III Domenica di Pasqua – Anno C
Mi fido di te, tu sei per me sorgente di speranza
di fra Vincenzo Ippolito
La dinamica dell’amicizia tra Pietro e Giovanni è un modello per la vita coniugale e familiare. Non siamo abituati e neppure abitualmente portati a fidarci della voce dell’altro, della sua parola, del suo consiglio. Fidarsi dell’altro è come obbedire a Dio, l’altro mi conduce a Lui anche quando non lo capisco, anzi proprio quando non lo comprendo.
Dal Vangelo secondo Giovanni (21,1-19)
In quel tempo, Gesù si manifestò di nuovo ai discepoli sul mare di Tiberìade. E si manifestò così: si trovavano insieme Simon Pietro, Tommaso detto Dìdimo, Natanaèle di Cana di Galilea, i figli di Zebedèo e altri due discepoli. Disse loro Simon Pietro: «Io vado a pescare». Gli dissero: «Veniamo anche noi con te». Allora uscirono e salirono sulla barca; ma quella notte non presero nulla.
Quando già era l’alba, Gesù stette sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù. Gesù disse loro: «Figlioli, non avete nulla da mangiare?». Gli risposero: «No». Allora egli disse loro: «Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete». La gettarono e non riuscivano più a tirarla su per la grande quantità di pesci. Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: «È il Signore!». Simon Pietro, appena udì che era il Signore, si strinse la veste attorno ai fianchi, perché era svestito, e si gettò in mare. Gli altri discepoli invece vennero con la barca, trascinando la rete piena di pesci: non erano infatti lontani da terra se non un centinaio di metri.
Appena scesi a terra, videro un fuoco di brace con del pesce sopra, e del pane. Disse loro Gesù: «Portate un po’ del pesce che avete preso ora». Allora Simon Pietro salì nella barca e trasse a terra la rete piena di centocinquantatré grossi pesci. E benché fossero tanti, la rete non si squarciò. Gesù disse loro: «Venite a mangiare». E nessuno dei discepoli osava domandargli: «Chi sei?», perché sapevano bene che era il Signore. Gesù si avvicinò, prese il pane e lo diede loro, e così pure il pesce. Era la terza volta che Gesù si manifestava ai discepoli, dopo essere risorto dai morti.
Quand’ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pasci i miei agnelli». Gli disse di nuovo, per la seconda volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pascola le mie pecore». Gli disse per la terza volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?». Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli domandasse: «Mi vuoi bene?», e gli disse: «Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene». Gli rispose Gesù: «Pasci le mie pecore. In verità, in verità io ti dico: quando eri più giovane ti vestivi da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi». Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E, detto questo, aggiunse: «Seguimi».
La liturgia del Tempo di Pasqua continua a donarci i racconti delle apparizioni del Risorto, non più a Gerusalemme, come nelle scorse domeniche, ma in Galilea, lì dove la predicazione di Gesù era cominciata. Si tratta, infatti, di un cammino a ritroso – potremmo parlare di anti-sequela – un ritorno sui luoghi delle origini della predicazione e della chiamata, dove il Risorto precede (cf. Mt 28,7) ed attende i suoi per affidare loro una nuova missione. Quale? È ciò che l’evangelista Giovanni ci farà scoprire in questo giorno del Signore, attraverso la Parola che, con il Pane ed il Vino, sostiene i nostri passi verso la Pentecoste.
Sul lago, al lavoro di un tempo
Dopo Maria Maddalena, Pietro e il Discepolo amato (cf. Domenica di Pasqua, Gv 20,1-9), dopo la comunità riunita e l’apostolo Tommaso (cf. II Domenica di Pasqua, Gv 20,19-29), è la volta di un gruppo di sette discepoli ad incontrare il Risorto. Il brano che la liturgia oggi ci offre (cf. Gv 21,1-19), visto come si era chiuso il precedente capitolo, sembra un’aggiunta posteriore, una narrazione di un’apparizione in Galilea, di cui si ha tracce solo nel Vangelo secondo Matteo.
L’autore ambienta la scena sul mare di Tiberiade, dove un tempo i discepoli, prima di seguire Gesù, vivevano. Poche sono le indicazioni che l’Evangelista ci offre, ma sufficienti per entrare nella psicologia dei personaggi, nello spaccato di una vita dove la luce del Risorto non è riuscita a donare quel chiarore che rende bella e pacificata l’esistenza. I sette discepoli sembra vivano un momento di dispersione e di non senso. Sono ritornati lì dove un tempo era radicata la loro vita, dove lavoravano, avevano rapporti familiari e di amicizie, ma ormai non sono più quelli di tre anni prima e neppure riescono ad esserlo. Il tempo vissuto alla sequela del Nazareno li ha così profondamente segnati che non si può considerare una parentesi la vita condivisa con Lui. Si sentono smarriti, come pecore senza pastore, come figli senza padre, come discepoli senza maestro. Non lo avvertono, non sentono la sua presenza, incapaci ad abituarsi a riconoscerlo vivo e vero, risorto e glorioso nella forza dello Spirito che Egli ha effuso sopra di loro. Smarriti, sballottati dal vento della paura e della solitudine, non sanno che cosa fare.
Ciò che rende ancora più tragica la scena è la voce di Simon Pietro. La sua dovrebbe essere la parola che conferma i fratelli, che infonde coraggio, traghettandoli verso la speranza certa che non conosce tramonto. Invece, anche lui è come gli altri e, forse, più nel buio dei fratelli che gli sono accanto. Come capita alle dieci vergini (cf. Mt 25), il sonno prende tutti, saggi e stolti e così Pietro, invece di dimostrarsi roccia, manifesta tutta la sua debolezza e la volontà subita di ritornare al lavoro di un tempo. “Io vado a pescare” (Gv 21,3) dice ai suoi con la morte nel cuore, incapace di salvare se stesso e gli altri dalla tristezza che il fallimento dell’incredulità ha fatto sorgere in lui. Siamo deboli, tutti, e non basta dirlo a parole per convincersi che è così, sono i fatti della vita che spesso ci sbattono in faccia questa verità ed è allora che l’umiltà ed il riconoscimento delle proprie fragilità divengono virtù eroiche per ogni discepolo. Anche Pietro, come in precedenza Maria Maddalena, invece di annunciare la vita rifiorita, semina la morte e lo sconforto, la desolazione e il desiderio di cancellare tutto con un colpo di spugna. Siamo deboli, non solo possiamo cadere, ma possiamo essere pietre che, invece di costruire, sono di inciampo nella vita dei fratelli. È il mistero di Pietro e di ogni genitore, di ogni padre e madre nella fede e di chiunque esercita un ruolo di autorità nella Chiesa ed in famiglia. Non siamo perfetti, tendiamo al massimo, ma le inevitabili cadute della vita ci rendono piccoli davanti a noi stessi e ai fratelli. Eppure propria nella nostra debolezza il Signore manifesta la sua forza perché le nostre fragilità fanno capire a noi stessi quanta misericordia dobbiamo avere con gli altri, perché anche noi siamo “rivestiti di debolezza”, dall’altro lato dà modo ai fratelli di vedere in noi degli strumenti della grazia divina perché è Lui, il Signore Dio vivo e vero, che opera misteriosamente la salvezza attraverso le nostre fragilità.
Gli altri sei discepoli si lasciano facilmente trasportare dalla frustrazione di Pietro, non battono ciglio, prendono anch’essi la via del mare e ricominciano a rimaneggiare gli attrezzi un tempo lasciati per divenire pescatori di uomini. Anche san Francesco d’Assisi, nell’ammonire i suoi frati, li mette in guardia dal guardare indietro e ritornare al vomito della propria volontà (Am III: FF 151 in cui si riprende Pr 26,11). Guardare indietro con nostalgia è la radice di ogni peccato perché significa fare come Israele che, uscito dall’Egitto, ne desiderava i porri, le cipolle e la carne. Se guardo indietro rimugino sul passato, vi attacco il cuore in un periodo di difficoltà, lascio che il maligno giochi con la mia fantasia nell’immaginare scelte diverse, incontri differenti. Si sogna ad occhi aperti, quando, invece, bisognerebbe essere aiutati a vivere con impegno il presente. È una tentazione continua per i discepoli mettere mano all’aratro e poi volgersi indietro, dire di voler seguire il Maestro e poi chiedere di seppellire i propri cari, desiderare Dio come unico Signore e poi andare a braccetto con Mammona. Quel “Veniamo anche noi con te” (Gv 21,3) cos’altro significa se non “il Maestro ci ha delusi e ritorniamo a fare i pescatori”? Non vuol dire forse, “la nostra vita non può cambiare, il mare ci ha fatti pescatori ed è qui dobbiamo rimanere”? È la morte della speranza. Il Maestro aveva acceso i loro cuori della gioia di una vita diversa, di un mondo nuovo, di una fede vissuta senza le prescrizioni dure di una legge che, nelle mani degli uomini, diveniva un peso gravoso. Ora, soli e scontenti, si guardano le mani e, per non vivere di illusioni, seguono Pietro. Chiamati ad andare con Gesù, il Figlio di Dio fatto uomo, ora vanno con Pietro. “Ehi!, ma quale scambio avete fatto? – potremmo dire noi – “Abbandonate il Signore per seguire il servo, Dio per l’uomo, il Re per il suddito, l’Innocente per il reo?”. Eppure è così.
Quante volte capita anche a noi di operare questi scambi, di non seguire Dio, ma gli uomini, di non fidarci della sua voce, ma di affidarci in maniera acritica a coloro che ci conducono lontano dal nostro vero bene! Quante volte siamo folla senza nome, preferiamo essere pecore che seguono altre pecore, le mode battono legge, il conformismo si impone e non siamo capaci di essere noi stessi! Lo facciamo così per quieto vivere, per stare insieme, perché l’altro ci consideri, per essere parte del gruppo! Ma a che serve tutto questo se poi la gioia non alberga nel nostro cuore? Quando siamo diretti nella direzione opposta a quella decisa dal Signore, quando imbocchiamo strade che non ci conducono al nostro vero bene, la nostra pesca è infeconda ed il fallimento è dietro l’angolo. Quando crediamo che ritornare indietro, a quando non avevamo fatto scelte definitive di vita, rappresenta l’unico modo per ritrovare la gioia, di rifarsi una vita, le nostre reti non raccolgono pesci. Quando ci affanniamo nel seguire le illusioni degli altri perché non abbiamo il coraggio di impegnarci in prima persona nel discernere il bene e nel perseguirlo con determinazione, perdiamo tempo, battiamo l’aria, seminiamo vento, raccogliamo tempesta.
Quando tutto è perduto, solo Gesù può operare la salvezza
Non dev’essere stato semplice per i sette discepoli ricominciare con un fallimento, lavorare sodo tutta la notte, senza prendere nulla. Alla tristezza della sequela terminata si aggiunge quella di una pesca mancata. Tristezza su tristezza, fallimento su fallimento, paura su paura. Ed è lì che il Risorto interviene con la potenza della sua vita riavuta in dono dal Padre, lì dove l’uomo non può più operare nulla, Dio entra con la grazia della sua visita e il balsamo della sua consolazione. Il principio è lo stesso della morte di Gesù e del suo riposare nel sepolcro: il Padre interviene prodigiosamente nella vita del suo Figlio, in quella conclusione ignominiosa e con la potenza del suo amore fa rifiorire la vita. È quanto capita anche sul mare di Tiberiade: il Signore interviene e capovolge la situazione dimostrando non solo che Egli è veramente risorto, ma che il discepolo deve abituarsi alla sua nuova presenza, accogliendone l’apparente assenza. Cristo è con i discepoli mediante il suo Spirito, è il Paraclito che interiormente sostiene ed anima l’annuncio del Vangelo, non si può avere Gesù sempre accanto visibilmente, ma la sua presenza è certa, la sua azione continua, il suo amore infinito per ciascuno dei suoi. L’Evangelista dice che “era già l‘alba” (Gv 21,4), ovvero la luce non permette più di pescare perché è con il concorso delle tenebre che i pesci, inconsapevoli, incappano nelle trame della morte. Le prime luci del giorno dovrebbero permettere però ai discepoli di riconoscere il Signore, il timbro della sua voce, non scambiandolo con un fantasma e neppure per uno sconosciuto. Il Signore per farsi riconoscere mendica: “Figlioli – così li chiama con la tenerezza e la delicatezza di chi ama come un padre e legge nei cuori come una madre – non avete nulla da mangiare?” (Gv 21,5). La risposta è stringata da parte dei discepoli ritornati pescatori, manifestano il fallimento di una notte ed è allora che vengono invitati a gettare nuovamente le reti.
Il Risorto mendica per sfamare i discepoli, vesti i panni del bisognoso perché i suoi non abbiano paura della sua presenza e si rendano conto che senza di Lui non si può far nulla. Solo Gesù trasforma i nostri fallimenti, abitando le nostre delusioni, ascoltando il raccordo del nostro sordo dolore. Il cuore nostro con Lui non ha bisogno di molte parole, basta che Egli ci guardi perché penetri negli angusti spazio del animo per ascoltare gli spasimi del cuore lacerato dalle tante situazioni della vita. Noi facciamo collezione di tracolli di rapporti e di tristezze abissali, procediamo oramai senza neppure accorgerci che le reti della nostra vita non riescono a contenere le persone che amiamo e che ci amano. Spesso viviamo come su una barca, in continua instabilità, non abbiamo punti fermi e spesso le persone che dovrebbero offrirli non hanno neppure consapevolezza dei nostri bisogni. Non è semplice abitare le situazioni negative e superarle, essere riconciliati guardando le proprie reti vuote dopo una vita trascorsa a lavorare, con le mani consumate dall’acqua, indurite dal freddo, ferite che sono poca cosa se confrontate con quelle del cuore. Cristo dona la salvezza entrando nelle situazioni, così come ci ha salvati dal peccato e dalle sue disastrose conseguenze facendosi uomo Egli stesso e condividendo il peso della nostra precarietà. Anche qui viene, sta in mezzo ai suoi e diviene principio di pace come apparendo nel cenacolo il giorno di Pasqua (cf. Gv 20,19-23). La pace che Egli dona è guarigione delle ferite dell’animo, pacificazione delle tempeste dei cuori, è bonaccia nei pensieri che angustiano la mente, abbondanza nella penuria, sorriso di gioia nella valle della disperazione. Se riuscissimo a sentire nei nostri drammi il grido di Gesù – la distanza tra la riva, dove si trova il Signore, e le barche è di circa cento metri (cf. Gv 21,8), è normale che il Risorto alzi la voce per farsi sentire – se riuscissimo ad ascoltare la sua parola forte, a riconoscere la sua voce!
Nei fallimenti della vita, quando tutti scappano, inorriditi dal male che dilaga nel cuore, c’è Gesù; nella disperazione di chi si sente abbandonato ed incapace di sbarcare il lunario per una esistenza dignitosa, c’è Gesù; nel lavoro di chi è sfruttato e malpagato, non rispettato nella sua dignità, c’è Gesù; nella dura quotidianità di quanti si sentono privi di un senso, incapaci di cercarlo, stanchi di rimettersi in cammino perché la luce risorga nel cuore, c’è Gesù; nella disperazione di chi combatte contro il mare dell’altrui cattiveria, c’è Gesù, nello spasimo del cuore che non trova pace, c’è Lui, perché sempre e solo Lui è capace di abitare le piaghe della nostra vita e di farle rifiorire, come il Padre ha lasciato che il suo amore abitasse le ferite sue, curandole con l’olio del suo eterno amore. È la legge della fede in Cristo morto e risorto per noi: tutto inizia quando tutto sembra finire, l’albero rifiorisce dopo l’inverno e il seme germina dopo la morte. L’uomo deve imparare questa legge di natura ed aprirsi docilmente ai raggi del sole che scioglie il ghiaccio di ogni rigido inverno perché in Cristo rifiorisca nuova la vita.
Curare le ferite del cuore è ciò che fa Gesù, ma solo se noi obbediremo alla sua parola e accoglieremo la sua voce. La trasformazione dell’amore è possibile solo se noi, al pari dei discepoli, dimentichi della stanchezza, ci rimettiamo al lavoro. La salvezza e l’abbondanza, la vittoria su noi stessi e sui propri fallimenti è possibile solo se noi ci rimettiamo in gioco, partendo da Gesù, dalla sua parola che fa ricominciare la partita della vita, aggiungendo continui tempi supplementari per assicurarci la vittoria.
Fidarsi dello sguardo dell’altro
Pietro, lo si è notato al sepolcro (cf. Gv 20,6), vede sì, ma è incapace di penetrare la realtà osservata e di comprendere ciò che sta accadendo. Ha seguito l’imperativo dello Sconosciuto che si è fatto loro incontro sulla riva; ha gettato le reti e, pur notando la prodigiosa abbondanza nella pesca, non riesce a vedere e a credere, ad osservare e a riconoscere il Signore. Ha bisogno dello sguardo penetrante del Discepolo amato per entrare con consapevolezza nel mistero dell’amore di Dio, gli è estremamente necessario l’occhio attento dell’altro perché l’apparenza non gli annebbi la vista e l’abbondanza dei grossi pesci non gli impedisce di fissare l’attenzione su ciò che veramente conta. Giovanni ha esperienza nella relazione amorosa con Cristo, una frequentazione del suo cuore che supera di gran lunga Pietro, più abituato ad entrare in disputa con il Maestro, che ad accogliere con silenzio docile la dolcezza della sua Presenza di pace. Ma Pietro – ed è questa la bellezza della sua statura umana – è consapevole della sua debolezza, della fragilità del suo amore, dell’incostanza della sua sequela, della lentezza della sua corsa. Conosce se stesso e riconosce in Giovanni chi lo supera nell’amore per Cristo, colui che, nella corsa, sa attenderlo per cedergli il primo posto. Pietro non è umiliato dal primato dell’amore che il suo condiscepolo vive perché sa che la ricchezza dell’altro, invece di alimentare la propria gelosia e nutrire risentimento ed invidia, è un dono soprattutto per lui prima che per gli altri. Giovanni è il suo sostegno nella corsa, gli è guida nel cammino, è il suo occhio, la sua intelligenza penetra dove i sottili ragionamenti degli uomini – il pensare secondo gli uomini che costò a Simone il duro rimprovero del Nazareno – non giungono perché la luce di Dio potenzia la capacità umana e la spinge oltre i limiti della pura ragione. Pietro si fida di Giovanni e sa che di lui può fidarsi. L’amico gli ha dato prova del suo affetto, nella delicata attesa al sepolcro, del primato offerto nell’entrarvi, come, nell’ultima cena, dell’obbedienza chiedendo al Maestro l’identità del traditore. Affetto, fiducia, rispetto scandiscono l’amicizia tra i due. È Giovanni a riconoscere il Maestro, Pietro a gettarsi in mare, il primo a vedere, il secondo a credere, il Discepolo amato a pensare, l’altro ad operare, il primo a parlare, il secondo ad obbedire. È questo un quadro bellissimo di cosa significa essere amici, ma anche, potremmo aggiungere noi senza per questo forzare il testo, di cosa significa essere sposi: la parola dell’altro è talmente vera e liberante per me che come ho gettato in mare le reti sulla parola del Maestro, così io stesso mi butto a mare sul quanto l’altro mi dice, mi fido di Dio e mi fido dell’altro, il Signore muta il mio fallimento di una intera notte nella prodigiosa e inaspettata pesca di un attimo, l’altro cambia la mia solitudine nella gioia di vedere il mio Maestro e Signore.
È grazie a Giovanni che Pietro rivede il Risorto, non ci sono in lui tentennamenti, non esiste la paura che l’altro gli stia tirando brutti scherzi, nulla di tutto questo. Quella dichiarazione di fede: “È il Signore” (Gv 21,7) è così decisiva, incisiva, convincente, illuminante che “Simon Pietro appena udì che era il Signore, si strinse le vesti attorno ai fianchi, perché era svestito, e si gettò in mare” (Gv 21,7b). Quale sveltezza nell’obbedienza dimostra Simone! Sembra che obbedisca prima a Giovanni di quanto, durante gli ultimi tre anni, abbia fatto con il Figlio di Dio fatto uomo. Nella voce del fratello avverte l’ancora che lo salva dai flutti della disperazione, il timone sicuro che guida la barca del suo cuore verso il porto sospirato, il vento gagliardo che spinge le vele verso il male aperto senza la paura di rimanere in avaria lungo la riva.
La dinamica dell’amicizia tra Pietro e Giovanni è un modello per la vita coniugale e familiare, come per la comunione tra religiosi e presbiteri. Non siamo abituati e neppure abitualmente portati a fidarci della voce dell’altro, della sua parola, del suo consiglio. Crediamo che ci siano sempre dei doppi fini, che nel parlarci l’altro persegua sempre un personale tornaconto. Si innesca in maniera inconscia, quasi innata, il sospetto e così la semplicità e la schiettezza, la fiducia e l’abbandono non creano tra noi relazioni serene, rapporti felici. Fidarsi dell’altro è come obbedire a Dio, l’altro mi conduce a Lui anche quando non lo capisco, anzi proprio quando non lo comprendo. Il suo annuncio della presenza di Dio è salvezza per me, perché rifiutarlo? La sua voce è speranza di gioia, perché allontanarla? La sua parola è un riverbero della luce di Dio, ha senso nascondersi nelle tenebre? L’amore tra gli sposi richiede la mutua e matura obbedienza, ovvero la capacità incondizionata di fidarsi dell’altro/a, senza ma e senza perché. Lo diceva Trilussa: la fede è bella senza ma e senza perché e questo nel rapporto con Dio, come anche nella relazione con l’altro/a. Come mi lascio all’abbraccio della persona che amo e dalla quale mi sento amato, così sono chiamato a fare con la sua parola, il suo sguardo, il consiglio che mi dona, io riceva la voce che mi sussurra nel silenzio del cuore perché in me sia il seme della vita nuova della gioia. Non solo siamo chiamati a gettarci in mare per l’altro, ma sulla sua parola. Pietro, infatti, abbandona la barca e raggiunge a nuoto la spiaggia perché ha riconosciuto che la parola di Giovanni è sorgente di vita e di gioia per lui. Ciò che l’altro mi dona è per la mia gioia, per la mia vita, perché io diventi migliore, perché la mia famiglia fiorisca ancor di più nel bene. Se non mi getto in mare su ciò che mi dice l’altro significa che non mi fido fino in fondo di lui, è come se in un abbraccio lascio l’altro prima di essere da lui lasciato, vuol dire che non c’è empatia, l’amore non è vero e la parola che ascolto non la riconosco sorgente della mia vera gioia.
Il duello d’amore tra Gesù e Pietro
Accanto al fuoco di brace, Gesù invita i suoi a mangiare. Sono stanchi dopo aver lavorato tutta la notte, ma il cuore è nella gioia, perché c’è Gesù, “nessuno dei discepoli osava domandargli: “Chi sei?», perché sapevano bene che era il Signore” (Gv 21,12). È questo il grido della Chiesa di tutti i tempi – c’è Gesù, vivo e vero con noi! – è questo l’annuncio che vince la morte del cuore e fa sorgere il sole della speranza che mai tramonta. Questa è la famiglia cristiana, la Chiesa, la comunità raccolta dalla sua parola intorno a Lui, la mensa dove Egli prende posto con noi e condivide la gioia per quell’abbondanza che è dono del suo amore e del nostro lavoro. Insieme – Lui e noi – siamo gli operai del Padre, nella sua vigna che è il mondo. Come nella comunità Tommaso riconosce il Risorto, così nel cuore della comunità-Chiesa, Cristo intesse con Pietro un rapporto tutto personale, chiamandolo ad un servizio che ha come unica condizione l’amore. Non è difficile immaginarsi la scena, lo stupore dei discepoli e il senso di vergogna che prende Simon Pietro dinanzi a Gesù. Si tratta di un duello corpo a corpo, come il combattimento di Giacobbe lungo il torrente Iabbok (Gen 32,23-33). È fatto con le parole, ma si sa che la parola di Dio è “più tagliente di una spada a doppio taglio e penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito” (cf. Eb 4,12).
Gesù deve recuperare Pietro alla causa del Vangelo, deve vincere in lui il dolore e la vergogna per il suo rinnegamento e sa che c’è una sola strada per fare questo ed è la via dell’amore. Sì, la via dell’amore è l’unica capace di vincere in Pietro lo smarrimento e di rimetterlo sulla strada della sequela. Solo l’amore confessato a Gesù ci rende capaci di prendere a cuore la vita dei fratelli, di pascerli come agnelli, di guidarli attraverso le valli oscure. Anche nelle nostre famiglie l’amore e la custodia, la stima e l’offerta non hanno una dimensione meramente orizzontale – io ti amo – ma sono il segno di un amore più grande – io amo Dio in te e con te – amore questo che ci unisce ed eleva. Talvolta però tale amore va chiesto con la stessa umiltà di Gesù, perché l’altro senta che l’amore richiesto è un bisogno insopprimibile del cuore.
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Cari lettori di Punto Famiglia,
stiamo vivendo un tempo di prova e di preoccupazione riguardo il presente e il futuro. Questo virus è entrato prepotentemente nella nostra quotidianità e ci ha obbligati a rivedere i tempi del lavoro, delle amicizie, delle Celebrazioni. Insomma, ha rivoluzionato tutta la nostra vita e non sappiamo fin dove ci porterà e per quanto tempo. Ci fidiamo delle indicazioni che provengono dal Governo e dagli organi sanitari preposti ma nello stesso tempo manifestiamo con la nostra fede che “il Signore ci guiderà sempre” (cfr Is 58,11).
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