SS. Trinità – Anno C

In famiglia bisogna fare esperienza di Dio, non imparare una dottrina

di fra Vincenzo Ippolito

Portare il peso delle situazioni della vita dell’altro non è cosa da poco. Nelle nostre famiglie è richiesto coraggio e forza d’animo per non lasciarsi vincere dallo scoraggiamento e per non soccombere sotto il peso delle situazioni.

Dal Vangelo secondo Giovanni 16,12-15
In quel tempo, disse Gesù ai suoi discepoli: «Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà».

 

La domenica che segue la solennità di Pentecoste è dedicata alla celebrazione della santissima Trinità, il primo dei due misteri principali della nostra fede (il secondo è Incarnazione, Passione, Morte e Resurrezione di nostro Signore Gesù Cristo). In realtà, però non celebriamo un evento salvifico, ovvero un intervento di Dio nella storia – si pensi al Natale che ci fa rivivere la nascita di Gesù – ma Dio stesso, sorgente e fine di tutte le cose.

La Chiesa, collocando questa celebrazione dopo il Tempo pasquale, vuol mostrare che il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, nell’unica sostanza divina, insieme hanno creato il mondo per amore e sempre presenti negli eventi degli uomini conducono la storia verso il suo compimento, nella vita senza fine del Regno eterno. Per ciascuna delle nostre famiglia è questa un’occasione propizia per ricomporre la diversità nell’unità, con la forza dell’amore che il Signore effonde con tanta larghezza in noi.

Fare esperienza di Dio, non imparare una dottrina

Proprio perché ci troviamo nella festa della santissima Trinità, ci aspetteremmo che il Vangelo parli, con idee chiare e distinte, del mistero del nostro Dio, uno e trino insieme. Inutili però attendersi dal Vangelo un’esposizione sistematica sui misteri della fede. La Scrittura, infatti, non è un testo di catechismo, né un manuale di teologia sistematica, quanto, invece, il racconto della vita condivisa con il Signore. L’evangelista Giovanni narra, infatti, l’esperienza dei discepoli con Gesù, descrive delle concrete situazioni, trasmette le parole del Signore in eventi precisi e circostanziati. In questo modo, ogni lettore è invitato ad entrare nella dinamica narrativa del testo e a rivivere l’esperienza dei discepoli, seguendo le tappe che hanno caratterizzato il loro cammino di sequela. Nei Vangeli troviamo professioni di fede utilizzate durante il battesimo (cf. Mt 28,19), ma ancor di più ci viene narrata la relazione che Gesù vive con Dio Padre, nella forza dello Spirito e, al tempo stesso, ci è offerta di entrare nella vita trinitaria attraverso la porta del mistero pasquale di Cristo.

La Scrittura non ci dice tanto chi è Dio, ma cosa Dio opera per la salvezza dell’uomo e da ciò che Egli fa e dice velatamente di sé, intravediamo la sua natura che, in quanto mistero divino, non è possibile intendere in pienezza ed esprimere con le nostre categorie. In questo modo riusciamo a comprendere anche il brano evangelico odierno, nel quale Gesù introduce i suoi discepoli nel mistero di Dio e promette il suo Spirito perché li guidi alla comprensione della verità tutta intera (cf. Gv 16,13). Possiamo quindi affermare che con i Vangeli inizia quel cammino di comprensione del mistero di Dio da parte dei discepoli perché non di tutto trattano gli Evangelisti, interessati a narrare un’esperienza più che a descrivere un sistema teologico di idee. In tal modo, nel brano odierno di Gv 16,12-15 apprendiamo come le tre divine Persone operano in sinergia la salvezza degli uomini e comprendiamo le tappe essenziali che anche il discepolo deve compiere dietro a Gesù per vivere in Dio e di Dio.

Nulla chiedere che l’altro non possa fare

Con la liturgia odierna, ci troviamo ancora una volta nel cenacolo di Gerusalemme – nelle domeniche del Tempo di Pasqua, abbiamo più volte sostato nella sala al piano superiore – dove Gesù dona ai discepoli le sue ultime parole, prima di vivere il mistero della sua consegna fino alla croce. La pericope che leggiamo – appena quattro versetti – fa parte del capitolo XVI del Vangelo secondo Giovanni, seguito dalla preghiera di Gesù al Padre (cf. Gv 17), prima del tradimento e della consegna (cf. Gv 18,1-11). Il momento è dei più intensi. Gesù continua a parlare ai suoi, pur se non capaci di comprendere in profondità la sua parola ed indica nel cammino della croce la direzione obbligatoria perché ogni uomo trovi in Lui la strada della vita vera e della gioia piena.

La prima cosa che notiamo, leggendo il brano, è la lucida consapevolezza che Gesù dimostra della situazione in cui i suoi discepoli si trovano. A Lui nulla è nascosto e le cose che interiormente percepisce dei suoi non lo condizionano minimamente dal suo desiderio di amarli. Traspare, infatti, da Lui una profonda serenità, pur velata di tristezza, già dimostrata in precedenza nel predire il tradimento di Giuda (cf. Gv 13,21) e il rinnegamento di Pietro (cf. Gv 13,36-38). Ora, rivolgendosi a tutti con eguale chiarezza, mostra la loro incapacità a seguirlo sulla strada della croce, non con parole di rimprovero, né tantomeno di accusa, ma con la semplicità di chi ama e lascia che l’altro sia libero di ricambiare o meno l’amore. Cristo vorrebbe parlare della sua vita, del compimento della sua missione, della volontà del Padre su di Lui, del dono del suo Spirito che abilita l’uomo a vivere di Dio e con Lui solo, nel dono della vita per i fratelli. In parte lo fa, parla, chiarisce, risponde alle domande che gli vengono rivolte, desidera che l’equivoco su ciò che dice non confonda il cuore dei discepoli.

Gesù sa che essi non possono portare il peso di quello che desidera comunicare loro. “Ancora molte cose ho da dirvi – Egli confida con profondo affetto – ma per il momento non siete capaci di portarne il peso” (Gv 16,12). Il Maestro, ora più che in altri momenti, sente tutta l’angoscia della solitudine e del rifiuto – i Vangeli sinottici ben lo descrivono nella scena del Getsemani – ma sa che non può contare sul conforto e la partecipazione, sulla solidarietà e la comprensione dei discepoli (sempre i Sinottici bene lo mostreranno nel sonno dei tre prediletti invitati a pregare nell’ora della prova). Lo aveva confidato a Pietro poco prima “Dove io vado, tu non mi puoi seguire ora, mi seguirai più tardi” (Gv 13,36). Egli vuole che dove si trova Lui, siano anche i suoi, ma non è questo il momento, i discepoli non sono ancora pronti per un tale cammino, sull’albero della loro croce i frutti sono ancora acerbi. Amare significa non guardare ciò di cui si ha bisogno; amare vuol dire guardare l’altro e preoccuparsi di lui, proprio come fa Gesù.

Sentiamo in noi il desiderio, come anche la necessità di comunicare tante cose alle persone che ci sono accanto, ma, prima di parlare, è sempre bene chiedersi se sia opportuno farlo, se le spalle dell’altro potranno reggere il peso delle parole o se è preferibile il silenzio per attendere tempi migliori. Spesso nei nostri dialoghi siamo come dei fiumi in piena, le grandi acque delle nostre esperienze investono l’altro, gettiamo su di lui il fardello delle situazioni vissute e delle sensazioni avvertite nelle relazioni quotidiane. Questo è sì un fatto positivo perché dimostra il nostro desiderio di condividere la vita con chi amiamo, la volontà di manifestare tutto di ciò che siamo, perché l’altro/a è parte di noi. Ma in questa dinamica, dobbiamo sempre ricordare che al centro non dobbiamo porre noi e i desideri che ci portiamo nel cuore. È necessario, infatti, pensare anche al desiderio dell’altro, alle sue necessità, alla capacità sua di sostenere quanto noi gli gettiamo come carico pesante sulle spalle. Tante volte pretendiamo dall’altro senza accorgersi che la persona che ci sta accanto, come noi hai i suoi pesi e le sue difficoltà e, prima ancora di partire in picchiata, anche lui va guardato negli occhi ed è necessario vedere se può ascoltarci o se, forse è più opportuno che noi ci mettiamo in suo ascolto perché il suo bisogno di condivisione è maggiore del nostro.

Esiste quindi una tensione tra ciò che si vuol donare e quanto l’altro è capace di recepire. Le nostre famiglie ogni giorno sono chiamate a vivere questa tensione, guardando con lucidità ed audacia la situazione nella quale ciascuno vive. Gesù ci insegna a non colpevolizzare l’altro per le lentezze che sperimenta, ma ad accompagnarlo nel cammino di maturità e di crescita. Non dobbiamo attenderci dall’altro se non ciò che Egli è capace di offrirci. Significativa, a tal riguardo è la lettera scritta da san Francesco ad un frate, angosciato per le difficoltà che vive con i suoi fratelli. Dopo averlo condotto a considerare tutto come un dono di Dio, chiede di accogliere coloro che più lo fanno soffrire, senza nulla attendersi e soprattutto senza nulla pretendere, pur se animato dal desiderio del bene per l’altro. Disarmante è la richiesta di Francesco d’Assisi “E ama coloro che agiscono con te in questo modo e non esigere da loro altro se non ciò che il Signore darà a te. E in questo amali e non pretendere che diventino cristiani migliori” (Lettera ad un Ministro 5-6: FF 234). Potrebbe sembrare assurdo, invece è così. Perché mettere sulle spalle degli altri pesi che noi non siamo capaci di portare? Inutile chiedere l’impossibile, così come risulta inutile guardare e misurare il fratello con le proprie categorie mentali. È necessario, come il Maestro di Nazaret, partire dall’altro, da quello che è capace di fare, dai tempi che sta vivendo, dalla giornata che sta affrontando, dai desideri che ha nel cuore. Chiedere all’altro ciò che non può darmi – altra cosa è invece, chiedere ciò che può darmi, perché ne ha la possibilità e per pigrizia o immaturità non vuol donare! – è come avvicinarsi ad un otre di acqua per attingervi del vino. Ognuno offre quello che ha. L’importante è non tirarsi indietro, confessare le proprie incapacità e limiti, senza farli divenire pietre di inciampo nella relazione.

Portare il peso delle situazioni della vita dell’altro non è cosa da poco. Nelle nostre famiglie, come anche nelle comunità religiose e parrocchiali è richiesto coraggio e forza d’animo per non lasciarsi vincere dallo scoraggiamento e per non soccombere sotto il peso delle situazioni. E se l’Apostolo ammonisce “Portate gli uni gli altri i pesi, così adempirete la legge di Cristo” (Gal 6,2), sappiamo bene che il giogo dell’altro è la sua croce. Siamo chiamati ad essere Cirenei della gioia che nasce dalla condivisione delle difficoltà, nella consapevolezza che il nostro cuore è fragile e le nostre mani spesso divengono cadenti. Abbiamo bisogno di Cristo e della sua grazia per non gettare la nostra croce e quella dei fratelli e per non abbandonare il cammino quando ci sentiamo soli ed incompresi. Solo la determinazione del Cuore di Gesù può sostenerci in quei momenti per continuare a sperare, pregare, lottare con tutto noi stessi.

Tutto si supera con l’amore

Gesù Cristo, pur constatando l’incapacità dei discepoli a comprendere appieno la sua parola e a portarne il peso, promette il suo Spirito. L’incapacità è questione momentanea, le difficoltà non dureranno tutta la vita, l’incomprensione dinanzi alla sua parola potrà essere vinta. C’è, infatti, un solo modo per superare lo stallo ed è l’amore, lo Spirito di verità. Solo l’amore donato in maniera gratuita libera la vita dei discepoli dalla paura della solitudine e dal buio dell’incredulità, dalle tenebre della non conoscenza e dalla notte del non credere alla parola di Gesù, dalla incapacità di portare il peso della testimonianza e di partecipare al dolce giogo del Signore. Cristo sa che è necessario per compiere la sua missione inviare il Paraclito e, prima ancora che il Padre lo effonda nel suo nome (cf. Gv 14,26), lo promette perché i discepoli siano preparati ad accoglierlo e a vivere la sua stessa vita di missione nel mondo.

Lo Spirito di verità verrà, è questa la certezza che rischiara l’orizzonte di Gesù, la forza che gli permette di affrontare le atrocità della passione, la durezza della croce, l’orrore della morte, il sapere che verrà un momento nel quale il velo dinanzi agli occhi dei discepoli cadrà e allora comprenderanno. Anche noi dobbiamo essere interiormente animati dalla stessa speranza, nei momenti di difficoltà. Spesso, invece, vediamo tutto nero, non comprendiamo le chiusure delle persone che amiamo e ci chiudiamo anche noi, non solo non proviamo ad usare la pazienza dell’amore e ad aspettare i tempi di maturità dell’altro, ma ci estraniamo perché la croce che portiamo è pesante e ci appare così duro il legno sulle nostre spalle che l’incapacità dell’altro a condividere è per noi causa di un dolore più grande di quello che sopportiamo per le situazioni della vita.

Perché è così difficile per noi comprendere che l’altro non ha la forza? Perché pretendere che la persona che si ama con tutto se stessi comprenda e sostenga? Non può accadere che siamo noi a chiedere cose impossibili o per lo meno a non saper aspettare momenti più opportuni per affrontare difficoltà che ora appaiono insormontabili, ma che in futuro potranno essere meglio condivise e sopportate? Perché non riusciamo a vivere di speranza, a coniugare il verbo amare al futuro, riducendo tutto il nostro orizzonte al qui ed ora, nelle poche cose a cui abbiamo ridotto la nostra vita?

Il discepolo di Cristo è l’ambasciatore della speranza che non delude, il paladino della parola che non inganna, il testimone della promessa che non ci lascia a mani vuote. Ma c’è bisogno di tempo. Oh, se sapessimo accettare la lezione del tempo! Se riuscissimo ad accoglierci come essere temporali che nel tempo nascono, nel tempo crescono e nel tempo che scorre, sempre lentamente, anche se noi talvolta lo percepiamo veloce, diveniamo più maturi ed il Signore interiormente ci rende in creature nuove! Ci sarà un tempo nel quale io potrò essere migliore, riuscirò, con la grazia di Dio, a superarmi, a non cadere, a non abbattermi, a non sentirmi solo ed abbandonato dall’incapacità del fratello. Ci sarà un tempo in cui porterò con amore e maggiore trasporto d’affetto il peso delle persone che amo e nel quale anche il peso della mia vita apparirà più leggero per portarlo con responsabilità da solo, senza nulla attendere e pretendere. Abbiamo bisogno nelle nostre famiglie di guardare al futuro con speranza e di sapere che in un futuro prossimo la presenza del Signore renderà possibile ciò che ora desideriamo, ma con le nostre sole capacità non riusciamo a fare.

Lo Spirito ci rende capaci, capaci di comprendere Dio e di vivere di Dio, capaci di portare il peso della vita e di sollevare gli altri dai fardelli che hanno spalle, capaci di vivere nella gioia che nasce dalla croce e di testimoniare che la salvezza per ogni uomo è unicamente Gesù, il cui nome è dolcezza, la cui presenza è sicurezza, il cui amore basta, la cui forza abita la debolezza della nostra creaturalità, il cui sguardo infonde coraggio, la cui mano risolleva dalla cadute, la cui voce, conosciuta dalle pecore chiamate da Lui per nome, accende nel cuore il desiderio della sequela.

Ma “Quando verrà lo Spirito di verità?” ci chiediamo noi rendendo domanda un’affermazione certa, una promessa sicura del Signore? Viviamo così stanchi e sfiniti per il peso della vita e desideriamo camminare alla sua luce; le bugie come le mezze verità logorano i nostri rapporti e non ci permettono di vivere nella sincerità di relazioni che ci fanno maturare e che creano tra noi luoghi di crescita. “Dove c’è lo Spirito del Signore – dice Paolo – c’è libertà” (2Cor 3,17), dov’è presente la Potenza del Risorto fioriscono tutte le virtù, la verità dell’amore e la libertà dall’egoismo e dall’odio, la verità della propria fragilità accolta ed offerta e la libertà del sentirsi riconciliati e capaci di gettare in Dio ogni preoccupazione, perché Egli ha cura di noi (cf. 1Pt 5,7). La verità è Gesù, è Lui la verità che Pilato non comprese, è Lui la libertà che Giuda non accoglie. Lo Spirito di verità è lo Spirito di Gesù, la sua presenza ed azione, la sua grazia ed operosità, la sua guarigione e capacità di essere come Lui, di afferrare la croce e di offrire sull’altare del Golgota la propria vita insieme con Cristo per la salvezza del mondo. Lo Spirito di Gesù è la modalità della sua presenza nel cuore della Chiesa dopo la sua resurrezione. Avere lo Spirito del Risorto significa avere Lui in sé ed i pesi si portano perché Egli li porta con noi ed in noi, la forza per sopportare ogni cosa è sua, sua la potenza, sua la determinazione, sua la gioia di essere Cirenei nella vita dei fratelli.

È necessario riscoprire la grazia di questa diversa presenza del Risorto in mezzo a noi, non fisica, come durante la sua vita pubblica, neppure gloriosa, come nella cinquantina del tempo pasquale, quando il Risorto appariva i suoi e rafforzava il cammino della loro fede. Il tempo della Chiesa è il momento nel quale Cristo è presente sì, ma con il suo Spirito, ovvero la sua grazia agisce ora in noi come un giorno in Lui e ci fa essere nel mondo i continuatori della missione che Lui ha ricevuto dal Padre, “Come il Padre ha mandato me, così anch’io mando voi” (Gv 20,21). Come il Gesù terreno ha guidato gli apostoli e le folle alla comprensione del mistero di Dio ed ha mostrato nei suoi gesti la grazia del suo amore che tutto trasforma ed orienta al Padre, ora lo Spirito guida i credenti alla verità dell’amore che Gesù ha vissuto e opera in essi ciò che il Redentore ha operato. Si tratta di una presenza diversa del Risorto che perfezione e completa la sua missione nel mondo.

Lo Spirito è il nostro Maestro interiore, Egli guida e conforta, spinge e consola, apre strade nuove e infonde nel cuore la forza di rischiare. Sì, c’è bisogno di rischiare di più nelle nostre relazioni familiari e sociali. Il rischio è parte integrante della nostra vocazione profetica ed è lo Spirito che ci unge profeti di un mondo nuovo, facendoci diventare intrepidi assertori della verità del Vangelo tra gli uomini, testimone credibili, pur nella fragile nostra condizione umana, della verità della misericordia. Lo Spirito ci fa rischiare, ci spinge a mettere in discussione le nostre acquisizioni per accogliere la novità di Dio ed il vero bene dei fratelli. Un amore che non sposa il rischio, è un amore che già in partenza è perdente, un amore che non gioca il tutto per tutto non è animato in pienezza dalla grazia del Vita risorta del Signore che sbaraglia ogni struttura di morte e fa rifiorire la gioia esigente del Vangelo.

Lo Spirito fa parlare Cristo in noi, viviamo in Lui e Lui in noi, in quella reciprocità che rende la nostra vita la sua abitazione e dimora. Il Paraclito parla in noi e tra noi. Le nostre famiglie sono i luoghi dove Cristo è presente nella voce suadente e forte del suo Santo Spirito e dove ci vengono annunciate e spiegate le cose che accadranno. Dobbiamo sempre più vivere le nostre relazioni in quella familiarità e sincerità che ci permette di percepire la presenza del Signore che continua a parlarci e a spingere innanzi al nostro vita, fidandoci di Lui, sempre. Il Signore risorto parla alla sposa per bocca dello sposo e al marito per bocca della moglie, ai genitori per bocca dei figli e viceversa, in quella reciprocità che è segno e garanzia della potenza di Dio in noi. Perché non riconoscerla? Perché non leggere nelle piccole cose della nostra vita la sua azione e la sua grazia? Perché non lasciare che attraverso le parole dell’altro il Signore mi chieda di fare un passaggio ulteriore nell’accogliere la sua parola e nel vivere la sua Parola?

Dal Figlio, lo Spirito che ci introduce nel mistero del Padre

Se nel Vangelo non troviamo un trattato di teologia trinitaria come vorremmo, questo non significa che non sia possibile, attraverso la dinamica narrativa usata dagli Evangelisti non intravedere il mistero dell’unità di Dio e la comunione delle tre divine Persone. La formulazione dei dogmi, ovvero delle verità di fede, è successiva alla stesura dei testi nel Nuovo Testamento, ma la base da cui si parte è sempre la Scrittura. Non tutto è contenuto nella Parola scritta, ma in essa troviamo le radici di quelle verità a cui lo Spirito ha fatto giungere nel tempo progressivamente la Chiesa perché è Gesù stesso che lo ha promesso, assicurando un’azione continua e permanente del Paraclito alla sua comunità per continuare la sua missione nel mondo. In tal modo, leggendo la Scrittura, non chiederemo ad essa se non ciò che ci può offrire, perché il rivelarsi di Dio, la potenza della sua grazia, la grandezza del suo amore non può esaurirsi nella sola Scrittura, che resta sempre, con l’Eucaristia, il vero nutrimento per la vita cristiana.

Gradualmente san Giovanni introduce il mistero del Padre. Gesù è presente nella comunità attraverso il suo Spirito e le cose che il Paraclito rivela e alla cui conoscenza apre sono del Padre. Lo Spirito di verità “prenderà da me e ve lo annuncerà”(Gv 16,14) assicura Gesù. Ma Egli sa e dice chiaramente che ogni cosa sua è del Padre. Vi è una straordinaria comunione tra Padre e Figlio per questo lo Spirito, donando ai discepoli ciò che appartiene al Cristo, apre ai credenti le cose del Padre perché “io e il Padre siamo una cosa sola”(Gv 10,30). Dio è un mistero di comunione nell’amore ed è necessario che gli sposi scoprano l’unione sacramentale e costruiscano la propria famiglia ad immagine della comunione della Trinità. Padre, Figlio e Spirito sono tre diverse Persone, ma in una sola sostanza divina, sono un solo Dio, in tre Persone. Diversità ed unità creano in Dio l’armonia dell’amore e della comunione, dello scambio reciproco e della non appropriazione, la salvezza per gli uomini e la gioia sempre fine per la famiglia umana nel suo Regno.

La Chiesa ha bisogno di sposi che vivano la bellezza della diversità personale nella complementarietà della relazione coniugale. Solo così la Trinità da mistero confessato nella fede diverrà vita divina in noi, abilitandoci a relazione luminose nell’amore, sincere nella gratuità del dono, fruttuose per l’incisività evangelica nella società degli uomini.




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