VI Domenica di Pasqua – Anno C
Cerchi la pace? Guarda il cuore dell’altro dove abita Cristo!
di fra Vincenzo Ippolito
È questo il cuore del mistero del Dio fatto uomo: condividere il dramma dell’altro, partecipare alla pena del suo dubbio, ascoltare il suo grido di aiuto, vedere l’afflizione che il suo volto non sempre riesce a celare. Questo fa il Maestro nel cenacolo, dovrebbe Egli essere consolato ed invece consola, Egli compreso ed invece comprende.
Siamo all’ultima domenica prima della solennità dell’Ascensione e la liturgia continua a donarci le ultime parole di Gesù ai discepoli, a ridosso della sua Pasqua. Seguendo la penna dell’evangelista Giovanni, infatti, apprendiamo come il cenacolo sia il luogo della condivisione affettuosa e del dialogo amicale, nel quale è svelato agli intimi la profondità dell’amore di Cristo. Entriamo anche noi nella scena che l’Evangelista ci offre e chiediamo allo Spirito di rendere le nostre famiglie luoghi dell’incontro e della condizione, della tenerezza e dello scambio sincero, come la sala al piano superiore nella Città santa di Gerusalemme.
Nel Cuore del mistero del Dio fatto carne
Appena sette sono i versetti che la liturgia oggi ci dona per nutrire la nostra fame di Dio, sette pietre miliari che ci conducono a rendere la nostra vita abitazione e dimora tutta consacrata alla sua gloria. Mentre la scorsa domenica abbiamo attinto dal capitolo XIII oggi, invece, leggiamo una pericope del successivo capitolo, il XIV, nel quale il Signore continua la sua progressiva rivelazione e prepara i discepoli a comprendere che la ragione della sua consegna nelle mani dei nemici è l’amore smisurato che Egli porta agli uomini. Il Maestro, dopo aver donato il comandamento nuovo (cf. Domenica scorsa, Gv 13,31-35), predice il rinnegamento di Pietro (cf. Gv 13,36-38), parla del Padre nel dialogo con Tommaso e Filippo (cf. Gv 14,1-14) e promette il dono del Consolatore (Gv 14,15-31). La nostra pericope, pur se breve, rappresenta il cuore dell’insegnamento di Gesù sulla venuta dello Spirito. Esso strapperà i discepoli dalla solitudine e li condurrà a sperimentare in maniera permanente la presenza di Dio in loro.
All’interno della dinamica del brano, proprio perché si tratta di discorsi (cf. Gv 13-16), le ripetute domande dei discepoli servono all’Evangelista per creare non solo un “botta e risposta” con il Maestro, ma principalmente a permettere un graduale sviluppo dell’insegnamento di Gesù. Difatti, come in precedenza la spiegazione dell’unità con il Padre era stata richiesta dall’intervento di Tommaso e di Filippo (cf. Gv 14,1-14), ora è Giuda – Giovanni ci tiene a specificare che non si tratta dell’Iscariota, tra l’altro uscito in precedenza dal cenacolo (cf. Gv 13, 20) – è lui a dire: “Signore, come è successo che devi manifestarti a noi e non al mondo?” (Gv 14,22). Ancora una volta i discepoli non comprendono la parola di Gesù, troppo legati alla mentalità comune che vedeva il Messia come il potente restauratore dell’ordine e della supremazia sui dominatori stranieri, sono incapaci di lasciarsi permeare dall’insegnamento del Maestro, convertendo le proprie categorie mentali, segno questo che non è semplice rinnegare se stessi per accogliere il primato di Dio nella propria vita. Gesù, tornando su questo tema nel dialogo con Pilato, dirà in seguito, “Il mio regno non è di questo mondo” (Gv 18,36), quasi a voler scongiurare nei discepoli la continua e perniciosa tentazione di credere maggiormente nella dimensione orizzontale della propria fede.
Le parole che leggiamo oggi nella liturgia sono la risposta franca e dolcissima di Gesù alla pretesa di Giuda e rivelano l’identità, la bellezza e la profondità della comunione che il discepolo può sperimentare con Dio nella forza del suo Spirito. Il Maestro non reagisce con asprezza a quanto Giuda gli chiede. È vero, si tratta di una pretesa, non ha ben centrato il senso della sua rivelazione e della parola indirizzata nei tre anni alle folle ed ora, nell’intimità del cenacolo, ai suoi, ma questo non fa nascere in Gesù turbamento o risentimento alcuno. La parola dell’altro non lo distolgono dal desiderio di amare fino alla fine (cf. Gv 13,1) e di condurre per mano i suoi ascoltatori – quelli di ieri e noi, discepoli di oggi – alle insondabili ricchezze del mistero trinitario. È proprio questo che Gesù fa, approfitta di una provocazione, di una domanda in sé sbagliata per condurre il discorso su un livello di una maggiore profondità. A che serve, infatti, saltare, punti dalla tarantola della provocazione dell’altro? Che senso ha turbarsi se lo sposo, il figlio, l’amico manifesta senza veli la sua incapacità a capire quello che gli stiamo dicendo che poi, alla fine dei conti, è la proposta di un bene più grande per lui?
Dobbiamo imparare da Gesù a trarre in bene ogni occasione – Lui riuscirà a fare questo anche sulla croce! – ad approfittare di ogni situazione, ad amare gli erranti, mettendo alla berlina non loro, ma il peccato che li ha sedotti, deviandoli dalla strada del bene. È quello che continuamente fa Gesù nella sera del tradimento, prima con Tommaso (cf. Gv 14,5), poi con Filippo (cf. Gv 14,8) ed ora con Giuda (cf. Gv 14,22). Se riuscissimo anche noi non solo a non rispondere a ciò che percepiamo come una provocazione – lo percepiamo noi, ma è realmente tale l’intenzione dell’altro? – e a superarci, giungendo ad un livello superiore di maturità e di amore, non guardando al torto subito, ammesso che sia torto una domanda ricevuta – quanto spesso bolliamo in maniera acritica ciò che ci viene detto senza cattiva intenzione? – ma rispondendo all’altro non secondo la nostra percezione, ma secondo il bisogno espresso dalla sua parola! Ciò che l’altro dice esprime una necessità, mostra la sua identità ed io sono chiamato ad andargli incontro sempre. Sono, infatti, chiamato e correggerlo nelle cadute (ammonire i peccatori) e ad illuminare le notti della mente e del cuore suo (insegnare agli ignoranti), a non abbandonarlo nell’indeterminazione (consigliare i dubbiosi), a curare le sue piaghe (consolare gli afflitti), anche le più gravi (perdonare le offese), a portare il suo carico quando egli si percepisce come un peso per me e per gli altri, oltre che per se stesso, pur senza volerlo (sopportare pazientemente le persone moleste), ricordandolo al Signore (pregare Dio). Ecco come vivere la misericordia nelle relazioni familiari. La parola dell’altro è una lampadina di allarme sulle difficoltà che vive e dalle quali, probabilmente, non riesce ad uscire. Invece, di polarizzare l’attenzione su di me, spesso bersaglio delle sue accuse, che sono solo delle provocazioni perché io mi accorga del suo immenso dolore, devo guardare al suo disagio e vivere la dimenticanza di me stesso per far posto all’altro/a. Non ha senso difendere se stessi, quando la parola dello sposo e del figlio, dell’amico e del fratello manifesta una difficoltà e, indirettamente, risulta essere una richiesta di aiuto.
Gesù compie questo salto, approfitta della parola di Giuda in bene, non la utilizza per sentirsi fallito dopo tre anni di predicazione, neppure rimprovera il suo apostolo perché non ha profittato dalla familiarità che il Maestro gli ha concesso. Gesù guarda la difficoltà che la sua parola rivela e riconduce l’errante, consiglia il dubbioso, consola l’afflizione del discepolo, ancora acerbo sulla strada della croce. È questo il cuore del mistero del Dio fatto uomo, condividere il dramma dell’altro, partecipare alla pena del suo dubbio, ascoltare il suo grido di aiuto, vedere l’afflizione che il suo volto non sempre riesce a celare. Questo fa il Maestro nel cenacolo, dovrebbe Egli essere consolato ed invece consola, Egli compreso ed invece comprende.
“Signore, quando ho fame, dammi qualcuno che ha bisogno di cibo; quando ho sete, mandami qualcuno che ha bisogno di una bevanda; quando ho freddo, mandami qualcuno da scaldare; quando ho un dispiacere, offrimi qualcuno da consolare; quando la mia croce diventa pesante, fammi condividere la croce di un altro; quando sono povero, guidami da qualcuno nel bisogno; quando non ho tempo, dammi qualcuno che io possa aiutare per qualche momento; quando sono umiliato, fa’ che io abbia qualcuno da lodare; quando sono scoraggiato, mandami qualcuno da incoraggiare; quando ho bisogno della comprensione degli altri, dammi qualcuno che ha bisogno della mia; quando ho bisogno che ci si occupi di me, mandami qualcuno di cui occuparmi; quando penso solo a me stesso, attira la mia attenzione su un’altra persona” (beata Teresa di Calcutta).
Questo fa l’amore vero che “tutto crede, tutto spera, tutto sopporta” (1Cor 13,7).
Abitazione e dimora della Trinità
Dalla spina nasce la rosa come da una situazione spiacevole, vissuta con coraggio ed amore, può sorgere la bellezza di un’amicizia non cercato, la positività di un dialogo non atteso, la gioia di un incontro rinnovato, creduta impossibile. È quanto capita nel cenacolo, la domanda di Giuda spinge Gesù a spostare l’asse del dialogo dalla “manifestazione al mondo” che il discepolo erroneamente richiede e ricerca, alla propria vita, chiamata a manifestare nel mondo la ricchezza del Signore. Ascoltando il Maestro, ci si rende conto che la sua parola è una promessa delle più significative e belle, che ha il sapore di un testamento in quell’ultima sera. Gesù assicura che d’ora in avanti chi lo ama potrà essere certo della sua presenza silenziosa, ma reale, nascosta ma incisiva ed intima nel cuore, Presenza la sua che non lo separa dal Padre e dallo Spirito, Presenza che rende la vita dell’uomo abitazione dell’intera santa Trinità.
“Se qualcuno mia ama” (Gv 14,23) dice Gesù. La sua parola è scandita da una straordinaria libertà. L’uomo, ogni uomo, è libero di amarlo, di accoglierlo come Signore, di aprire la porta del cuore perché Egli vi regni, per mezzo della sua grazia, come sovrano. Quel “Se” sta ad indicare che Cristo non si impone, né pretende l’amore, ci ama ed il suo amore richiede una risposta. Dio è una necessità nella nostra vita, in quanto creature noi veniamo da Lui ed in Lui esistiamo e ci muoviamo. Ma Cristo vuole che, se di necessità si debba parlare, questa sia d’amore, la necessità dell’amore, il bisogno dell’amato. “Se qualcuno mia ama” cos’altro richiama se non l’appello rivolto, con determinazione ai discepoli, lungo la strada del Golgota: “Se qualcuno vuol venire dietro di me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua” (Mc 8,35)? Amare è seguire l’amato, seguirlo nell’amore e nel dono, anche quando non si comprende dove la sua mano ci condurrà, dove il suo passo ci porterà. Gesù vuole essere solamente amato, non temuto e neppure vuole che i suoi comandamenti, come gli ordini di un militare per i suoi soldati, vengano unicamente eseguiti. Gesù vuole essere amato. È l’amore il motore unico della relazione con Lui e dei nostri rapporti innestati in Lui. Al di fuori di questa dinamica di amicizia e di affetto, di compagnia e di scambio sincero il Signore non ha di che farsene dell’onore e dell’obbedienza nostra, del desiderio di parlare di Lui e di pregarlo. Senza amore, tutto è vano, lo ricorda san Paolo nell’inno alla carità (cf. 1Cor 13,1-3). E Gesù chiede a me l’amore, da qualunque cuore provenga desidera che sia amore vero, sincero, incondizionato, cristallino, continuo quel sentimento che spinge l’uomo a ricercare Lui per ricevere la vita in abbondanza. Se l’Antico Testamento comandava l’amore – “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze” (Dt 6,5) – ora il Maestro preferisce concederlo e suscitarlo. L’amore per Lui nasce dalla scoperta dell’amore che Egli nutre per me. Incontro Gesù, quando mi scopro oggetto del suo amore, passivo nel ricevere il suo dono gratuito e libero. Egli non solo mi ricerca da sempre, ma da sempre mi sta amando. Nel suo cuore c’è una presenzialità della mia vita, un fluire di misericordia infinita per me e così, prima ancora di chiedermi se io amo Gesù, è bene che mi scopra amato in maniera unica da Lui. Cristo è quel Qualcuno che mi ama e che non viene mai meno. Per me Egli ha “rinnegato” la sua gloria di Dio (cf. Fil 2,6) e si è fatto uomo; per me ha assunto la debolezza, la povertà e la morte; per me, per amor mio, ha voluto salire sulla croce. Perché è allora così difficile sapermi amato da Dio più di quanto io possa desiderare e prima di quando io possa pensare?
È l’amore che genera l’osservanza della parola di Gesù – “Se qualcuno mia ama, osserverà la mia parola” (Gv 14,23) – perché nell’amore la richiesta che Egli mi fa non è un peso gravoso (cf. 1Gv 5,3), ma io so che quanto Egli mi chiede è per il mio bene e la sua richiesta non è mai determinata da egoismo o da desideri contrari al vero amore che Egli ha per me. L’amore che nutro per Lui e che è un amore di risposta al suo amore per me, mi spinge a fidarmi di Lui e ad accogliere di buon grado la sua parola che è per me sorgente di vita e nutrimento per vivere la nostra relazione amorosa. Anche qui è l’amore che tutto muove – “l’amor che move il sole e l’altre stelle” dice il sommo Poeta (Dante, Paradiso, XXXIII,145) – come anche nella vita degli sposi è l’amore che motiva e nutre la fedeltà, il reciproco aiuto, la muta solidarietà, il disponibile ascolto, la comprensione sincera, l’accoglienza tenere; è sempre l’amore che genera la dolcezza di un bacio, il calore di un abbraccio, la tenerezza di una carezza, lo sguardo di comprensione, l’offerta di un sostegno, la complicità di un sorriso. E se questo si vive tra noi, perché non deve essere valido con Gesù? Egli è, infatti, una Persona divina e la sua relazione vitale con noi si nutre della concretezza che è propria dei nostri rapporti.
L’amore ricevuto e scoperto genera la risposta amorosa da parte dell’uomo e l’osservanza dei comandamenti che Gesù affida per il nostro bene e la nostra crescita nell’amore e nel dono. Questo genera la compiacenza del Padre. L’amore vero in ogni relazione, sia essa di coppia o di semplice amicizia, non può conoscere la chiusura perché ogni rapporto a due muore se l’amore, di per sé stesso diffusivo, non si espande. È quanto capita con Gesù. La nostra relazione di amore e di obbedienza con Lui spinge il Padre all’amore e al dono, ovvero nella circolarità d’amore con Gesù mi scopro amato dal Padre, in Gesù, volto misericordioso del Padre, io riconosco nel Padre la sorgente di questo amore e come le pecore sono nelle mani di Gesù e del Padre suo (cf. Gv 10,28-29), così sento nelle profondità del mio essere l’abisso dell’amore eterno del Padre e del Figlio, le grandi acque dello Spirito-amore, per me solo. È questa la scoperta che ogni uomo fa rispondendo alla chiamata di Cristo a seguirlo sulla strada dell’amore. Se l’amore del Padre fa nascere in Gesù l’esigenza e la volontà di donarsi, così anche nell’amato, l’amore scoperto e vissuto come ricchezza rallegra il cuore lo spinge al dono di se nell’osservare la parola del Maestro. La compiacenza del Padre si riversa allora nel cuore del discepolo che, più si inoltra nella conformazione del Figlio unigenito che lo Spirito fa nascere nel suo cuore e più il Padre lo riconosce perfetta immagine del suo Figlio e riversa in Lui la potenza di quell’amore che è lo Spirito-amore, purezza di dono, luce perfetta di conoscenza, sorriso che nasce e vince ogni tribolazione, canto di lode che sostiene ogni quotidiano martirio. È così che il discepolo diviene sorgente che zampilla tra i fratelli dell’acqua viva dello Spirito-amore, come Gesù.
Sono amato da Gesù e dal Padre. Come, resta un mistero grande anche per me! Mi amano e non ne so il perché. Riversano in me la potenza della divina misericordia ed io mi incanto a vedermi oceano di grazia immeritata e più mi affaccio nell’abisso del mio niente trasformato in valle di una inaspettata primavera di vita nuova e più non cessa il mio cuore di stupirsi.
Desidero la sua visita, bramo la sua parola, cerco il suo volto, languisco la dolcezza del suo sguardo, mi struggo nel ricordare il suo sorriso e più lo cerco e più mi rendo conto che Lui è in me per il solo fatto che lo desideri, anzi che esista perché non potrei esistere se Egli non fosse in me. In me poi scopro, o Signore, che è l’amore tuo a spingermi a riamarti. Non posso dirti di amarti, mio Gesù, perché io non ti amo, non sono io la sorgente dell’amore, io ti riamo, ovvero rispondo all’amore con la capacità che tu stesso metti in me amandomi e spingendomi a ricambiare l’amore ricevuto dirigendo a te l’amore in me riversato dal tuo Spirito. Si, io ti riamo, mio Signore e questo non posso dire che sia mio merito, è, invece, un segno della tua bontà in me. Se ti riamo è perché tu mi hai amato per primo, se ti riamo è perché ho sperimentato che fuori di te nulla bramo sulla terra. A pensarci bene neppure di questo posso vantare, perché come ami me, ami ogni mio fratello che in te trova forza di vita e la sorgente della vera gioia.
È l’amore che purifica il cuore dell’uomo e lo rende dimora di Dio – “… noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23) – lo rende tabernacolo suo, luogo prediletto della sua Presenza, non lo fa degno, perché chi può dire di essere degno di accogliere in sé il mistero di Dio? L’amore di Dio sposa sempre l’umiltà che, a causa della durezza del cuore umano, diviene spesso per Lui umiliazione. Io non posso ricevere il mio Dio nelle pareti della mia vita, perché è vano vestire i panni del fariseo e confessandosi giusto, perché così ci si macchia di una colpa maggiore. Io divengo dimora di Dio per pura grazia d’amore e di predilezione del Signore, per un atto di compiacimento del mio Dio. È quanto si scopro nella relazione tra gli sposi. Uno è per l’altro presenza di Dio, tabernacolo del suo amore, tenda della sua misericordia. Nello sposo, la sposa incontra Dio, misteriosamente presente, umiliato, nascosto nelle sue parole e nei sentimenti del suo cuore. La sposa manifesta Dio ed è chiamata a farlo continuamente perché, nel sacramento celebrato, il suo sposo ha riconosciuto in lei un suo altro sacramento, un segno tangibile e valido per lui solo della presenza di Dio. È questo che siamo chiamati a vivere nelle relazioni delle nostre famiglie, il primato di Dio. Come poi Egli faccia ad abitare in noi e tra noi, rimane un mistero. Inutile presumere di volerlo comprendere, è bene, invece, meravigliarsi di questo, vedendo nell’altro/a l’immagine impressa dell’amore del proprio Dio. Dire che la vita dell’altro è casa di Dio non vuol dire che il mio sposo/la mia sposa sia perfetto/a tanto da meritare la visita e la dimora permanente del Signore. La presenza di Dio, come anche il suo amore, non si merita. È Dio che, nella sua bontà, sceglie la nostra vita e, vedendo la nostra disponibilità e la purezza dei nostri desideri, discende in noi e ci rende dimora della sua gloria, come Maria, la Madre di Gesù, tempio del suo Spirito. Il nostro impegno sta quindi nel rivelare la divina Presenza che misteriosamente ci abita, manifestare la potenza sua che vive la nostra debolezza, contenere il suo mistero di amore gratuito lasciando che il nostro essere non alteri ciò che di Dio gli altri riescono ad attingere, attraverso le parole ed i gesti nostri.
Sono dimora di Dio, se lascio all’amore di Gesù di riversare dal suo cuore i suoi sentimenti in me. Il Padre mi visita e con il Figlio suo effonde in me la grazia del suo amore misericordioso se lascio che Egli faccia spazio in me e scombri il mio cuore da tutto ciò che impedisce il suo regnare in me. Ma, ed è questo il dato più significativo e talvolta scandaloso, la mia vita è come la stalla di Betlemme, le nostre relazioni così deboli e soggette alla precarietà, la nostra storia è spesso caotica e in subbuglio, abitata da pensieri contrastanti e da moti interiori di ribellione. Eppure, se lascio entrare Dio, la mia vita diviene più preziosa di ogni luogo perché in esso pone la sua dimora il Signore della gloria. Gesù parla del desiderio di Dio di porre nel cuore dell’uomo la sua dimora. Chiede solo che l’uomo accolga il suo amore, che non si chiuda dinanzi al suo dono. È questa l’unica condizione perché Dio ponga in noi la sua abitazione e dimora. Non si chiede un pavimento ben lustro ed una seggiola dove Egli possa prendere posto nel cuore, non pretende che tutto sia in ordine e neppure che facciamo le grandi pulizie per accoglierlo. Dio vuole solo entrare in noi e abitare nella precarietà della nostra vita, dimorare nel limite del nostro carattere, stabilirsi nella volubilità del nostro umore, regnare nella debolezza che ci scandalizza, penetrare nella volontà ribelle che spesso ci è di scandalo, nella tenebra del nostro pensiero che non vuol accogliere la dinamica paradossale della croce del Signore consegnato alla morte per noi.
Donami, o Signore, di vederti all’opera o meglio, di vederti presente. Concedimi di vedere che nel mio peccato sei la grazia, nella debolezza la forza, nella tempesta la bonaccia, nel dubbio la verità, nella mia avaria la mano che mi tira fuori dalla paura del rimanere invischiato nel mistero del male che tutto divora. Donami occhi nuovi per vederti nella vita di chi tu mi hai posto vicino come mia costola e mio osso. In lei tu vivi, ti confondi nelle sue parole e vuoi che io giochi a nascondino nello scovarti nei suoi silenzi, incontrarti nei suoi sguardi, che ti abbracci stringendola a me, che ti baci accogliendo nel mio corpo l’alito del suo respiro che è un segno della tua vita in lei. Ma soprattutto rendici pronti nell’incontrarti dove non ti aspetteremmo mai. La mia sposa accolga te in me, lei sola ti incontri in me nelle durezze del mio cuore, lei sola abbia la chiave del tabernacolo della mia interiorità dove tu ti nascondi, lei sola sia custode del mistero che mi abita, della dolcezza tua che in me dimora ed io sia il ricercatore del tuo volto in lei, il compagno del suo stupore, la voce forte che sostiene il suo giubilo.
Solo lo sposo conosce Dio nella sposa, solo la sposa accoglie in pienezza Dio nel suo sposo.
Le nostre famiglie case di Dio e tende di pace
Gesù vuole che i suoi discepoli vivano in Lui e che la forza del suo amore li sostenga interiormente nelle non semplici situazioni della vita. Il segreto per vincere ogni difficoltà sta proprio nel considerare la sua presenza e nel vivere nella comunione con Lui tutto ciò che ci capita. Le nostre famiglie sono i luoghi che Dio sceglie per rivelare, nell’unità dei nostri cuori, la potenza della sua misericordia e la grazia della sua onnipotenza. È Lui che ci sceglie e vuole che le pareti delle nostre case custodiscano la pace che è il segno della sua presenza e del suo continuo visitarci. Le nostre famiglie sono tende di pace se lasciamo che il Signore ci partecipi la dinamica della sua croce. Gesù conceda la sua pace attraverso l’offerta della sua vita. Solo Cristo può condurci per mano a fare della nostra vita una dimora permanente a Lui e delle nostre famiglie delle tende dove ogni viandante possa sperimentare il balsamo della pace e la grazia della sua dolce presenza.
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Cari lettori di Punto Famiglia,
stiamo vivendo un tempo di prova e di preoccupazione riguardo il presente e il futuro. Questo virus è entrato prepotentemente nella nostra quotidianità e ci ha obbligati a rivedere i tempi del lavoro, delle amicizie, delle Celebrazioni. Insomma, ha rivoluzionato tutta la nostra vita e non sappiamo fin dove ci porterà e per quanto tempo. Ci fidiamo delle indicazioni che provengono dal Governo e dagli organi sanitari preposti ma nello stesso tempo manifestiamo con la nostra fede che “il Signore ci guiderà sempre” (cfr Is 58,11).
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