Perdono

Quattordici. È il numero delle porte che devo attraversare per raggiungere la mia cella, qui in carcere

prigione

di Silvia Sanchini

“Della vita con la mia famiglia ho molti ricordi negativi: alcool a fiumi, i segni della cintura che usavano per picchiarmi, gli occhi pieni di terrore di mia mamma. Eppure se penso a loro non provo rancore, perché so che anche i miei genitori erano vittime di una catena di dolore che non si è mai spezzata”.

Oggi Elena è venuta a trovarmi. Elena era la mia educatrice, lavora nella comunità dove sono stato accolto per qualche tempo, prima di finire in questo posto. Parliamo di tutto quando viene a farmi visita, le racconto di me e lei mi racconta cosa accade fuori dal carcere, ma ci confrontiamo anche sulla vita, io ho molto bisogno di condividere i miei pensieri con qualcuno.

Oggi mi ha chiesto cosa penso del perdono. Io le ho risposto: “Il perdono è la misericordia di Dio”, perché è una frase che sento spesso ripetere dal prete che viene a farci visita qui in carcere. Credevo di aver fatto bella figura con una risposta così! Lei ha sorriso, ma non era la risposta che cercava. Voleva che le parlassi di me. Così ho pensato alla mia storia. Elena mi ha chiesto se avevo perdonato i miei genitori. È vero, della vita con la mia famiglia ho molti ricordi negativi: alcool a fiumi, i segni della cintura che usavano per picchiarmi, gli occhi pieni di terrore di mia mamma. Eppure se penso a loro non provo rancore, perché so che anche i miei genitori erano vittime di una catena di dolore che non si è mai spezzata. Mio padre ci picchiava, perché la stessa cosa faceva suo padre con lui.

Per Elena quella catena si può spezzare, ma dice che non è facile. Poi Elena mi ha chiesto se sono arrabbiato con me stesso. E qui non ho dubbi: ancora non sono riuscito a perdonarmi e provo molto rabbia. Queste 14 porte da attraversare, queste 4 mura che mi tolgono il fiato, questi 6 mesi spesi qui dentro. Ho 18 anni e dovrei essere un’esplosione di vita! Invece eccomi qui, rinchiuso in una gabbia come un animale. Penso che perdonare se stessi sia la cosa più difficile da fare e non so se ci riuscirò mai, perché di quello che è accaduto sono l’unico colpevole, l’unico responsabile. Per molto tempo ho avuto la convinzione che sarei stato per sempre impunito e mi sentivo invincibile. Ho raccontato bugie agli altri, e a me stesso. Ma quale furbo…ero il più fesso di tutti, e oggi ho quel che merito.

Elena mi guarda fisso negli occhi e mi dice che molte volte anche lei sente di non essere serena e fa fatica a perdonarsi. Mi dice che non si sente perfettamente riconciliata con se stessa. Io non so bene cosa significhi ma mi chiedo come sia possibile. Elena ha una famiglia perfetta, due bimbe che la adorano, un lavoro che fa con passione. In comunità eravamo tutti affezionati a lei. Mi chiedo cosa debba perdonarsi…

Ma le sue parole in qualche modo mi consolano e mi donano un senso di pace. Perché mi sento meno solo, perché penso che forse questo è il suo modo di farmi sentire meglio. E magari, qui nel carcere, in questi nostri brevi incontri, entrambi stiamo percorrendo insieme una strada. A lei auguro il meglio, di me non lo so cosa sarà.

Ma oggi, attraverso le sbarre, ho visto uno spiraglio di luce. E ho pensato che in fondo è così: la luce può arrivare ovunque, anche nel buio più profondo, nei luoghi più impensabili. E da quella luce, con un po’più di speranza, io voglio ripartire.




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