Pasqua di Resurrezione – Anno C

Meglio fare dieci passi insieme, che venti da soli!

di fra Vincenzo Ippolito

A che serve essere più veloci dell’altro se poi lo perdiamo per la strada? Che senso ha arrivare primi alla meta scelta insieme se poi, girandoti, sei solo e l’altro è lontano da te mille miglia? Meglio fare dieci passi insieme, che venti da soli: è la regola che deve scandire la vita in famiglia.

Dal Vangelo secondo Giovanni (20,1-9)
Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro.
Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!».
Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò.
Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte.
Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti.

 

 

Siamo giunti alla meta del nostro cammino. Il buio del Golgota ha lasciato il posto alla luce radiosa del giorno dopo il sabato e l’asprezza del deserto è ormai solo un lontano ricordo per noi che ora siamo immersi nella vita nuova del Signore Risorto. È la Pasqua di Gesù nella quale celebriamo il passaggio dalla morte alla vita senza fine di Colui che, da Figlio di Dio, sì è fatto Figlio dell’uomo e ha preso la nostra morte, lasciando che il Padre la trasformasse, con la potenza della sua misericordia. È la nostra Pasqua perché anche noi siamo invitati a vivere da risorti, con Lui che ora vive per sempre.

Luci ed ombre

L’evangelista Giovanni – è della sua penna la pagina che ci è donata al mattino di Pasqua, mentre la liturgia offre di potere leggere il brano dei discepoli di Emmaus (cf. Lc 24,13-35) per la Messa vespertina – ci presenta l’esperienza che fanno del Risorto Maria di Magdala, il Discepolo amato – identificato dalla tradizione con lo stesso evangelista Giovanni – e Pietro. Come gli altri Evangelisti, anche Giovanni non descrive l’evento della resurrezione, ma presenta il sepolcro vuoto e narra le apparizioni del Risorto come segni concreti della sua vittoria sul peccato e sulla morte. A ben vedere, però, il segno più convincente della Signoria di Cristo sugli inferi è la vita nuova dei suoi, perché solo la fede è il segno credibile della resurrezione poiché, come scrive san Giovanni, “Questa è la vittoria che ha vinto il mondo, la nostra fede” (1Gv 5,1).

Dopo i tragici eventi della passione, il Nazareno appare un personaggio archiviato nella memoria di Gerusalemme che ha subito voltato pagina per celebrare la pasqua. La sua comunità vive lo smarrimento ed il cuore dei discepoli non riesce a rassegnarsi alla morte del Maestro. Come capita per la scomparsa di una persona cara, si ha bisogno di un tempo, più o meno lungo per accettare il nuovo ordine di cose, superando lo sgomento. È questo il cammino di Maria di Magdala. Parte di buon mattino e si dirige al sepolcro. Ha bisogno di vedere, toccare, rendersi conto, cozzare contro una realtà difficile da digerire, impossibile da accogliere per un cuore che ama. L’Evangelista offre delle coordinate temporali sulle quali è bene soffermarsi. In primo luogo è il giorno dopo il sabato (Gv 20,1), ovvero inizia una nuova settimana – l’espressione è usata per la prima volta nel Vangelo secondo Giovanni – quasi a dire che, con la resurrezione di Cristo, l’intera creazione giunge a pienezza e la sua vita nuova rinnova il tempo degli uomini; in seconda battuta si dice che Maria si reca al sepolcro di mattino (Gv 20,1), ovvero quando c’è la luce che è il segno della resurrezione: Gesù rischiara chi sta nelle tenebre e la sua presenza rifulge sull’universo che trae da Lui nuova energia di vita; il Testo poi aggiungendo “quando era ancora buio” (Gv 20,1) sembra contraddire la precedente affermazione, ma, a ben riflettere, l’indicazione riguarda Maria, il suo animo inquieto, il suo cuore triste, lei è nel buio perché non ha ancora riconosciuto la luce del Signore, brancola nelle tenebre dell’incredulità, mentre il Cristo è veramente risorto dalla morte. È quanto può capitare anche a noi: la luce di Dio, del suo amore, la potenza della sua misericordia è all’azione intorno a noi, ci avvolge il chiarore della sua visita, la gioia della sua presenza, mentre in noi, nelle profondità del nostro cuore, abitano le tenebre del dubbio, il tarlo della tristezza e dell’incapacità di riconoscerlo vivo e vero al nostro fianco. Non sarà questa l’esperienza anche di Tommaso? Tutti hanno visto il Signore e sono pieni di gioia, mentre lui sente dentro il buio e le tenebre dell’incredulità lo divorano.

C’è spesso un abisso tra i dati propriamente oggettivi della nostra fede e la dimensione soggettiva delle nostre scelte, una cosa è ciò che si crede e professa, altro quello che si vive e pratica. È quanto capita non solo a livello personale, ma anche familiare, ciò che va bene per uno, talvolta per un altro non ha la stessa importanza e le discussioni, molto spesso, nella coppia accadono proprio sulla traduzione del piano oggettivo alla soggettività della propria vita. Ogni qualvolta i principi non trovano terreno fruttuoso nella nostra vita, siamo nella notte; quando la persona che ci sta accanto è testimone dell’amore che rende nuove tutte le cose e noi siamo arroccati nelle nostre precomprensioni e abbiamo il cuore legato ad un passato che crediamo incide ancora sulla nostra vita, siamo come Giuda, nella notte (cf. Gv 13,30); quando crediamo che il mondo giri secondo la nostra mente e pretendiamo che la realtà venga interpretata con il criterio della nostra miopia, siamo lontani dalla realtà e dalla sua giusta interpretazione. Splende la luce della resurrezione perché non vederla? Cristo ha lasciato il sepolcro e cammina sulle strade degli uomini, perché piangere ancora? Solo Gesù può risanarci, con la potenza della sua misericordia, solo il collirio del suo amore può guarire la nostra cecità per vedere la realtà non con i paraocchi imposti dalla nostra grettezza e paura, ma secondo come essa è e si manifesta in verità. È l’esperienza dell’amore che illumina il buio del nostro cuore e accende in noi il desiderio di vivere nella luce di Dio.

È importante passare in questa notte, senza scandalizzarsi, vivere nelle tenebre del dubbio senza scoraggiarsi. Non possiamo pretendere da noi stessi e dagli altri di saltare le tappe necessarie del nostro cammino di maturazione. Dobbiamo imparare a stare nella difficoltà, rimanere sulla breccia, senza scappare, chiedendo aiuto e consolazione alle persone che ci sono accanto. Perché tra sposi è così difficile vivere la notte che attanaglia il cuore dell’altro? Perché non fidarsi e sperare in Dio quando un figlio sta attraversando momenti di crescita, necessari per maturare, ma che i genitori vorrebbero superare con il colpo della bacchetta magica della propria volontà? La nostra storia, come quella della Maddalena, è impastata di luci e di ombre, perché scandalizzarsi? Talvolta brancoliamo nel buio ed è allora che sulle nostre labbra deve fiorire la parola del salmo 23 “Se dovessi camminare in una valle oscura, tu sei con me, il tuo bastone ed il tuo vincastro mi danno sicurezza” (v. 4). Maria ha dimenticato la voce del suo Gesù, procede senza essere guidata dalla parola del Maestro che continua a vivere in lei e così si sente smarrita e sola. Ecco perché è necessario continuamente ruminare la Parola di Dio, soprattutto in famiglia, nella vita di sposi. La Scrittura illumina chi le permette di operare e di fluire libera nei sentieri del cuore.

Segni di vita scambiati come segni di morte

C’è un’altra difficoltà nella vita della Maddalena e riguarda la percezione della realtà. Tutto parla di vita – la luce del nuovo giorno, il sepolcro vuoto, la pietra rimossa – ed ella, invece, in questi segni, legge il trafugamento di un cadavere e la vittoria della morte. E non solo si convincerà che il corpo di Gesù è stato rubato, ma il suo sarà il triste annuncio della vittoria della morte e della violenza sul regno della vita e dell’amore. Non è capace di leggere i segni lasciati da Dio nella sua vita per essere riconosciuto come Signore e, cosa ancor più grave, lascia il sepolcro, vinta dalla superficialità del suo osservare, per scappare dai discepoli certa di quello che ha visto. “Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!” (Gv 20,), dirà ai discepoli, mostrando come la sua incapacità a leggere la realtà nella giusta luce, divenga conferma di ciò che lei pensa – il Maestro è morto! – e annuncio di morte ai suoi fratelli che vivono lo smarrimento.

Divenire annunciatori e testimoni del Risorto è un cammino non semplice e proprio questo la Maddalena dimostra. Scambia le tracce della vita in segni di morte e così, a livello personale, non riuscirà a fare il salto significativo di fede che le viene richiesto, nelle relazioni comunitarie, la sua percezione avrà il sopravvento nella vita dei fratelli e la lettura parziale della vicenda del Maestro vincerà sul piano propriamente oggettivo, conducendo a credere non nella resurrezione, ma nel trafugamento del corpo del Crocifisso. Può capitare anche a noi di diventare testimoni di morte, seminatori di sconfitta, annunciatori di tristezza, causa del pianto e dell’altrui angoscia.

Facciamo quotidiana esperienza di quanto sia deleterio ogni lettura parziale e superficiale della realtà. Spesso situazioni di semplice risoluzione divengono delle vere e proprie tragedie per l’incapacità di fermarsi, analizzare i fatti con obiettività, leggere gli eventi con lucidità. Sul banco degli imputati l’altro è processato e condannato senza possibilità di appello e non c’è null’altro da fare se non divenire annunciatori della morte dei rapporti, testimone della vittoria della divisione, dello sgomento e della disperazione. Perché è così difficile pendere tempo, non farsi portare dall’impulsività? Perché la vita e le parole non ci aiutano a vedere la luce dove sembra prevalere il buio? Perché il negativo vince sempre sul bene, sul bello e sul vero? La Maddalena, inconsapevole, cade nella trappola della fretta, della superficialità e dell’impulsività, parte senza riflettere, corre senza aspettare e guardare con cura. La sua è la voce della comunità pronta ad incolpare i Giudei – “Hanno portato via il Signore dal sepolcro” – che prima hanno ucciso Gesù ed ora fanno scempio del suo corpo.

Come sono legati, anelli di una medesima catena, i difetti ed i peccai nostri! Dai segni mal compresi discende prima la tristezza, l’annuncio della vittoria della morte e, poi, da ultima, l’accusa per quei Giudei che sono i veri nemici di Cristo e dei suoi seguaci. E questo perché? Chi ha sbagliato una volta, può essere facilmente incolpato, avrà pensato distrattamente la Maddalena. Come ha compreso che sono stati i Giudei a trafugare il corpo del Maestro? Su quale base affermare questo e formulare un’accusa così grave? Dalla morte al trafugamento la distanza è breve. Ma perché incolpare degli innocenti, almeno in questa occasione? Il fatto che abbiamo ucciso il Maestro non significa che siano stati loro, ammesso sempre che il corpo sia stato trafugato! “I ragionamenti tortuosi allontanano da Dio” dice la Scrittura (Sap 1,3) e dovremmo anche noi tenerlo bene a mente. Quante volte la fantasia ci porta a fare salti pindarici, ragionamenti ineccepibili nei passaggi, ma che partono da un presupposto totalmente sbagliato e che conducono quindi a conclusione altrettanto errate? È quello che fa Maria, la sua incapacità a leggere la realtà la conduce a credere nel trafugamento, ad incolpare gli altri e a deviare anche i fratelli annunciando una falsità che è frutto solo della fretta e del preconcetto che ha vinto in lei. È questa la catena del male, gli occhi non vedono e sono accecati, la mente si agita, il cuore trema, si pensa al peggio, si trova un colpevole, lo si accusa e lo si condanna e poi la triste sentenza viene comunicata ai fratelli come evidente verità.

Dobbiamo, invece, imparare ad essere prudenti e a sapere leggere i segni di Dio, senza farsi prendere dalla paura e dallo scoraggiamento e soprattutto mai divenendo in seno alle comunità profeti di sventura, credendoci araldi di verità strampalate che poi si dimostrano spregiudicate bugie. Questo anche in famiglia. Dobbiamo imparare ad osservare con intelligenza prima di parlare, mai essere pronti all’accusa dei fratelli che, pur se hanno sbagliato in altre occasioni, non è detto che siano nuovamente colpevoli. Dobbiamo evitare la dinamica del sospetto e crescere e far crescere in un ambiente sano dove si dona e si riceve fiducia. Dio ci offre segni di vita perché sa che noi abbiamo la capacità di leggerli e di utilizzarli in bene. Perché non farlo?

Corre più in fretta chi più ama

L’annuncio della Maddalena coglie i discepoli di sorpresa. Pietro e il Discepolo amato decidono di andare al sepolcro a rendersi conto di quanto è stato loro riferito. Nella scena il centro è solo e sempre il sepolcro, ovvero la morte. Come Maria anche loro sono diretti al luogo della sepoltura, ma, a differenza della donna, intraprendono un camino diverso. Prima di tutto vanno insieme. Sentono di aver bisogno l’uno dell’altro e anche se lo sgomento e la paura divora il loro cuore non vogliono dividersi. È come se, diversamente dalla Maddalena, avessero bisogno che un’altra persona diventi testimone del fatto loro narrato, che si rendano conto insieme di ciò che è veramente accaduto per essere latori alla comunità della veridicità del fatto. In secondo luogo, appunta l’Evangelista, i due discepoli corrono verso il sepolcro. Hanno un’unica meta e verso di essa per la fretta e l’ansia corrono insieme – si pensi all’opera di Eugène Burnand, “La corsa dei discepoli Pietro e Giovani al sepolcro” – pur se non hanno lo stesso scatto nella corsa. In realtà, il dato più che realistico, è teologico. Corre maggiormente chi è più amato dal Signore, chi ha fatto esperienza della sua vita in un modo tutto particolare, chi ha poggiato il proprio capo sul petto del Maestro (cf. Gv 13,25) e condiviso i tragici ed ultimi momenti della sua vita, fino alla morte in croce (cf. Gv 19,25.35). Corre maggiormente sulla strada di Dio non chi ama e si sforza di amare, chi si impegna nell’ascese volontaristica dove il proprio io è onnipresente e a lui è affidato il felice esisto di ogni impresa. Corre maggiormente sulla strada di Dio chi sperimenta in sé l’amore del suo Signore, chi fa dilagare nel suo cuore la sua grazia, chi non anticipa Dio e non gli presenta il canovaccio da seguire per rivelarsi. A correre e a giungere per primo è colui che accoglie nel cuore l’amore, lo custodisce, lo serba, chi lo raccoglie dal favo di miele del Cuore del Diletto crocifisso, chi se ne nutre e ne gusta la fragranza, ne ammira la dolcezza, si stupisce del dono, si sente non degno della preferenza accordata.

È l’amore che il Signore riversa nel cuore nostro che ci fa correre e questo soprattutto e primariamente in famiglia. L’amore che gli sposi si scambiano discende dal cuore di Dio, “Io ti amo – può dire lo sposo alla sposa e viceversa – perché il cuore non può contenere l’amore che il Signore vi ha messo dentro per te!”. Ed è l’amore che permette la corsa, un amore che la volontà umana deve lasciar dilagare in ogni dove nel cuore e nel corpo perché la corsa non sappia di imposizione, ma di spontanea risposta all’amore di Colui che tanto ci ha amati. Nella coppia non bisogna aspettare il primo passo dell’altro, ma è necessario gettarsi nella mischia, scendere nello stadio, tenere fissa la meta e correre per raggiungerla. Arriva prima chi ama di più, agisce prima chi ama di più, perdona e comprende, scusa ed accoglie, tace e sorride, incurante del torto ricevuto, chi più ama. È il primato dell’amore a dover regnare nella vita coniugale e che poi deve espandersi a macchia d’olio nella famiglia. Il primato è solo e sempre dell’amore che ci fa correre senza sosta. Perché allora pretendere che l’altra capisca, che ascolti, che faccia quella determinata cosa, che assecondi il bene che gli stiamo proponendo? Tu hai capito prima per sensibilità o per reggesse educazione ricevuta dalla tua famiglia di origine? Allora non imporre il passo della tua corsa all’altro, corri tu per primo, senza che la tua divenga una corsa solitaria, ma che precede l’altro, lo sprona, gli indica il cammino, senza lasciarlo brancolare nel buio. Una cosa è correre per arrivare primi, altro scattare per indicare il cammino e aprire una strada. Non bisogna mai dimenticare che si procede sempre insieme. Difatti, c’è bisogno di correre sì, ma di correre insieme. A che serve, infatti, essere più veloci dell’altro se poi lo perdiamo per la strada? Che senso ha arrivare primi alla meta scelta insieme se poi, girandoti, sei solo e colui/colei con la quale hai scelto il cammino e il traguardo da raggiungere è lontano/a da te mille miglia? È necessario aspettarsi nella corsa, accogliere le lentezze dell’altro, senza mortificarlo per il suo incedere che sembra rallentare il nostro. Meglio fare dieci passi insieme, che venti da soli: è la regola che deve scandire la vita in famiglia, ma se poi capita che qualcuno è più veloce – qualcuno deve pur tirare il carro, senza lamentarsi e soprattutto spingendo gli altri a non accomodarsi, ma offrendo solo la spinta, mai sostituendosi – bisogna attendere con pazienza che l’altro arrivi. In noi c’è la malattia della fretta che non è frutto dell’amore. La carità genera la cura e la sollecitudine, non la fretta e l’ansia. Talvolta piccoli gesti denotano la nostra insofferenza: aspettare che l’altro si prepari, che scenda in orario per un appuntamento con gli amici, che arrivi a tavola senza doverlo chiamare più volte. Questo è possibile solo se l’attesa diventa vigilanza e custodia dell’altro, sorretti dalla preghiera, ovvero dal vivere quel tempo avendo Dio come compagno ed esempio.

Il primo diventa ultimo per amore

C’è un altro dato che il testo evangelico ben sottolinea nella figura del Discepolo amato ed è la capacità di mettersi da parte. Giovanni, pur arrivando per primo, entra per ultimo nel sepolcro. È il primato dell’amore. Ecco perché Francesco d’Assisi, nelle Lodi di Dio Altissimo, dopo aver detto, rivolto a Dio, “Tu sei amore e carità” aggiunge “Tu sei umiltà”. L’amore vero è umile, ovvero ama il nascondimento e sceglie l’ultimo posto per il bene dell’altro, per la sua realizzazione, la sua gioia. Amare significa dare all’altro il primo posto, offrirlo nella propria vita, cederlo nel rapporto con gli altri. E questo nell’amicizia e come sposi, tra genitori e figli ed in comunità, in parrocchia o tra i membri di un gruppo ecclesiale: amare significa cedere il posto o, come chiede Gesù ai suoi, preferire gli ultimi posti. Quando ami una persona sul serio, vuoi il suo bene, anche quando questo passa per la tua morte, sei felice che gli altri vedano la meta del suo impegno, pur se ignorano che tu sei il motore delle sue conquiste. Se riuscissimo a lasciare il posto all’altro, si realizzerebbe quanto Paolo chiede ai suoi di “gareggiare nello stimarsi a vicenda” (Rm 12,10).

Pietro però avrà sempre bisogno del Discepolo amato per riconoscere la presenza del Risorto, qui al sepolcro come sul lago (cf. Gv 21,7). La possibilità offertagli da Giovanni di entrare per primo, non lo affranca da lui, ma lo lega ancor di più al suo condiscepolo, perché è nella comunione che essi si completano ed incontrano Gesù, per non possono vivere la fede l’uno senza l’altro. La complementarietà è l’anima della vita matrimoniale, la capacità di aiutarsi la forza dell’amicizia. Pietro vede, ma non riesce a comprendere i segni, ha bisogno di Giovani che, entrato per ultimo, è ancora il primo, vede e crede perché solo l’amore riesce a vedere in profondità. È importante sentire il bisogno dell’altro, della sua guida e del suo supporto, fidarsi della sua parola, ascoltare il suo parere. È questo il segreto della vita insieme come anche dell’armonia familiare. L’altro mi aiuta ad arrivare dove io non riuscirei a giungere senza il suo aiuto. Questo però sempre e solo insieme, perché nell’unità c’è la gioia, nella comunione di intenti e di impegni si sperimenta che il Signore è veramente risorto nella nostra vita.




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