Verso la Pentecoste

Sai contare? Conosci i numeri? Se sì, puoi seguire il Risorto

di fra Vincenzo Ippolito

Nella sacra Scrittura, è cosa risaputa, i numeri sono importanti. La carrellata è assai lunga e ce ne vuole di tempo per una disanima appropriata che passi dal sette della Creazione all’otto delle Beatitudini, dai dieci dei Comandamenti al dodici delle ceste dei pani avanzati nella moltiplicazione. Meno male che il Signore perdona settanta volte sette, ovvero sempre, perché così ha liberato Pietro e noi dall’incombenza di misurare l’amore nell’offrire il perdono.

Di numeri la fede ne ha prodotto tanti lungo i secoli, alcuni li ha mutuati nella tradizione ebraica codificata dalla Bibbia, altri li ha introdotti nel desiderio tutto cartesiano – è sempre bene avere idee chiare e distinte, diceva il filosofo francese – di sistemare il tutto, ammesso che il mistero di Dio sia organizzabile in maniera esaustiva, obbiettava un fanciullo ad Agostino, mentre rifletteva sul mistero del Dio uno e trino insieme. Altri esempi da aggiungere a quelli già fatti? Tre i misteri principali della fede e sette i peccati contro lo Spirito Santo, sette ancora le opere di misericordia corporali e le spirituali, come ancora sette i sacramenti e i vizi capitali. Il mio professore di Scienze al liceo avrebbe aggiunto, come ebbe a fare una volta, “Sette sono anche i nani di Biancaneve!”, ma a lui ripeterei il mio sguardo di disapprovazione di tanti anni fa nell’accostare il sacro al profano.

Il numero è una realtà al tempo stesso sacra e simbolica, concreta e astratta. Pitagora usò il numero per elaborare il teorema che porta il suo nome, ma con il numero filosofò anche nella ricerca del principio, mentre Platone volle scrivere all’ingresso della sua Accademia ad Atene “Non entri chi non è geometra”, ovvero, chi non sa destreggiarsi con le arti della vita pratica, non può iniziare a investigare sulla verità del mondo delle idee. Smentita chiara al motto che circola tra gli incipienti della filosofia definita “la scienza con la quale o senza la quale il mondo resta tale e quale”. Le cifre scandiscono la vita dell’uomo, ma proprio il numero può traghettarci verso l’infinito, portandoci a conoscere l’incalcolabile dono di Dio. Non voglio dilungarmi, per evitare una cesura se non totale – in quel caso sarebbe censura – o tagli più o meno lunghi e, anche qui per questioni di battute, ovvero di numeri – come dar torto a chi dici, come mio padre, che sul numero si tiene l’universo? – e allora compiamo un salto, spero non pindarico, ovvero strampalato e fuori posto.

Sul numero oltre alle numerose cose citate e quasi contate sommariamente – bello giocare con le parole numero, numerose, contate, solo il sommariamente sembra fuori posto, ma la lingua permette licenze, ancor di più a chi cerca di far poesia con la prosa! – appunto sul numero, dicevamo, la liturgia cristiana costruisce l’intero suo anno e conducendoci per mano a contare i nostri giorni per giungere alla sapienza del cuore (cf. Sal 89,12), ordina l’Avvento in quattro settimane, più o meno lunghe, in quaranta e cinquanta giorni rispettivamente la Quaresima e il Tempo di Pasqua e dalla Resurrezione fa scaturire, sempre contando, tutte le feste che segnano il ritmo della santificazione del tempo per il cristiano. Sul cinquanta vogliamo ora soffermarci, ovvero sul tempo che intercorre da Pasqua a Pentecoste.

Stiamo uscendo dalla Quaresima. Nei nostri occhi abbiamo ancora il bagliore del deserto, l’asprezza del viaggio e, probabilmente, il gonfiore dei piedi per un cammino fatto tutto di rinunce. Non è stato semplice tagliare il traguardo della Terra promessa – ci siamo giunti sul serio oppure è un miraggio il luogo a cui siamo arrivati? – e l’ultima corsa lungo la salita del Golgota ci ha sfiniti perché lì, come Isacco, abbiamo visto Dio costruire l’altare ed immolare suo Figlio, il suo unigenito per noi. Abbiamo poi contato i tre giorni preannunciati dal Maestro, cadenzando le ore dell’attesa, per vederlo risorto, Primogenito dei morti e per gettare alle ortiche gli oli aromatici portati con le donne al sepolcro e chiedere noi a Lui di ungerci con il Profumo della sua vita risorta. Vorremmo ora riposarci e godere il traguardo raggiunto ed invece la Chiesa, madre che ci allena nelle corse allo stadio della vita per conquistare il trofeo, ci chiede di ricominciare a contare. Ci mette tra le mani il pallottoliere e dice: “Conta fino a cinquanta. Non aver paura, ti aiuterò io!”. La Quaresima ci ha preparati alla Pasqua di Gesù e quel cammino era per vedere Lui, passare vittorioso attraverso la morte. Ora dobbiamo partire per raggiungere la nostra pasqua, la Pentecoste, sorgente della vita nuova del Risorto che non conoscerà in noi la morte.

Abbiamo cinquanta giorni per risorgere con Cristo e non possiamo sprecarli. Dobbiamo contarli facendoli passare nel cuore, come i grani del rosario tra le mani, assaporandone la grazia, assimilandone la forza, gustandone la dolcezza. Dobbiamo imparare da Cristo la familiarità con lo Spirito del Padre suo e nostro, che è amore per essenza, perché è la sua fiamma che a Pentecoste discende nel cenacolo e tutti riveste di misericordia. Nello Spirito del Risorto, infatti, c’è la potenza sprigionante questa novità di vita nell’amore perché, come lo Spirito è stato l’artefice della Pasqua di Gesù, così lo sarà anche della pasqua della Chiesa. Il segreto di questo nuovo cammino, infatti, è tutto nell’incondizionata docilità a Lui, nella duttilità nostra perché Egli riplasmi l’argilla della nostra storia. C’è una strada migliore per attendere il battesimo di fuoco al di fuori dell’arrendevolezza all’amore suo? Il cammino di questi cinquanta giorni, infatti, ci serve per rinascere dall’Alto (Gv 3,3), per rivestirci dei sentimenti di Cristo (cf. Fil 2,5), della sua armatura (cf. Ef 6,13) ed imparare a camminare in una vita nuova (cf. Rm 6,4).

Ogni giorno dobbiamo invocare il Consolatore senza posa, perché Gesù ha promesso che il Padre è pronto a concederlo di buon grado a chi lo chiede; bisogna attenderlo con perseveranza, come Maria e gli apostoli nel cenacolo (cf. At 1,14), perché certa è la parola del Maestro: “Riceverete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi” (At 1,8). Abbiamo bisogno della sua forza per riprendere a sperare e rispondere con determinazione alle provocazioni della storia. L’unzione del Santo ci deve riempire oltre misura il cuore perché il profumo della vita nuova e dell’amore vero raggiunga gli angoli più sperduti della nostra umanità stanca e sfinita. Abbiamo estremo bisogno che il perdono del Cristo per il buon ladrone riverberi nella vita di cristiani che, come Stefano, ingiustamente vengono martirizzati per l’amore riposto nel nome di Gesù. Ecco perché leggiamo in questo tempo il libro dello Spirito Santo, gli Atti degli Apostoli, per imparare dai primi testimoni delle fede a vivere con coraggio il nostro “Credo”, a consegnarci senza paura all’imprevedibile di Dio, a lasciare che il Soffio dello Spirito riempia le vele della vita e spinga la barca della Chiesa nel mare aperto della storia.

Questi cinquanta giorni sono il tempo dell’obbedienza. Tommaso da Celano, infatti, nello stilare la seconda biografia di Francesco d’Assisi, scrive che per il serafico Padre l’obbedienza deve essere “sub figura corporis mortui” (2Cel 152: FF 736), ovvero come quella di “un corpo morto”, cadaverica appunto, come quella di Gesù, potremmo noi aggiungere. Solo quando l’uomo si consegna all’abbraccio del Padre riceve la forza del suo amore che fa rifiorire la vita. La consegna è la morte a se stessi – ecco perché l’obbedienza è cadaverica – ed è la condizione essenziale per far operare in noi la potenza del Signore. E se san Luca scrive che [Cristo] dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito Santo promesso, lo ha effuso” (At 2,33) perché non credere che la potenza della divina Misericordia potrà trasformare anche noi, attraverso l’umanità santa di Gesù? Non ci resta che piangere – la coincidenza con il titolo del film di Troisi è casuale, non una trovata letteraria! – piangere come la Maddalena per sorridere con lei alla vista del Risorto, sentirci trafiggere il cuore, come i Giudei per sperimentare poi nel battesimo di Spirito Santo e fuoco l’inizio della vita nuova.

Cinquanta giorni non è cosa da poco perché la misericordia ci trasformi a Pentecoste. Iniziamo a contare e, senza saltare nessun numero, non perdiamo questo favorevole tempo di grazia.




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