III Domenica di Quaresima – Anno C

La terra dove il Signore mi manda come segno di salvezza, è la vita dell’altro

di fra Vincenzo Ippolito

Libertà è un sostantivo di tre sillabe che pesa sul cuore quanto un intero vocabolario. Perché è così difficile per noi essere liberi? Forse perché, come Mosè, crediamo che la libertà sia lontano da coloro che ci possono aiutare, che ci vogliono amare?

Dal libro dell’Esodo (3,1-8a.13-15)

In quei giorni, mentre Mosè stava pascolando il gregge di Ietro, suo suocero, sacerdote di Madian, condusse il bestiame oltre il deserto e arrivò al monte di Dio, l’Oreb.
L’angelo del Signore gli apparve in una fiamma di fuoco dal mezzo di un roveto. Egli guardò ed ecco: il roveto ardeva per il fuoco, ma quel roveto non si consumava.
Mosè pensò: «Voglio avvicinarmi a osservare questo grande spettacolo: perché il roveto non brucia?». Il Signore vide che si era avvicinato per guardare; Dio gridò a lui dal roveto: «Mosè, Mosè!». Rispose: «Eccomi!». Riprese: «Non avvicinarti oltre! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è suolo santo!». E disse: «Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe». Mosè allora si coprì il volto, perché aveva paura di guardare verso Dio.
Il Signore disse: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dal potere dell’Egitto e per farlo salire da questa terra verso una terra bella e spaziosa, verso una terra dove scorrono latte e miele».
Mosè disse a Dio: «Ecco, io vado dagli Israeliti e dico loro: “Il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi”. Mi diranno: “Qual è il suo nome?”. E io che cosa risponderò loro?».
Dio disse a Mosè: «Io sono colui che sono!». E aggiunse: «Così dirai agli Israeliti: “Io Sono mi ha mandato a voi”». Dio disse ancora a Mosè: «Dirai agli Israeliti: “Il Signore, Dio dei vostri padri, Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe mi ha mandato a voi”. Questo è il mio nome per sempre; questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione».

Siamo alla terza tappa del cammino quaresimale. La fatica dell’incedere si fa sentire e con essa, come per il popolo d’Israele, la tentazione di volgere indietro lo sguardo per desiderare l’Egitto, dal quale il Signore ci ha fatti uscire, come il guardino dell’Eden perduto. Non è semplice perseverare nel deserto, rifiutare le lusinghe del demonio dietro Gesù (cf. Lc 4,1-13, 1a Domenica di Quaresima), vincere il sonno dinanzi alla luce del Signore trasfigurato sul monte (cf. Lc 9,28b-36, 2a Domenica di Quaresima). La purificazione del cuore imbrigliato in mille schiavitù e dipendenze è un lavorio lento che richiede coraggio e fede, volontà e docilità alla grazia dello Spirito che, solo, può sostenerci nella prova.

Per soccorrerci in questo cammino e non lasciarci vincere dai tanti miraggi che nel deserto sembrano realtà, la liturgia ci offre un brano tratto dal libro dell’Esodo, una delle pagine più belle dell’Antico Testamento. Il protagonista è Mosè, quel bambino ebreo salvato prodigiosamente dalle acque (cf. Es 2,1-11) che riceve sull’Oreb, il monte della rivelazione e della legge, dell’alleanza e della fedeltà, la missione di guidare Israele verso la libertà.

Anche noi, come il popolo, abbiamo bisogno di un condottiero per superare il deserto e giungere ad abitare nella terra promessa; anche noi dobbiamo imparare ad uscire dalle nostre schiavitù per vivere la bellezza della libertà e l’impegno che questa comporta. Lasciamoci condurre dalla Parola dell’autore sacro e teniamo fisso lo sguardo sulla scena del monte per entrare nel mistero di quel Dio che vede la nostra oppressione, ascolta il grido della nostra schiavitù ed interviene per donarci la liberazione sperata.

Nella terra della fuga incontriamo Dio

Per questo domenica lasciamo le pagine di san Luca – il Vangelo odierno (cf. Lc 13,1-9) presenta un nuovo monito di Gesù alla conversione, sulla base di alcuni fatti accaduti ai tempi di Erode, seguiti dalla parabola sul fico sterile che mostra la pazienza  di Dio nell’attesa del ravvedimento dell’uomo – per entrare nell’esperienza del roveto ardente che Mosè, inconsapevole di quanto lo attende, vede da lontano e desidera scoprire.

Ci troviamo all’inizio del libro dell’Esodo – il titolo indica proprio il tema dei quaranta capitoli che lo formano, l’uscita del popolo d’Israele dalla schiavitù dell’Egitto – e l’autore con il suo narrare si collega direttamente al libro della Genesi: Giacobbe, con i suoi figli, ha raggiunto Giuseppe in Egitto dove: “I figli d’Israele prolificarono e crebbero, divennero numerosi e molto forti e il paese ne fu pieno” (Es 1,7). Dopo la morte di Giuseppe, gli Egiziani iniziarono a vedere come ostile la presenza degli Israeliti, per questo “resero loro amara la vita mediante una dura schiavitù, costringendoli a preparare l’argilla e a fabbricare mattoni e ad ogni sorta di lavoro nei campi; a tutti questi lavori li obbligarono con durezza” (Es 1,14). In questo contesto di profonda angoscia ed oppressione – significativo è la narrazione sulle levatrici (cf. Es 1,15-22) che, pur avendo ricevuto dal faraone l’ordine di far morire i figli maschi nati dagli Ebrei, temettero Dio e li lasciarono vivere: la cattiveria dell’uomo non può nulla sulla potenza del Dio della vita! – inizia la storia di Mosè: Dio stesso suscita nel cuore del popolo un liberatore che, in suo nome, sia il segno tangibile della compassione divina.

Il nostro brano segue gli antefatti sulla vita di Mosè fanciullo (cf. Es 2,1-10), la fuga dall’Egitto e la sua nuova vita nel paese di Madian (cf. Es 2,11-22), con un sommario sulle angustie d’Israele e sul Dio dei padri che “ascoltò il loro lamento, si ricordò della loro alleanza, guardò la loro condizione e se ne diede pensiero” (cf. Es 2,23-25). Il Signore non salva per mano di stranieri, ma vuole che di mezzo ai suoi eletti sorga la guida sapiente, il condottiero valoroso nella cui azione riconoscere l’intervento prodigioso di Dio che misteriosamente conduce la storia degli uomini. Il Mosè che il brano ci fa incontrare è un uomo in fuga, da se stesso e dal suo passato, dai suoi fratelli che lo accusano per la violenza perpetuata uccidendo un Egiziano (cf. Es 2,14) e dal faraone che vuole metterlo a morte (cf. Es 2,15). Lo straniero, che difende e libera le figlie del sacerdote di Madian venute ad abbeverare le greggi, nasconde a se stesso e a quanti lo incontrano una storia travagliata e piena di dolore che non riesce a dimenticare. Il nome del suo primo figlio Ghersom – “Vivo come straniero in una terra straniera” (Es 2,22) – ricorda proprio come il suo cuore sanguina per un storia continuamente presente dinanzi ai suoi occhi.

Non è cosa semplice per Mosè convivere con un passato nel quale, cresciuto dalla figlia del faraone, credeva di poter fare tutto. Può sembrare strano, ma proprio nella fuga incontra Dio, il suo volto lo attrae, la sua presenza lo incuriosisce, il suo silenzio lo seduce, il roveto lo chiama, il suo non consumarsi lo attira. Dio non solo non abbandona l’uomo, ma nei momenti più impensati, entra con quella tenera determinazione che spiazza, non si impone, ma si propone con tale tenerezza che è impossibile resistergli. Si tratta dell’attrazione che Egli esercita su di noi. Dio, rivelandosi all’uomo lo attrae a sé, senza che lo costringa, perché l’uomo avverte che il suo cuore, in maniera inconsapevole, viene attirato da Colui di cui ha estremo bisogno. “Questa rivelazione – è sant’Agostino a scriverlo in una sua omelia – è essa stessa un’attrazione. Tu mostri alla pecora un ramo verde, e l’attrai. Mostri delle noci ad un bambino e questo viene attratto: egli corre dove si sente attratto; è attratto da ciò che ama, senza che subisca alcuna costrizione; è il suo cuore che rimane avvinto. Ora se queste cose, che appartengono ai gusti e ai piaceri terreni, esercitano tanta attrattiva su coloro che amano non appena vengono loro mostrate – poiché veramente “ciascuno è attratto dal suo piacere” -, quale attrattiva eserciterà il Cristo rivelato dal Padre? Che cosa desidera l’anima più ardentemente della verità? Di che cosa dovrà l’uomo essere avido, a quale scopo dovrà custodire sano il palato interiore, esercitato il gusto, se non per mangiare e bere la sapienza, la giustizia, la verità, l’eternità?”.

Mosè ha la sua vita, la sua famiglia, il suo lavoro. L’Egitto è lontano, lontano da suoi orecchi il grido del popolo, distante dagli occhi – lontano dagli occhi lontano dal cuore! – l’afflizione di Israele, le violenze e le angherie che subiscono per la schiavitù non lo scalfiscono e neppure potrebbero. Differente è la sua giornata, la sua occupazione, le sue preoccupazioni. È un pastore, al seguito di suo suocero che, sacerdote di Madian, vive lontano dal vero Dio, dal Dio dei suoi padri, Abramo, Isacco e Giacobbe. Mosè è nella terra della lontananza, dell’oblio volontario, della dimenticanza cercata, dell’incuria voluta. È un uomo senza storia, senza memoria, senza padre, né madre, trapiantato in una terra che lo ha accolto come liberato e dove, quasi in maniera passiva, trovandosi nel bisogno come il figliol prodigo, assume tutto come proprio. Mosè è lontano, ma Dio gli è vicino; Mosè fugge, ma Dio lo insegue; l’Ebreo si nasconde, ma il Signore lo scova; custodisce il gregge, ma si scopre custodito misteriosamente dal Dio che vuol essere il suo Dio, dinanzi al quale il passato non esiste se non per sperimentare la portata immensa di quell’amore che spazza il peccato e restituisce nuova la vita.  

Quante fughe sperimentiamo ogni giorno nelle nostre famiglie! Si scappa dalle proprie responsabilità oppure dall’incapacità dell’altro di starci vicino e di condividere le difficoltà che viviamo. Il terribile quotidiano ci prostra e tante volte vorremmo scappare perché ci sentiamo soli, incompresi, falliti nei nostri desideri, incapaci nel realizzare i propositi sperati, con una storia che sembra un campo di battaglia, seminato più da morti che da feriti. Ci sono momenti nella vita in cui, come Ezechiele, sentiamo che Dio ci chiede: “Figlio dell’uomo potranno queste ossa rivivere?”. Potranno rivivere gli scheletri del nostro passato che ancora, pur a distanza di anni, teniamo nascosti? Potranno le piaghe dei nostri rapporti, delle incomprensioni subite, degli odi e dei risentimenti di cui il cuore è come un forziere, potranno forse rifiorire, come le ferite del Signore risorto? È il cammino di Mosè questo: credere che Dio è con me, con la mia famiglia, nel dramma di una vita difficile. Il Signore mi salva, ma attraverso la persona che mi rifugge, grazie a colui/colei che non mi considera parte di sé e della sua vita. Quale scandalo! Quale ribellione interiore si sperimenta quando ci si accorge che Dio ti salva con la mano tesa di colui che ti era ostile, ti consola con la voce di chi non ha più voluto riconoscere il tuo grido di supplica.  

È necessario non fuggire dinanzi alle difficoltà, perché è la cosa più inutile che si possa fare. Quando un bambino cade, devi rimetterlo in piedi perché riprovi a camminare, pur dovendolo in seguito rialzarlo mille volte. Solo così, infatti, imparerà a camminare spedito e senza la paura di cadere, perché saprà per averlo vissuto che la caduta non è uno stato permanente, ma un segno della nostra fallibilità, superabile con l’impegno e l’aiuto proprio ed altrui. Sbagliando si impara – è questa la lezione che la vita deve insegnarci, perché un cammino senza intoppi non esiste, meglio non illudersi! – ma fuggire non serve, verranno altre situazioni e non si può scappare per sempre!

Se riuscissimo ad imparare da Dio a lasciar scappare l’altro e a ricondurlo con amore, inseguirlo senza fargli violenza, rispettando i tempi del suo maturare! Se riuscissimo ad essere nella vita dell’altro che sbaglia e va via, sempre sbattendo la porta, presenza discreta che col silenzio ammonisce, senza nulla pretendere! Se il nostro cuore, per il dono di Dio, fosse come il roveto che attrae Mosè, bruciante d’amore come quello di Gesù crocifisso che attrae il buon ladrone e gli apre le porte del Regno; roveto che attira, calamita che attrae, dolcezza che seduce, vino che inebria, latte che disseta, pane che sazia, acqua che purifica, olio che risana, balsamo che guarisce, miele che addolcisce, profumo che si espande. Questo è l’amore, l’amore del Dio lento all’ira e ricco di grazia, l’amore di Cristo che mai si stanca di amarci fino alla fine e di porsi come modello del nostro amore!

Il cammino di liberazione per liberare dalla schiavitù il liberatore

Può sembrare un gioco di parole, ma il primo che deve essere liberato, prima e forse anche più del popolo, è il futuro liberatore, Mosè. Egli, infatti, ha l’Egitto nel cuore, è lì che è schiavo, imbrigliato nella sua storia, nella violenza di cui si è macchiato, nella paura di essere scoperto e messo a morte dal faraone. Scappa, come Caino, senza accorgersi che fugge da se stesso, dal suo fallimento, dal suo passato, dalle incomprensioni del suo popolo, dall’incapacità di essere fratello dell’altro senza ricorrere alla morte del nemico. Dio ha bisogno di Mosè, vuole aver bisogno di lui per liberare Israele, suo popolo, ma prima deve liberare Mosè, deve rompere in lui la spirale di morte, deve riconciliare il suo passato, accogliere i suoi fallimenti, ritornare sul luogo dei suoi delitti senza paura, sapendo che Dio lo ha scelto, la sua elezione lo rafforza, il suo amore lo sostiene, la sua potenza lo rende invincibile. Deve credere che Dio, il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe è più forte della schiavitù sua e del suo popolo, che il grido di dolore è giunto agli orecchi di Dio, che Egli ha guardato e si prende pensiero della sua eredità, del popolo che ha scelto di amare da sempre e per sempre. Si tratta di una lotta contro se stessi. Mosè è chiamato ad una conversione totale, ad un cambiamento di mentalità che lo destabilizza, ad una inversione di rotta che fa crollare la sua nuova vita costruita lontano da Dio, sulla sabbia dei suoi fallimenti, sull’argilla dei suoi desideri, sul terreno inconsistente del credere il Signore qualcosa o qualcuno di superfluo per la sua esistenza. Come può essere padre, Mosè, se ai figli, persino nel nome, imprime il segno della sua identità distrutta, del suo passato lontano, dei suoi sogni infranti? Quale eredità pesante dona alla sua prole quel fuggitivo che difende la verità con la violenza e i deboli con l’uso del sopruso e della forza? Le battaglie combattute da Mosè sono giuste e giustificabili nelle ragioni che le determinano, ma totalmente sbagliate nelle dinamiche che si attuano, nelle modalità che si innescano. Per difendere un fratello, non puoi uccidere il suo nemico, per salvare la tua vita non puoi scappare. Fino a quando la violenza potrà prevalere e con la legge del più forte, l’ingiustizia? Fino a quando si potrà scappare per credersi al sicuro, quando invece, si trema ogni momento davanti alle novità non messe in conto?

Non è un cammino semplice quello che attende Mosè, come non è semplice per ciascuno di noi accogliere il passato, guardare in faccia i fallimenti propri ed altri, considerare la storia personale e di coppia, di famiglia e di comunità abitata da Dio, misteriosamente, trasformata dall’interno da Lui che fa prodigiosamente nuove tutte le cose! Eppure è necessario per essere uomini e donne vere intraprendere questo cammino, imboccare questa ardua strada. Camminare verso la libertà talvolta appare impossibile, pesano sul nostro cuore così tanti condizionamenti che sembra di stare a terra piegati come quel tale percosso a morte dai briganti sulla strada di Gerico. Le voci del Nemico ci bombardano, le paure per i pensieri che potrebbero anche solo sfiorare la mente dell’altro ci prostrano e ci portano, come don Chisciotte, a intraprendere quella inutile battaglia che, alla fine, risulta, pur senza che noi ce ne accorgiamo, contro dei mulini a vento. Libertà è un sostantivo di tre sillabe che pesa sul cuore quanto un intero vocabolario. Perché è così difficile per noi essere liberi? Forse perché, come Mosè, crediamo che la libertà sia lontano da coloro che ci possono aiutare, che ci vogliono amare? Perché non capiamo che solo l’amore è la forza che ci dona il coraggio di non soccombere al male, di resistere e di sperare, di combattere e di affidare a Dio la propria causa, con le mani alzate come Mosè in preghiera, pronti a gettarsi nella mischia come Giosuè?

La forza della libertà sta nella potenza dell’amore di Dio e nella solidarietà del popolo. Il cammino verso la libertà è di tutto il popolo, non posso compierlo da solo, sono chiamato a libertà, a vincere ogni forma di schiavitù in me e nell’altro confidando nell’amore di Dio e credendo all’amore dell’altro. La libertà è un dono ed una conquista, dono di Dio non meritato, conquista della mia capacità di lasciarmi amare dall’altro che sgombra il mio cuore dalla paura, fuga il campo della mia mente dai pensieri cattivi, che mi offre il suo abbraccio terra promessa dove, come le pecore nell’ovile, io sono al sicuro. Libertà da se stessi – il primo nemico da vincere è il proprio io – libertà dai condizionamenti esterni – quelli che gli altri pretendono da noi – libertà da quello che io credo che il Signore voglia da me – una cosa è la volontà di Dio e altro è quello che io credo sia tale per me e per le persone a me care – tale libertà, dai mille volti, dalla mille sfaccettature, si attua solo se lascio che Dio e l’altro mi liberino, che condividano il mio cammino, che sposino la mia causa. Se io mi lascio aiutare dall’altro che, in nome di Dio, è il mio liberatore, anche l’altro potrà farsi liberare da me che, in nome di Dio, sono il suo custode e il suo sostegno. È troppo comodo condurre le pecore di altri oltre il deserto, quando non riusciamo a guidare noi stessi fuori dallo steccato delle nostre piccole e grandi insicurezze. Ma per sognare la libertà, per spingere lo sguardo oltre la gabbia dorata è necessario essere toccati nella corda dei propri desideri ed è lì che il Signore interviene.

La cosa più importante nella vita non sono le cose che facciamo, neppure quello che pensiamo e diciamo, ma i desideri che ci portiamo dentro e che spesso covano sotto la cenere. Questo fa Dio con Mosè, risveglia i desideri sopiti, desta i sogni irrealizzati, accende la volontà di operare, di salire sul monte, di scalare la vetta, di muoversi verso qualcosa e di ricominciare ad avere una meta. Mosè ricomincia a vedere che vale la pena mettersi in cammino per assecondare il suo cuore, per soddisfare un sogno, per assecondare una bella curiosità. In questo cammino si spoglia – dice san Bonaventura che l’itinerario verso Dio inizia sempre come cammino del povero nel deserto – di quello che ha – dimentica le greggi che conduce e non se ne dà pensiero – mentre sul monte sarà chiamato a spogliarsi di quello che è, della vita che si è costruito, della sua estraneità ai fatti che riguardano il suo popolo. In lui brucia il desiderio di vedere, di rendersi conto, un desiderio non minore a quello di Dio di incontrarlo e di attrarlo, di sedurlo e di farsi conoscere da lui. Perché nelle nostre famiglie questi desideri santi non vengono fuori? Perché ci si disperde in tanti rivoli e non ci si dona quell’acqua che, unica, disseta l’arsura del cuore? Perché il fuoco del mio desiderio non incontra il desiderio dell’altro, la sua volontà di condivisione e di unità? Nulla frena Mosè e noi da cosa veniamo frenati dall’ascesa per raggiungere l’Altro e per donarsi all’altro? Come mai risulta così difficile entrare nel sacrario dell’interiorità della persona che si ama? Talvolta si è degli estranei, non ci si dona il cuore, si parla di mille cose, ma nelle parole non ci siamo noi. L’altro è un monte sacro su cui devo andare a piedi nudi perché la sua interiorità è terra santa, è il segno di Dio per me, vi rimango coprendomi il volto, perché la persona che amo non senta la vergogna per quanto deve comunicarmi. In quel luogo io ascolto come l’altro vuole essere aiutato e come io posso essere condotto verso la libertà.  

Quale monte serve agli sposi cristiani come luogo della condivisione e della gioia? Dove ci si rifugia per rivedere le tappe del proprio cammino e per fare il punto della propria vita insieme? Dove progettare in Dio e con Dio, nella potenza del suo amore, quel cammino di liberazione e di crescita da proporre ai figli? Sul monte Dio, come sul Tabor, mi rivela la sua identità: dove e quanto ascoltiamo Dio, godiamo del suo amore e ci accogliamo senza aver paura della vera identità l’uno dell’altro?

Accogliere la missione ricevuta da Dio

La terra dove il Signore mi manda come suo segno di liberazione di salvezza è la vita dell’altro e, proprio in quella terra, conquisto la libertà e divengo una creatura nuova. È questo il mistero della nostra vita, Dio mi libera mentre io, in suo nome, aiuto l’altro a superare le sue schiavitù, perché io devo vivere con la persona che mi è accanto la stessa dinamica di amore compassionevole che Dio vive con me. Come Mosè è la risposta al grido che il popolo ha rivolto al suo Dio, così io sono per la persona che amo il segno che il Signore ascolta ed interviene. Lo sposo dovrebbe dire guardano la sposa ciò che Adamo poté dire di Eva la prima volta, ovvero esprimere la gioia di vedere che Dio nella persona che gli è accanto esaudisce la sua richiesta e realizza il suo sogno. Una bella sfida da vivere in famiglia questa: lasciare che l’altro mi liberi in nome di Dio, aiutare l’altro nel suo cammino verso la libertà, scoprendo nella nostra famiglia che si cammina verso la terra promessa solo se l’amore, come il roveto ardente che Mosè contemplò sull’Oreb, brucia senza mai consumarsi.




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