V Domenica di Quaresima – Anno C
La smetti di essere giudice implacabile di te stesso?
di fra Vincenzo Ippolito
Troppe cose distraggono le nostre famiglie dal porre Dio al centro della vita, come motore di ogni attività. Le ultime due settimane di Quaresima devono trovarci maggiormente pronti ad assecondare la grazia, ascoltando la Parola di vita e ponendoci, come Maria, ai piedi del Signore.
Dal Vangelo secondo Giovanni (8,1-11)
In quel tempo, Gesù si avviò verso il monte degli Ulivi. Ma al mattino si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui. Ed egli sedette e si mise a insegnare loro.
Allora gli scribi e i farisei gli condussero una donna sorpresa in adulterio, la posero in mezzo e gli dissero: «Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?». Dicevano questo per metterlo alla prova e per avere motivo di accusarlo.
Ma Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra. Tuttavia, poiché insistevano nell’interrogarlo, si alzò e disse loro: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei». E, chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani.
Lo lasciarono solo, e la donna era là in mezzo. Allora Gesù si alzò e le disse: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?». Ed ella rispose: «Nessuno, Signore». E Gesù disse: «Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più».
La Liturgia, in questa quinta ed ultima domenica di Quaresima – la prossima rivivremo l’ingresso di Gesù in Gerusalemme, iniziando la Settimana Santa – sembra presentarci nuovamente il mistero della misericordia. Se con la terza parabola del capitolo XV di san Luca (cf. Quarta Domenica di Quaresima, Lc 15,1-3.11-34), Gesù ci ha rivelato il volto del Padre suo, lento all’ira, ricco di grazia e pronto sempre a perdonarci, oggi il Vangelo ci presenta un fatto concreto nel quale il Figlio unigenito manifesta, nella viva sua carne, il segreto per vivere la misericordia nelle nostre relazioni. L’uomo sperimenta il Cuore divino del Padre, attraverso il Cuore umano di Gesù ed è chiamato a donare ai fratelli lo Spirito-amore riversato nel cuore senza misura dal Signore crocifisso e risorto.
Mettiamoci in docile ascolto del Vangelo e chiediamo al Signore la grazia di aprire le menti nostre all’intelligenza della Scrittura per gustare la dolcezza del miele di Dio, contenuto nel favo stillante del Cuore di Cristo.
Attratti da Gesù Cristo
Sulla base di un attento studio del quarto Vangelo, gli esegeti concordano nel non ritenere giovannea la Pagina che la liturgia oggi ci offre. Lo stile ed il linguaggio si discosta non poco dagli altri brani usciti dalla penna del Discepolo amato, avvicinandosi maggiormente alle narrazioni degli altri Evangelisti, soprattutto Luca. Tali indicazioni – solitamente riportate anche nelle note delle nostre Bibbie – non mettono minimamente in dubbio il carattere ispirato del brano, ma sono utili a comprendere l’iter che ha condotto alla formazione dei testi evangelici. Senza entrare nelle querelle propriamente esegetiche, leggeremo il brano all’interno del Vangelo secondo Giovanni, così come ci è stato trasmesso, per apprendere da Gesù come ogni credente sia chiamato a scandire la sua vita con la misericordia che Dio Padre è sempre pronto ad usare. Si passa così da un piano propriamente verticale (Dio è misericordia e mi usa perdono) a quello orizzontale (investito della misericordia sperimentata, la dono con eguale compassione e senza pregiudizi, al pari di Gesù).
Ci troviamo a Gerusalemme, durante la festa dei Tabernacoli detta anche delle Capanne (cf. Gv 7,2), nella quale gli Ebrei, all’inizio dell’anno – sarebbe il nostro autunno – ringraziavano il Signore per il dono del raccolto. Anche Gesù è nella Città Santa, con gli altri pellegrini, di giorno frequenta il tempo ed insegna, mentre trascorre la notte sul Monte degli Ulivi, probabilmente in una delle grotte ai piedi dell’altura. L’Evangelista lo ritrae nel ritmo abituale del suo insegnamento e non meraviglia il seguito della folla – “tutto il popolo andava da lui” (Gv 8,2a) – come anche la sua dedizione instancabile all’ammaestramento delle genti, “Ed egli sedette e mi mise ad insegnare loro” (Gv 8,2b), appunta l’autore. L’attenzione è tutta su Gesù, presentato nel gesto solenne di salire in cattedra come un maestro e sedere in tribunale come un giudice. La descrizione, breve e quasi di passaggio, non è casuale, dal momento che prepara quanto accadrà in seguito, nella disputa con i suoi avversari. Essi seguono l’insegnamento di Mosè e siedono sulla sua cattedra, almeno questo essi credono, ma della legge non hanno compreso il cuore. Il Cristo, invece, giudica con giustizia e ammaestra con sapienza, di ogni uomo scruta i cuori e ne conosce i pensieri, parla con autorità e manifesta l’autorevolezza che scaturisce dalla coerenza della vita. La figura di Gesù si erge maestosa, entra nel tempio che è la casa del Padre suo (cf. Gv 2,16) e lì attira a sé le genti, assetate dell’acqua viva al pari della Samaritana (cf. Gv 4), nel buio del dubbio circa la via di Dio come Nicodemo (cf. Gv 3). Gesù attrae, la sua parola seduce, il suo sguardo incanta, il suo cuore attira, la sua voce è suadente, il suo sorriso luminoso, la sua dottrina verità, la meta del suo dire il cuore misericordioso del Padre, la via che percorre quella dell’offerta volontaria e della docile ed amorevole consegna nell’abbraccio di Dio.
Se riuscissimo a non porre ostacoli a questa straordinaria forza attrattiva dell’amore! Perché mai non riusciamo ad assecondare il richiamo suo ad ascoltarlo, a stare del tempo con Lui, a immergerci nel silenzio, come Egli faceva quando, dimentico di tutti e di tutti, anzi proprio perché il suo ministero acquistasse spessore e forza, si ritirava in preghiera, nella solitudine del monte, proteso a Dio con il suo cuore, cavità continuamente riempita della divina compiacenza, dalla bontà che scaturiva dalla sorgente cristallina di ogni perfezione. Troppe cose distraggono le nostre famiglie dal porre Dio al centro della vita, come motore di ogni attività. Questo tempo, soprattutto le ultime due settimane che ci apprestiamo a vivere devono trovarci maggiormente pronti ad assecondare la chiamata della grazia, ascoltando la Parola di vita e ponendoci, come Maria, ai piedi del Signore (cf. Lc 10,38-42), senza nulla anteporre all’amore suo. Non possiamo – soprattutto quanti si occupano, quali animatori e catechisti, della formazione dei fratelli o che, per vocazione particolare, si pensi ai presbiteri e ai consacrati, hanno Dio come parte di eredità e calice, e che in Lui hanno posto la propria vita (cfr. Sal 15,5) – non possiamo e non dobbiamo farci prendere dall’attivismo o, come lo ha definito papa Francesco, dal martanismo (cf. Discorso alla Curia Romana, 20 dicembre 2014). Durante questi giorni – dovremo aspettare un altro anno per sperimentare la grazia del mistero pasquale, se non approfittiamo ora del passaggio del Signore della vita che in vita trasforma le nostre morti – dobbiamo assorbire, come terra arida, l’acqua di Dio, accogliere la sua voce nel silenzio del cuore, porgere l’orecchio alle sue sollecitazioni, custodire i suoi precetti, gustare la sua presenza, lasciare che il suo sguardo, di Lui che pende dalla croce, sia come quello rivolto al buon ladrone per introdurlo in Paradiso.
È possibile organizzare questi ultimi giorni di Quaresima, mettendo Dio al centro, programmare un momento, anche breve, ogni giorno per pregare insieme? Vivere un esame di coscienza in famiglia e andare tutti insieme in chiesa oppure in un santuario vicino per accostarci al sacramento della Riconciliazione è possibile oppure risulta un’utopia?
Il tribunale della vera giustizia che è la misericordia
Già la scorsa domenica, nella pagina evangelica di san Luca (cf. Lc 15,1-3), ci siamo imbattuti nell’opposizione e nel giudizio sprezzante degli scribi e dei farisei, ostili a Gesù, sempre pronto ad accogliere peccatori e pubblicani. Nella pagina odierna si va ben oltre perché gli scribi e i farisei, “gli condussero una donna sorpresa in adulterio […] per metterlo alla prova e per avere motivo di accusarlo” (Gv 8,3.4b). Si può andare da Gesù per ascoltare le sue parole e sperare di essere guariti, come le folle, ma ci si può anche avvicinare a Lui per avversarlo, considerandolo un nemico. Questo capita agli scribi e ai farisei, proprio in nome della Legge di Mosè, si arrogano il diritto di giudicare gli altri, decidendo persino della vita e della morte dei propri fratelli. Siamo dinanzi alla tentazione più antica della storia: strumentalizzare Dio e la sua parola per affermare se stessi, come un giorno il serpente che portò Eva a stendere la mano e a mangiare dell’albero che il Signore aveva proibito. Gli scribi e i farisei, questa volta, non solo utilizzano per i loro fini Dio e la sua parola – considerarsi giusti ed irreprensibili nella pratica esteriore della Legge dei padri – ma, cosa ancora più grande, usano il peccato di una donna per mettere alla prova Gesù. Non c’è atto più deprecabile che quello di servirsi delle creature più deboli e indifese, approfittando di loro, “cosificandole”, rendendole nient’altro che un oggetto, senza dignità, prive del diritto non solo di discolparsi, ma anche della possibilità di confessare. Dovrebbero essere i difensori degli oppressi, la voce dei poveri, i soccorritori dei derelitti, la mano che sostiene i lontani e, invece, [gli scribi] “divorano le case delle vedove e ostentano di fare lunghe preghiere” (Mc 12,38) e sono simili a sepolcri imbiancati (cf. Mt 23,23). La Legge che studiano con la mente, inaridisce il cuore, non li umanizza, ma li priva di quello sguardo che nella Scrittura Dio continuamente usa verso gli uomini, piegandosi misericordioso e benevolo verso i peccatori. La Scrittura umanizza – per questo la si legge e medita ogni giorno, va posta in un luogo visibile della casa quale lampada che arde e risplende – la Scrittura ci rende ciò che Dio vuole che noi diveniamo con la sua grazia, ovvero uomini e donne vere, che si guardano come fratelli, si aiutano quali amici di Dio, collaborando l’uno alla gioia dell’altro. Invece gli scribi ed i farisei, leggono, ma è come se non leggessero. È un grave peccato non riconoscere la dignità dell’altro, disprezzarla, misconoscerla. Ogni uomo, anche quello che si è macchiato del più grave peccato, ha la sua dignità che non dipende da ciò che ha compiuto, ma è segno di quello che egli è dinanzi a Dio, per la sua volontà creatrice. L’uomo non può e non deve entrare con violenza nel sacrario della coscienza e spadroneggiare sull’altro, non può e non deve penetrare nelle intenzioni dei suoi gesti e giudicarli con il legalismo che rifiuta l’amore come pienezza della legge. Nessuno può togliere e privare l’altro della capacità di difendersi e di rispondere dei propri gesti non per giustificarsi, ma per raccontarsi dinanzi a Dio e davanti ai fratelli.
Gli scribi e i farisei sono implacabili. Credono di poter fare tutto in nome di Dio, di entrare nella vita degli altri con la spada della legge, uccidendo e seminando la paura. Essi entrare nella vita per condannare, per giudicare, per svelare il peccato di cui si sono resi testimoni e divenire servi assoldati alla causa della morte. Dove risuona nella loro voce il grido di Dio che non gode della morte del peccatore, ma che si converta e viva (cf. Ez 33,10)? Dove testimoniano il primato della grazia, la vittoria della misericordia, la forza della mano potente di Dio che fascia le ferite dei cuori spezzati (cf. Sal 33)? Simili passaggi, pur senza saperlo, li attuiamo anche noi ogni giorno.
Quante volte disprezziamo la dignità della persona che ci è accanto, la consideriamo una nostra proprietà, un oggetto di cui servirsi? Quante volte non consideriamo i bisogni e le necessitò dell’altro, crediamo che sia giusto difendere i nostri diritti e non pensiamo minimamente a quello che l’altro sente e si porta nel cuore? Perché siamo pronti a condannare e ad accusare e non ci lasciamo vincere dalla capacità di ascoltare le ragioni dell’altro, offrendo possibilità di dialogo, luoghi per lo scambio ed il confronto? L’altro ha sbagliato e basta! Ma siamo sicuri che abbia veramente sbagliato? E se questo dovesse capitare anche a noi, vogliamo poi che ci si applichi un trattamento più indulgente, sfruttando le attenuanti generiche del caso che solo a noi vanno usate? E poi come consideriamo lo svelare – meglio sarebbe dire mormorare e sparlare – del peccato altrui, delle sue debolezze, delle sue cadute, piccoli o grandi?
Gesù non si scompone dinanzi alle macchinazioni dei suoi avversari. Sa bene la trappola che gli stano tendendo, anche altre volte, come nel caso del tributo a Cesare (cf. Mt 22,15-21) hanno cercato di trarlo in errore. Scribi e farisei incalzano, hanno messo nel mezzo quella donna come un trofeo di guerra, come una vittima da sacrificare alla causa del loro perbenismo. Che senso ha la vita di quella donna in confronto alla possibilità di mettere a morte Gesù? La vita dell’altro non vale nulla, pur di perseguire i propri intenti, l’altro se mi serve va bene, altrimenti lo elimino come un oggetto che si può gettare perché inutile. Gesù conosce bene i pensieri dei suoi nemici a tace dinanzi a loro. Gli chiedono “Mosè, nella legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?” (Gv 8,5), ma il Nazareno sa bene che, condannando la donna, rinnega la sua predicazione, mentre chiedendo la sua liberazione, si metterà contro la legge. La situazione non è di semplice risoluzione. Il silenzio di Gesù è un espediente narrativo che serve per aumentare nel lettore la partecipazione, preparando l’inaspettata risposta del Signore. Egli sulle prime – l’Evangelista lo sottolinea per ben due volte – si mette a scrivere per terra (sul senso di questo gesto si sono avute le spiegazioni più diverse, quella più famosa è di da san Girolamo che considera Gesù intento a scrivere in terra i peccati degli suoi avversari), un gesto profetico che richiama le parole di Geremia “Quanti si allontanano da te saranno scritti nella polvere, perché essi hanno abbandonato il Signore” (Ger 17,13). Il Maestro, seduto sulla cattedra, con il suo silenzio sta dicendo che chi abbandona Dio, ritorna nella polvere, ovvero non è vivificato dal soffio del suo Spirito e non benefica della sua presenza di pace. Condannare in nome della legge vuol dire non interpretare rettamente la Scrittura che diviene una lettera di morte – “la lettera uccide, lo Spirito dona la vita”, scrive san Paolo in 2Cor 3,6 – che non conduce l’uomo a vivere in Dio e di Dio. Si può piegare Dio ai propri pensieri e fare in modo che il Signore sia dalla nostra parte, ma ci illudiamo. Non solo perché Dio è più grande del nostro cuore, ma le nostre macchinazioni non servono a nulla perché non possiamo far girare il mondo secondo la nostra mente capricciosa. Inutile cercare di condannare l’operato di Dio e di coloro che in suo nome parlano ed agiscono, nel solo intento di difendere se stessi, perché i castelli che noi costruiamo crollano sopra di noi, senza che ce ne accorgiamo. Dio non solo non si lascia tentare, ma tace dinanzi alle nostre pretese di averlo alleato contro il fratello, di tirarlo dalla nostra parte per assecondare il nostro egoismo. Dio siede sul trono della misericordia e tace perché Egli ha già parlato nella Scrittura, ma noi abbiamo travisato il suo insegnamento e non siamo stati docili ad accogliere la sua voce. Il silenzio di Dio è un mistero che interpella la nostra capacità di capire la sua pedagogia. Parole, gesti e silenzi sono le modalità attraverso le quali Egli mi interpella, chiedendomi di accoglierlo. Il silenzio crea negli scribi e nei farisei difficoltà e tensione, insistono nell’ottenere una risposta soddisfacente (cf. Gv 8,7), perché non sono abituati al Dio che tace, essi non ascoltano il silenzio come momento di riflessione, di analisi e di interiorizzazione della Parola. È così difficile comprendere il silenzio ed entrare in questo linguaggio particolare? È così difficile per noi saper parlare e talvolta sapere tacere perché le parole hanno bisogno di un luogo – il silenzio appunto – che permetta la sedimentazione di quanto è stato accolto?
Gesù non parla perché le nostre domande, quando non sono mosse dalla carità, non sono degne di una risposta da parte di Dio.
“Misericordia io voglio”
L’incalzare degli interlocutori spinge il Giudice ad alzarsi e a pronunciare il suo verdetto controvertibile: “Chi di voi è senza peccato scagli per primo la pietra contro di lei” (Gv 8,7). È questo il momento di maggiore tensione della scena. Tutti pendono dalle labbra del Maestro, pronti a condannare Lui e la donna, senza battere ciglio ed invece, sono smascherati nei loro perversi pensieri. Gesù è solenne nella sua figura, in posizione eretta nell’atto risoluto di chi è padrone dei suoi pensieri e sa ciò che sta dicendo, non si lascia influenzare dalla cattiveria degli astanti, le acque del suo cuore puro non vengono inquinate dai ragionamenti torbidi dei suoi avversari. Non dice che non bisogna rispettare la Legge, neppure che la dona è priva di peccato. La verità non ha bisogno di difensori, si impone di per sé ed Egli che è la Verità lo sa bene. Il suo punto di partenza non è la Legge – è semplice appellarsi ad essa e considerarsi giusto, come fanno scribi e farisei, sempre pronti a puntare il dito contro gli altri – neppure prende in considerazione la condotta di chi è incappato nelle maglie del peccato, consapevole o meno del male che prima che a Dio ha fatto a se stesso – la tua vita non dipende da ciò che il tuo fratello fa o non fa e neppure devi avere occhi da inquisitore nei suoi riguardi perché l’altro ti appartiene, sei custode della sua vita e del suo bene – ma, capovolgendo la situazione, mette l’accento sulla consapevolezza che ciascuno degli accusatori suoi e della donna ha del peccato che attanaglia la propria vita e pesa, pur se in maniera nascosta, sulla coscienza. Il problema non è il peccato della donna, ma la mia condotta, non la sua vita, ma il mio occhio, non il suo peccato, ma la mia capacità di vedere non ciò che voglio vedere. Chi sono essi per giudicare? Forse che il giudizio non appartiene a Dio solo? E perché, garanti della legge, maldestramente da loro utilizzata per uccidere, della stessa Scrittura non ricordano l’obbligo di ammonire i peccatori, desiderando che desistano dal male e comminino sulla strada del bene (cf. Ez 33,7-19)? È tanto difficile per noi guardare le persone senza vedere il male in ogni situazione, in ogni loro gesto e pensiero? Perché nell’altro siamo sempre pronti a scovare ciò che non va, indulgenti, invece, con noi stessi nel nascondere quell’errore che poi condanniamo palesemente nell’altro?
Gli scribi e i farisei vengono richiamati da Gesù a spostare l’asse dalla donna a se stessi, considerando che la spada della legge colpisce, ancor più implacabile, coloro che della Thorà si fanno una corazza. “Chi di voi è senza peccato scagli per primo la pietra contro di lei” (Gv 8,7) cos’altro vuol dire, se non “togli prima la trave che è nel tuo occhio” (Lc 6,42)? Chi può veramente considerarsi senza peccato, visto che “il giusto pecca sette volte al giorno” (Pro 24,16)? Chi può credersi irreprensibile davanti a Dio, se Isaia confessò il suo peccato, definendosi uomo dalle labbra impure, in mezzo ad un popolo di ribelli (cf. Is 6,5), indegno di vedere il Signore degli eserciti? Perché abbiamo una considerazione alta di noi stessi, mentre dei nostri simili non ci curiamo o, peggio ancora, siamo pronti al disprezzo? E poi, perché palesare il peccato dell’altro, metterlo in piazza come merce da vendere al migliore offerente?
Anche nelle nostre famiglie è necessario imparare quel sano realismo che ci porta a comprendersi, usando la pazienza e la prudenza richiesta. Inutile riprendere continuamente i nostri figli, se poi alla loro età li abbiamo superati di gran lunga in ribellione. In questo caso dovremmo usare indulgenza, conoscendo come, attraverso le diverse fasi dell’età, si giunge a migliori consigli. Dall’altro canto, non possiamo dimenticare che i tempi cambiano e che siamo chiamati a testimoniare il primato della carità e a proporre il graduale cammino della maturità per costruire il proprio futuro. Io devo partire da me – se riuscissimo ad impararlo in ogni ambito, nella coppia e in famiglia, nelle comunità parrocchiali e tra i consacrati! – inutile dare all’altro una croce che egli non è in grado di portare, perché se Dio mi ha aperto gli occhi sul bene da fare, sono io che devo attuarlo, condividendolo e proponendolo, mai pretendendolo.
Ciò che Gesù propone non è il disprezzo della legge, ma il perseguire quella giustizia il cui esercizio inizia da me, dal mio cuore, dalla rettitudine delle mie intenzioni, dalla purezza degli sguardi, dalla schiettezza delle parole che seminano concordia e costruiscono ponti di pace.
Il primato dell’amore che converte
Tutti vanno via, toccati nel vivo della propria incoerenza e sulla scena – che fine pittore è l’Evangelista nel disegnarci ogni particolare, senza descriverlo appieno, ma offrendoci solo lo spunto per lasciare a noi di continuare l’opera – resta solo Gesù e la donna, la miseria e la misericordia, come scrive commentando questa pagina Agostino di Ippona. Sì, la miseria e la misericordia, Dio e l’uomo, la ricchezza e la povertà, la grazia ed il peccato, un incontro che non scava fossati di divisione, ma unisce per donare salvezza. Anche qui, è Gesù a condurre per mano la risoluzione della sena. La sua domanda “Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannato?” (Gv 8,10) mostra una ricchezza immensa di delicatezza e di misericordia. La chiama donna – gli scribi ed i farisei l’avevano definita con disprezzo “questa donna … in flagrante adulterio” (cf. Gv 8,4) – Egli, invece, la definisce semplicemente donna, ovvero le toglie dalle spalle il manto del pregiudizio e della condanna e le restituisce la dignità che le appartiene per diritto perché nessuno può privarci ciò di cui Dio ci ha fatto dono. La spinge poi non solo a guardarsi intorno e a vedere che i suoi accusatori sono svaniti come neve al sole, ma a considerare che in quel “nessuno” è invitata anche lei. La donna non deve autocondannarsi, né sentire su di sé il peso del suo peccato, dei suoi trascorsi. Tante volte, siamo noi che condanniamo noi stessi e viviamo lontani da Dio e dagli altri, imponendoci una pena che nessuno ci ha inflitto. Siamo spesso giudici implacabili di noi stessi ed è veramente difficile rompere quella spirale di morte che si innesca nella mente e nel cuore (si pensi a coloro che attuano un aborto o che lo procurano, vivono continuamente tormentati dal rimorso per ciò che hanno fatto e non riescono ad assecondare la grazia del perdono che Dio ha effuso con larghezza).
Quale fine psicologo è Gesù! Guarisce dai condizionamenti esterni ed entra nel cuore per sanare le ferite dell’anima. È facile immaginare lo stupore e la paura della donna, il senso di vergogna che l’abita, come anche lo smarrimento per ciò che le potrà accadere. Risponde sì – “Nessuno, Signore” (Gv 8,11a) – ma quasi timida, impaurita per ciò che si sta verificando, incredula per quanto si sta consumando. Si sarà vista già colpita a morte dalle pietre dei suoi avversari ed ora rialza il suo volto perché è stata riconosciuta non femmina, ma donna! La sua è una confessione di fede, si rivolge a Gesù come al Signore che non la rende schiava, come l’uomo con cui giaceva in casa, ma che la libera, la riscatta, l’affranca. E Gesù, il Signore, riprende “Neanche io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più!” (Gv 8,11b). in tal modo, non l’ammonisce con severità, non le rinfaccia il male commesso, non la umilia ricordando l’errore compiuto, ma le dona una vita nuova. A Gesù interessa che noi diventiamo nuovi nel cuore e nella mente con la forza che sprigiona da Lui.
La misericordia sperimentata dalla donna – è quanto insegna Gesù – dona la possibilità di non cadere nuovamente nelle maglie del male. Dalla misericordia alla conversione è questo l’ordine giusto della vita del credente. Non è il nostro desiderio di cambiare vita a spingere Dio ad essere con noi pronto al perdono, ma l’amore suo a determinare la nostra vita nuova. È l’amore che converte, solo l’amore può spingere il cuore a non deviare per camminare nella sincera ricerca del bene.
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Cari lettori di Punto Famiglia,
stiamo vivendo un tempo di prova e di preoccupazione riguardo il presente e il futuro. Questo virus è entrato prepotentemente nella nostra quotidianità e ci ha obbligati a rivedere i tempi del lavoro, delle amicizie, delle Celebrazioni. Insomma, ha rivoluzionato tutta la nostra vita e non sappiamo fin dove ci porterà e per quanto tempo. Ci fidiamo delle indicazioni che provengono dal Governo e dagli organi sanitari preposti ma nello stesso tempo manifestiamo con la nostra fede che “il Signore ci guiderà sempre” (cfr Is 58,11).
1 risposta su “La smetti di essere giudice implacabile di te stesso?”
È un commento bellissimo e ricchissimo di contenuti e spunti. Grazie