo che Lui incroci i nostri passi perché le sue mani, come un otre, raccolgano le nostre lacrime e le facciano fiorire in gioia.

Il duello tra la morte e la vita

Ci troviamo nella terza parte del Vangelo secondo Luca. Dopo il prologo (cf. Lc 1,1-4), i racconti dell’infanzia (cf. Lc 1,5-2,51) e la preparazione del ministero pubblico (cf. Lc 3,1-4,13), Luca ci conduce a seguire Gesù in Galilea (cf. Lc 4,14 – 9,50), prima di iniziare il grande viaggio verso Gerusalemme (cf. Lc 9,51-19,27). Con la pagina odierna – racconto conosciuto solo attraverso Luca – il Maestro fa tappa a Nain – si tratta di un villaggio, di cui non si fa menzione altrove nella Scrittura – dopo che a Cafarnao ha guarito il servo del centurione.

L’Evangelista apre la narrazione presentando l’incedere di Gesù con i discepoli e la numerosa folla: è la comunità-Chiesa che ha con sé il Signore e cammina sulle strade del mondo, gioiosa per la dolce presenza del Redentore. L’Evangelista, in questo modo, indica che l’identità profonda di ogni comunità, sia essa Chiesa universale o diocesana, comunità parrocchiale o fraternità religiosa, famiglia cristiana o movimento ecclesiale, è Cristo, il Maestro e il Signore, perché la nostra ragione di essere insieme, un cuor solo ed un’anima sola, risiede nella presenza di Cristo e nell’azione dello Spirito suo comunicato in abbondanza ad ogni battezzato. È Lui a renderci Chiesa e ad insegnarci la necessità di uscire dall’ambiente chiuso del tempio e della sinagoga per incontrare l’uomo lì dove brulica la vita perché la salvezza deve essere annunciata ad ogni uomo. In tal modo, Luca ci dice che il dinamismo della missione dei discepoli risiede nella stessa volontà di Cristo di attirare a sé quanti sentono il bisogno di Lui. Si tratta di una comunità in cammino, che ha Gesù, il Maestro e Signore come guida e pastore, la volontà del Padre come meta, la grazia dello Spirito come energie vitale che sostiene e corrobora le fragili capacità umane di resistere lungo la strada. Gesù spinge le pecore oltre il recinto. Egli ci chiede di vincere ogni forma di stabilità, sia essa mentale ed intellettuale, oltre che fisica, perché donare il Vangelo è un dovere per tutti, da vivere con lo stesso impegno che ha scandito la vita di Gesù Cristo.

Se riuscissimo anche noi a considerare la presenza e l’azione di Dio nella nostra vita quotidiana! C’è Gesù che cammina con me, con la mia famiglia, nelle situazioni più disparate della vita. Stiamo seguendo Lui – potremmo formularla anche a mo’ di domanda stiamo seguendo Lui? – e di questo ne dobbiamo essere ben convinti, camminiamo con Lui – anche qui, stiamo camminando con Lui? – e rimettiamo al Maestro la scelta della strada da perseguire – rimettiamo a Lui la scelta della via da seguire, della meta da raggiungere? – nella consapevolezza che è Lui il timoniere della barca della nostra vita. In famiglia dobbiamo avere sempre dinanzi agli occhi lo spaccato che Luca ci affida, il camminare con Cristo, con i discepoli e molta folla perché la nostra vita è un cammino con Cristo e con i fratelli. Gesù è con me, con la mia famiglia. È presenza misteriosa, ma reale nelle vicende della mia parrocchia. Io cammino con Gesù e Gesù cammina con me, mi sostiene con la sua mano, mi rincuora con la sua voce decisa, mi spinge a proseguire il cammino della vita, in obbedienza al Padre perché Lui è con me.

Gesù cammina con me, cammina con noi, come il bel Pastore ci precede, come il guardiano ci spinge fuori, come la porta ci permette di attraversare ogni buio per trovare la luce della vita: è questo che dobbiamo dirci continuamente durante la nostra giornata, come annuncio di speranza e di gioia da scambiarci nella consapevolezza che la persona che ci è accanto è per me la prima testimone della presenza e dell’azione amorosa di Dio nella mia vita. Solo l’amore di Dio è l’energia che muove i miei passi lungo i sentieri scoscesi delle difficoltà, solo il suo sguardo mi dona la capacità di sentirmi accompagnato in ogni difficile impresa, sola la sua mano mi salva, come un giorno accadde a Pietro, dalla presunzione di seguire il Maestro lì dove solo la fede salda e robusta può vincere i flutti del mare agitato (cf. Mt 14,2-33). Non ci ripeteremo mai abbastanza Dio è con me, il Signore è con noi, facendo nostre le parole del salmo 26 che come un balsamo scendono nel cuore donando la pace: “Se contro di me si accampa un esercito, il mio cuore non teme, se contro di me infiamma la battaglia, anche allora ho fiducia” (v. 3). Non bisogna mai dubitare della presenza di Dio nella nostra vita, perché, pur nelle situazioni più oscure, nelle vie più anguste, nella debolezza e nell’esperienza più profonda del male, Dio è con noi. Non solo, perché se Paolo scrive “dove abbonda il peccato, sovrabbonda la grazia” (Rm 5,20), la potenza della misericordia di Dio si rivela con maggiore forza nella difficoltà, come un raggio di sole splende con maggiore intensità proprio in una camera buia. Basta una fessura, è tutto si riveste di una limpida luce.

Non siamo soli, perché, seguendo Gesù, possiamo contare anche sui fratelli che ci sono accanto, quelli che, al pari dei discepoli per Gesù, sono a noi più vicini e gli altri che seguono come noi il Signore. Luca ci insegna che è importante relazionarsi con tutti – altrove il Maestro dirà: “Se amate quelli che vi amano, quale merito ne avrete?” (cf. Lc 6,32) – perché è Gesù che ci rende un cuor solo e dona forza per procedere nelle difficoltà e superare le incomprensioni. È questo che bisogna ricordare quando in famiglia ci si becca, in comunità sorgono rancori e gelosia, segno di un amore non maturo e di una capacità di gioire del bene che il Signore opera nell’altro. Insieme siamo il Corpo di Cristo che cammina nella storia; insieme testimoniamo il comandamento della carità; insieme siamo la dolce presenza di Cristo per l’uomo di oggi che, come quel tale incappato nei briganti sulla strada da Gerusalemme a Gerico (cf. Lc 11,30), chiede la compassione e la solidarietà di un cuore che si lascia raggiungere dal dramma della vita altrui.

La Chiesa è il corteo della vita, perché c’è Gesù e proprio la presenza del Risorto dona la capacità di incontrare il seguito del lutto e della morte, senza paura per il Signore, il Vincitore sul peccato e sulla morte, è Lui che combatte al nostro fianco. In ogni battaglia, il discepolo del Risorto sa di poter e dover dire: “Nel mio arco non ho confidato e non la mia spada mi ha salvato. Tu ci hai salvato dai nostri nemici, hai confuso i nostri nemici” (Sal 43,7-8). È Dio che vince in noi, sempre e quando sopraggiungono difficoltà nella vita, a noi è chiesto di lasciar operare sempre e solo il Signore. È lui che deve agire e a noi spetta lasciarlo operare con la potenza della sua misericordia. È quanto capita nell’incontro tra il corteo della vita capeggiato da Cristo e quello della morte, che conduce un ragazzo morto prematuramente e strappato anzitempo all’affetto della madre vedova. E se nella sequenza di Pasqua la liturgia ci fa cantare “Morte e vita si sono affrontate in un prodigioso duello”, nella pagina lucana vediamo che questo non riguarda solo il Capo che è Cristo, ma anche le sue membra, i cristiani che, seguendo Lui, devono passare “attraverso la grande tribolazione e lavare le loro vesti nel Sangue dell’Agnello” (cf. Ap 7,14).

E noi a quale corteo apparteniamo? Seguiamo Cristo, confessandolo la sua presenza ed azione nostra vita, oppure siamo assoldati nell’esercito della morte e viviamo senza speranza, soggetti alle preoccupazioni del mondo, incapaci di guardare al di là? Entrambi i cortei sono accanto alla porta, chi per uscire e chi per entrare ed io dove mi trovo? Accanto alla porta, esco dalla mia vita per seppellire le speranze di un rapporto finito o, al seguito del Maestro so che Egli è capace di rivitalizzare ogni speranza?

La compassione del Signore passa attraverso uno sguardo

La scena così come Luca la presenta è scarna ed essenziale, creando maggiormente nel lettore una rilevante partecipazione emotiva. Una madre conduce, accompagnata dalla folla della città, il suo unico figlio alla tomba. Quale contrasto tra il vociare di coloro che seguono Gesù e sono ancora pieni di stupore per la guarigione operata a Cafarnao, con il servo del centurione romano (cf. Lc 7,1-10) e quelle persone che piangenti e sono in lutto, inconsolabili per quanto è accaduto! Per una vedova, un figlio è tutta la sua ricchezza, non solo da un punto di vista affettivo, ma anche economico. Un figlio unico, come in questo caso, diveniva il responsabile della famiglia, sia giuridicamente nel difendere da eventuali soprusi sia anche per la sussistenza che era assicurata dal suo lavoro. Ora, invece, quella donna, già senza marito, diviene priva anche di ogni protezione legale, senza appoggio economico e di un minimo di conforto ed affetto familiare.

Luca appunta, focalizzando nel versetto 13 la chiave di volta della scena, “Vedendola, il Signore fu preso da grande compassione per lei” (Lc 7,13a). Gesù è il Signore, il Risorto e il Vivente. L’Evangelista proietta sulla scena della vita pubblica del Maestro, quindi prima della Pasqua, la confessione di fede della Chiesa post-Pasquale. Alla luce della resurrezione, i discepoli possono considerare il Maestro come il Signore, ovvero attribuire a Lui quel titolo che nell’Antico Testamento era prerogativa di Dio solo. “Dio è il Signore” – il grido del popolo sul monte Carmelo, dove il profeta Elia ha smascherato la falsità degli idoli (cf. 1Re 19, ) – è tradotto nella professione di fede cristologica dalla primitiva comunità cristiana se Paolo, riportando un inno che circolava nelle chiese delle origini, scrivendo ai Filippesi, dice “Gesù Cristo è il Signore” (Fil 2,11). Solo il Signore “scruta la mente e saggia i cuori” (Ger 17,10), solo Lui raffina al fuoco il cuore e la mente (cf. Sal 25,2), conoscendo in profondità l’interiorità di ciascuno. Il Cristo entra nel dramma di quella donna perché il suo dolore ha penetrato nell’intimo del suo cuore, muovendo la sua compassione, le viscere della sua misericordia, le profondità del suo essere Dio-amore per essenza, della stessa sostanza amorosa del Padre. La vista di quella donna produce in Gesù un sussulto, causa un fremito, scuote la stessa Persona del Verbo, quasi a ricordare all’uomo – ammesso che ne avesse avuto bisogno! – la sua missione di consolatore, di redentore, custode e difensore dei deboli, avvocato dei dimenticati, rifugio degli oppressi. La compassione in Gesù supera il semplice sentimento naturale perché riflette la compassione e l’affetto di predilezione che Dio ha sempre dimostrato per il suo popolo. Come il buon Samaritano (cf. Lc 10,33), come il Padre misericordioso (cf. Lc 15 15,20), il semplice sguardo di Cristo spinge alla compassione. Le due parabole che l’Evangelista donerà nel corso del suo Vangelo, qui trovano in Gesù la spiegazione più significativa: Dio guarda e si commuove, Dio vede e brucia nell’intimo per il dolore che l’altro vive, Dio vede e si commuove, non superficialmente, ma vengono toccate le fibre più profonde del suo essere. Il Figlio di Maria mostra il volto di un Dio che è compassione, che guarda e partecipa, vede e si immedesima, entrando in empatia con l’altrui dolore, con il mistero dell’umana sofferenza. È questa la solidarietà che il Verbo vive, questa la bellezza della dinamica dell’Incarnazione –  potremmo anche definirla, sulla base di Fil 2,6-11, dinamica kenotica, ovvero di abbassamento ed umiliazione che Dio sceglie per rialzare l’uomo e arricchirlo con la sua grazia (cf. 2Cor 8,9) – Dio si spoglia e ti riveste, quando ti vede in difficoltà, come il padre misericordioso, ti attende e scruta da lontano il tuo ritorno e ti corre incontro, si getta al collo, offrendo il tenerissimo bacio di una riconciliazione sempre donata, mai pretesa e meritata. In tal modo Gesù rivela sì il volto della misericordia e della compassione del Padre, ma in se stesso. La vita del Nazareno è specchio tersissimo di ciò che Dio è – amore che sempre si dona – e di quello che fa, nell’eccesso del suo amore per l’uomo.

Quale meravigliosa empatia tra Gesù e la donna. Il dolore penetra nel cuore di Cristo, come la lancia del soldato nel suo costato e se da questa sacra sorgente del Cuore del Diletto addormentato sul legno della croce fece sgorgare il sangue e l’acqua che rallegrano la santa città di Dio e fanno fiorire la grazia della vita nuova del perdono, la lancia del dolore della donna porta Gesù alla compassione, ad immedesimarsi, a non essere estraneo al dramma che si sta consumando dinanzi a Lui.  

Guardiamo Gesù, fissiamo i nostri occhi su di Lui, quanto in Lui contempliamolo chiediamolo al Padre perché, nella forza del suo Spirito, si compia per ciascuno di noi! Con insistenza domandiamo di avere lo sguardo di Gesù, la sua capacità di entrare nel cuore dell’altro, pur senza conoscerlo, e di lasciare che il dolore e la gioia sua penetrino nelle profondità del nostro cuore. Se nelle nostre famiglie e comunità ecclesiali e religiose si riuscisse ad avere un simile sguardo! Occhi che amano ed entrano nel cuore, ne scrutano i segreti, danno voce ai gemiti; occhi che leggono ciò che non si dice, pur volendolo dire; occhi che non si fermano in superfice, al dolore umano che fa parte della vita e della storia degli uomini fin da Caino che decretò la morte del fratello; occhi che condividono e conducono il dolore dell’altro ad imprimersi profondamente nell’intimo del cuore. Non sono gli occhi che vedono in Gesù, ma il cuore – non lo diceva forse la volpe al Piccolo Principe, “Si vede bene solo con il cuore”? – vedere con il cuore non è di tutti, ma unicamente di coloro che permettono al Signore di mettere in loro la sua abitazione e dimora. Guardiamo con il cuore le persone che ci stanno accanto! Quanto spesso il nostro è uno sguardo smorto e distratto, privo di interesse e di amore. Sembra che dobbiamo continuamente elemosinare attenzione ed interesse. A Gesù, la donna, come ogni pecora al buon Pastore, interessa e sta a cuore. Avere a cuore l’altro è il segno che si è alla scuola del Maestro di Nazaret. Perché non dirsi, con l’amore ed il trasporto del primo giorno Tu mi stai a cuore! Voglio aver cura di te! Mi interessa la tua vita, più di quanto mi possa interessare la mia!? Questo porta ad essere con gli occhi svegli, facendo propria quella saggezza biblica che porta ad avere gli occhi in fronte, ovvero ad essere attenti agli eventi della storia.

Consolare ovvero ridonare ragioni di vita e di speranza

Vedere con il cuore e amare con le viscere è la nuova anatomia di Gesù. Il cuore è la sede della volontà per l’uomo biblico e le viscere dell’affetto che è vero solo se si avvicina a quello di una madre, la cui relazione amorosa con il figlio non è giuridica, né sociale, ma carnale, viscerale appunto, la maternità è un dato iscritto nella carne viva di una donna che, per questo, diviene madre. Quando Gesù ama e sente compassione dell’altro, il suo non è il sentimento di commiserazione che nasce dallo sgomento di ciò che è accaduto e che non doveva verificarsi, per la nostra sensibilità. Avere compassione, amare visceralmente l’uomo per il Figlio di Maria significa accogliere tutti, nella concreta situazione che si sta vivendo. Avere compassione significa accogliere e far posto all’altro nelle profondità del proprio intimo, lì dove nel silenzio ogni donna avverte sorgere la vita che la rende madre, in quel grembo dove per nove mesi, nascosta nei moti reconditi, ogni figlio si è sentito amato perché accolto, nutrito, custodito, atteso. La compassione, come la maternità non è un dato razionale, ma esperienziale. Questo fa Gesù: vede con il cuore, ama con le viscere e, attraverso la sua parola, raggiunge il cuore e le viscere dell’altro perché solo allora si sperimenta la consolazione, quando la parola, rompendo il velo della superficialità, penetra nel cuore e giunge alle viscere, facendole divenire nuovamente grembo accogliente dove rifiorisce la vita. In questo modo, Gesù va al di là del formalismo e dove noi balbettiamo frasi senza senso che non convincono noi per primi, Egli interviene con la sua potenza. Il suo “Non piangere” (Lc 7,13) è il segno della sua partecipazione al dramma di quella donna, ma, in un certo senso, sono lo spartiacque tra la compassione che alberga nel suo cuore ed il gesto di ridonare la vita. È questo il valore che anche le nostre parole dovrebbero avere, stare a metà strada tra ciò che il cuore sente, ama, compatisce della vita dell’altro ed il desiderio di intervenire perché vengano rimosse le cause dell’altrui sofferenza e nella vita della persona amata rifiorisce la gioia. Il formalismo, il vuoto si avverte quando le parole non fioriscono dalle viscere, quando non sono il segno di una volontà di intervenire per donare all’altro salvezza. Ciò che si dice non serve alla persona che si ama se è detto tanto per dire, per evitare il silenzio – meglio sarebbe stare zitti, piuttosto che dire parole prive di senso – per destreggiarsi alla meglio in una situazione complicata. Abbiamo bisogno di parole che nascano dalle viscere della misericordia, di parole intrise di compassione, profumate di vita. La parola non generata nel cuore, non convince né consola, non solleva né risana, non guarisce né rallegra.

Abbiamo bisogno di parola che, non solo traducano meglio l’amore, ma che mettano in moto tutti i sensi dell’uomo nella relazione di coppia e nei rapporti familiari, proprio così come capita in Gesù. Prima si vede, poi si capisce con il cuore, si percepisce con le viscere, si partecipa intimamente alla situazione osservata e poi si parla per intervenire con le capacità che il Signore ci ha elargito. Come nascono le nostre parole? Siamo impulsivi e ci lasciamo portare dalla superficialità di quanto osserviamo oppure riusciamo a ponderare le situazioni, a riflettere sulle difficoltà, ad entrare con delicatezza in quanto sta accendendo intorno a noi? La nostra società, fondata sull’efficienza e sul massimo profitto con costi ridotti, ci porta spesso a vivere la medesima dinamica anche nei rapporti, senza riuscire a venire fuori dal vortice delle cose da fare che ci divorano. Gesù si ferma. Esiste per Lui solo quella donna, il suo dolore, la sua angoscia mortale che gli è penetrata nel cuore. È come se non ci fossero né i discepoli né la folla, ma Lui solo, la donna e suo figlio morto. Perché, nelle nostre relazioni familiari, non riusciamo talvolta a guardaci negli occhi dimenticando tutto il mondo? Perché gli altri, il lavoro, gli impegni vengono prima di colei/colui che si ama?

Gesù si avvicina. L’amare è avere la capacità di avvicinarsi all’altro senza la paura di essere contaminato dalla morte del cuore, dall’angoscia che gli consuma l’anima. La legge di purità impediva ad ogni pio israelita il minimo contatto con un cadavere, pena l’impurità che solo i riti di purificazione avrebbero rimosso. Il Signore si avvicina e tocca: è la logica dell’incarnazione, motivata dall’amore e dalla salvezza dell’altro. Un amore che non incontra, non cerca, per paura o per vergogna, si può chiamare amore? Dove non c’è il coraggio di infrangere il legalismo del sabato, costruito dagli uomini, di saltare i recinti delle umane sicurezze, non si può parlare di amore; dove non si vive lo scandalo dell’abbracciare e baciare, come san Francesco, il lebbroso, che è pur sempre un fratello, come si può dire di seguire Cristo che ha lasciato il seno del Padre per “contaminarsi” con la nostra umanità ferita dal peccato? Il toccare del Signore non è forse mosso dall’amore che determina la sosta dei portatori, quasi a dire che non bisogna andare più verso la morte, ma cambiare meta del proprio cammino e ritornare a cantare la bellezza della vita giovanile? La sua parola – “Ragazzo, dico a te, alzati!” (v. 14) – non è forse il ridonare la vita, Lui che della vita è il Signore? Gesù rialza, ovvero – così come dice l’originale greco – risuscita. Sì, Gesù ha parole di vita e di resurrezione – “Tu hai parole di vita eterna” confessa Pietro a Gesù, dopo il discorso sul pane di vita (Gv 6) – e vuole che anche noi impariamo ad avere gesti e parole di resurrezione, gesti e parole di restituzione – “Ed Egli lo restituì a sua madre” (v. 15), scrive san Luca – che cambiamo in gioia ogni pianto. È questa la potenza dell’amore, riversata in noi dallo Spirito del Risorto.

I gesti dell’amore che ridonano la vita

L’intervento miracoloso non è richiesto dalla donna, ma è Gesù che sente la necessità di operare con la potenza della sua misericordia. Proprio in una situazione limite, il Maestro, mosso dalle sue viscere di compassione, parla per consolare e poi, toccando con la sua mano, farà rifiorire la vita ed il giovane, seduto, ricomincerà a parlare. Lì nasce la gioia: da un figlio che siede come un maestro e parla come un adulto. La crescita e la maturità dei figli è la gioia dei genitori che, con l’amore coraggioso ed intrepido, hanno permesso di vincere le esperienze di morte, entrandovi con la misericordia di chi condivide, l’affetto di chi comprende, la tenerezza di chi tocca per donare il balsamo che Dio riversa nel cuore, un amore che mai si consuma e non conosce fine perché è lo Spirito-amore in noi.




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