II Domenica di Quaresima – Anno C - Trasfigurazione

Ogni arte si impara vedendo chi la pratica e rubandogli il mestiere

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di fra Vincenzo Ippolito

Amare è alzare il velo su ciò che altri non possono vedere e ai quali non si vuol far vedere, perché la carità che l’altro nutre per noi e del quale ci fidiamo “tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta” (1Cor 13,7).

Dal Vangelo secondo Luca (9,28b-36)
In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare. Mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante. Ed ecco, due uomini conversavano con lui: erano Mosè ed Elìa, apparsi nella gloria, e parlavano del suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme. Pietro e i suoi compagni erano oppressi dal sonno; ma, quando si svegliarono, videro la sua gloria e i due uomini che stavano con lui. Mentre questi si separavano da lui, Pietro disse a Gesù: «Maestro, è bello per noi essere qui. Facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elìa». Egli non sapeva quello che diceva.
Mentre parlava così, venne una nube e li coprì con la sua ombra. All’entrare nella nube, ebbero paura. E dalla nube uscì una voce, che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!». Appena la voce cessò, restò Gesù solo. Essi tacquero e in quei giorni non riferirono a nessuno ciò che avevano visto.  

 

 

Nella seconda tappa del nostro cammino quaresimale, la Chiesa ci invita a salire sul Tabor per contemplare la gloria del Figlio, “pieno di grazia e di verità” (Gv 1,14). Dopo la solitudine del deserto e la lotta contro il Tentatore, il monte della Trasfigurazione è il luogo della pace che ristora il cuore e lo prepara a riprendere la lotta, sino all’ultima e definitiva battaglia, quella della croce. Associati all’elezione di Pietro, Giovanni e Giacomo, ci lasciamo avvolgere della luce del Signore e lo preghiamo perché il sonno non ci colga, rendendoci incapaci di comprendere, ascoltare e vivere il mistero della Pasqua. Tutti dobbiamo salire il monte, come Mosè per incontrare Dio nel roveto (cf. Es 3,1-15) e ricevere il decalogo (cf. Es 20,1-22), come Elia per accogliere il progetto divino su Israele (cf. 1Re 19,9-18), come Gesù che nella preghiera rafforzi nella sua incondizionata obbedienza al Padre. Saliamo come famiglie e comunità perché la luce del Cristo illumini il nostro volto e ci renda partecipi del chiarore di Dio.

Nel cuore del ministero pubblico di Gesù

Il brano che la liturgia oggi ci offre è magistralmente incastonata nel capitolo nono, che conclude la narrazione del ministero di Gesù in Galilea (cf. Lc 4,14-9,50) ed introduce il racconto del cammino verso Gerusalemme (cf. Lc 9,51-19,27). Questo nella struttura generale del Vangelo, invece, nella dinamica interna del capitolo la pericope della Trasfigurazione segue la professione di fede di Pietro (cf. Lc 9,18-21), il primo annuncio della passione e le condizioni per la sequela (cf. Lc 9,22-24), mentre è seguita dal miracolo dell’epilettico (cf. Lc 9,37-43), dal secondo annuncio della passione (cf. Lc 9,43-45), dalla discussione su chi è il più grande e sulla potenza del nome di Gesù (cf. 9,49-50).

Il contesto, lo si comprende leggendo l’intero capitolo, è quello di una non chiara identità del Maestro da parte dei discepoli. È vero, lo stanno seguendo, ma non hanno ancora una consapevolezza di chi veramente Egli sia e, soprattutto, di cosa comporti seguirlo ed ascoltare la sua parola. Il loro cuore è ancora avvolto dall’incredulità, ma questo non impedisce a Gesù di perseguire in maniera risoluta la sua missione. Il contesto non lo determina nelle scelte da attuare, la poca fede dei suoi non lo scoraggia, la sete che hanno di tutto – in Lc 9,46 dimostrano di ambire alla gloria, ma non sarà questo l’unico caso, dal momento che alla vigilia della passione, poco dopo l’istituzione dell’Eucaristia (cf. Lc 22,24) ancora non saranno immuni da questa tentazione – non lo sfianca.

È bello fermarsi a guardare Gesù sempre all’altezza di ogni situazione, consapevole di ciò che gli altri si portano nel cuore, radicato nella volontà del Padre, proteso ad amare i suoi fino alla fine. Noi uomini, spesso per la nostra debolezza, siamo sbilanciati, o da un lato, viviamo la vita come una battaglia e procediamo, impavidi e decisi, senza guardarci intorno oppure, dall’altro, ci lasciamo così bloccare dalle situazioni e perdiamo la stella polare. Gesù, al contrario, guarda fissa la meta, fa in modo che nessuno si perda, raduna le pecore e va in cerca di quella perduta. Ecco perché Egli è il mediatore perfetto tra Dio e gli uomini, non separa, ma unisce, non divide, ma armonizza, non allontana, ma raccoglie. E questo senza perdere la sua identità, il suo essere Figlio, la responsabilità della sua missione. Ama i peccatori e rimane con loro, ma apostrofa senza mezze misure il peccato, mangia in casa di Zaccheo, ma non risparmia strali a chi ammassa ricchezze a scapito dei poveri; vive con i discepoli, sa che spesso non lo comprendono, ma non per questo si arrende dal pazientare, dall’amarli, dallo spronarli, spesso con determinazione e durezza, perché essi arrivino a rispondere, secondo le loro capacità, alla volontà del Padre.

Dobbiamo imparare a guardare a Gesù in ogni situazione per imparare da lui che “che è mite ed umile di cuore” (Mt 11,29) ad essere “semplici come colombe ed astuti come serpenti”. Quanto più dobbiamo fare questo come famiglie e nelle famiglie! Il contesto sociale e politico non aiuta e non difende il valore naturale dell’unione dell’uomo e della donna, ma questo non deve spingerci ad abbandonare la sfida e a gettare la spugna dell’impegno. Come Gesù dobbiamo donare misericordia sempre e con essa nutrire di verità le nostre relazioni. Amore senza verità ci spinge ad assecondare gli altri e a mercanteggiare i valori; verità senza carità vuol dire schiacciare i fratelli, divenendo dei giudici implacabili che non comprendono le situazioni reali di vita. Misericordia e verità è l’armonia che risplende in Gesù e che lo porta a non scandalizzarsi del male e a combattere il peccato, a riconciliare il peccatore, ammonendolo perché non smarrisca la strada del bene.

È in questo contesto, segnato da luce ed ombre, che si iscrive il mistero del Cristo trasfigurato.

Chiamati da Gesù alla comunione con Lui e tra noi

San Luca presenta la scena del Tabor in maniera scarna. È vero, i discepoli non sono perfetti, ma non per questo Gesù li scarta e non dona loro incalcolabili possibilità per entrare nella comprensione del suo mistero. Cristo chiama e vuole accanto a sé, nei momenti più significativi della sua vita quelli che il Padre ha designato. Avrebbe potuto scegliere delle persone più docili e perfette, sensibili ed intelligenti. Invece, Egli accoglie come dono del Padre i suoi discepoli – “erano tuoi, li hai dati a me”, dirà Gesù nella preghiera sacerdotale in Gv 17,6 – amandoli e usando loro quella misericordia che non conosce il limite del sette volte nel perdono, ma del settanta volte sette. Accogliere, amare ed usare misericordia sono le azioni che continuamente scandiscono la vita di Gesù e lo portano ad intervenire con parole e eventi che incidono nella vita delle persone che incontra, bisognose non del pane che perisce, ma di quello che dura per la vita eterna (cf. Gv 6), assetate dell’acqua vera che zampilla per sempre dal Cuore del Signore crocifisso.

Prima di salire sul Tabor, seguendo la narrazione dei Sinottici, contempliamo il mistero della elezione, dello sguardo ricco di amore che Gesù, come un giorno al giovane ricco, rivolge oggi a Pietro, Giovanni e Giacomo e con loro ed in loro a ciascuno di noi. Siamo eletti da Dio ad essere discepoli del suo Figlio, Egli ci ha chiamati a seguire Lui solo, il Signore ed il Maestro; il Padre “ci ha predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo” (Rm 8,29) per fare di noi “una stirpe eletta, un sacerdozio regale, una nazione santa, un popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere meravigliose di lui che vi ha chiamati dalle tenebre all’ammirabile sua luce” (1Pt 2,9). Dio ha scelto me insieme con altri per essere sua parte di eredità e suo popolo. Dio ha scelto me e la persona che mi è accanto per fare di noi in Lui una carne sola. È importante pensarsi davanti a Dio non come singoli, ma come corpo, corpo vivo con la persona che Dio mi ha donato, corpo vivente con le persone che formano la mia comunità religiosa e parrocchiale, il mio gruppo che mi aiuta ad incontrare Dio.

Dio ci sceglie e ci prende, mai da soli, sempre insieme agli altri. Riscoprire la valenza comunitaria della vocazione cristiana è oggi più che mai una sfida. La persona che mi è accanto non è la causa della mia santificazione, colui/colei che mi fa esercitare la pazienza e la sopportazione, per meritare il Paradiso, ma il dono di Dio – quanto poco gli sposi si considerano e confessano come dono di Dio l’uno per l’altro! – il segno del suo amore, della sua vigilanza e custodia perché di Dio l’altro/a è lo specchio, della sua tenerezza il segno, della sua cura la manifestazione concreta. Riconoscere nell’altro il dono del Padre è il segreto per vivere il mistero dell’essere in Cristo una carne sola. L’altro/a non me lo sono scelto, ma l’ho riconosciuto e per questo accolto come dono di Dio. Se riuscissimo ad entrare nella volontà divina di questa comunione che spinge il Padre a non fare mai nulla senza il Figlio e lo Spirito e che ci rende immagine e somiglianza sua nell’amore e nel dono! Dio ci prende insieme, mai da soli, Adamo con Eva, Abramo con Sara ed Isacco con Rebecca; Giuseppe con i suoi fratelli, Mosè con il popolo. Dio ci prende insieme e, se ci chiama da soli, lo fa perché, con la sua forza, poniamo la nostra vita al servizio della salvezza di una moltitudine sterminata, come nel caso di Gedeone. Vocazione personale e chiamata alla comunione non sono in antitesi, ma in complementarietà e nessuno meglio degli sposi è chiamato a vivere questo mistero e a testimoniarlo nella Chiesa perché risplenda tra gli uomini la bellezza dell’unità nella diversità che solo lo Spirito di Cristo realizza e costruisce come comunione.

Dio ci sceglie, ci prende e ci conduce con sé, lontano dagli altri, a contemplare la bellezza dell’amore vero, della donazione incondizionata, dell’obbedienza totale, dell’offerta gratuita. Non è forse questo il mistero del matrimonio come sacramento? Dio prende un uomo ed una donna e li conduce con sé a contemplare sull’altezza del Golgota la croce come talamo dell’amore, meta di perfezione, sorgente di donazione, segno di consegna per il bene dell’altro. L’amore – sembra dire Gesù – significa prendere l’altro e condurlo a comprendere chi veramente siamo e cosa desideriamo costruire nella vita. Amore vuol dire prendere l’altro così come è, piccole e debole, indifeso e limitato e aprirgli il proprio cuore, la mente, i sentimenti, rendendolo parte del mistero della propria interiorità. Amare è alzare il velo su ciò che altri non possono vedere e ai quali non si vuol far vedere, perché la carità che l’altro nutre per noi e del quale ci fidiamo “tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta” (1Cor 13,7). 

Salire sul monte a pregare 

È bello notare come Luca, nel testo, non dica che a salire siano in quattro, ma riferisce l’azione al singolare, come se fosse unicamente Gesù a scalare il monte per raggiungere la cima. I tre discepoli partecipano della grazia di Cristo, ma è Lui che sale, Lui che prega, Lui che cambia d’aspetto, Lui che discute con Mosè ed Elia del mistero della sua Pasqua. Salire sul monte è il segno della volontà di ritagliarsi del tempo per sé e per Dio. Luca, l’evangelista della preghiera, ci dona dei quadri straordinari del Maestro orante, tutto proteso a inabissare il suo cuore nel cuore amante del Padre. Il segreto della vita cristiana sta nel vivere associati a Gesù, uniti intimamente a Lui, pietra viva, per essere tempio della sua gloria. Il centro della nostra esperienza di fede è Gesù e Lui solo e quando vogliamo costruire la nostra esistenza su altro che noi sia Dio ed il suo Cristo sperimentiamo la dispersione, viviamo la confusione, crolliamo nella disillusione. Seguire Gesù ed Egli solo, nella solitudine del deserto come nella scalata del monte è il senso della quaresima. Seguirlo nella passione, seguirlo nell’umiliazione, seguirlo nel silenzio del Golgota. Si sale il Tabor per imparare da Gesù a pregare con Lui perché non machi la forza nella salita ancora più dura del Calvario. Per questo Gesù prega e vuole che i suoi si perdano nella contemplazione.

Quanto è necessario trovare del tempo per salire il monte con Gesù e lasciare che i nostri occhi si perdono in Lui! Salire vuol dire darsi tempo e dare tempo. Chi più di Gesù era indispensabile per le folle, eppure Lui riesce a salire il monte continuamente in ricerca del volto del Padre per accogliere la forza del suo amore per far compiere i suoi comandamenti. E noi sentiamo ancora la nostalgia della preghiera? Avvertiamo che ci manca qualcosa – meglio sarebbe dire Qualcuno! – quando a fine giornata non abbiamo trovato o voluto dedicare tempo alla nostra relazione con Dio? Sentiamo la mancanza di Dio nella nostra giornata, come del cibo quando non mangiamo, dell’acqua quando siamo assetati, di un abbraccio o di un bacio quando non godiamo come vorremmo della persona amata? Ci sono cristiani che fanno tutto – a questa categoria non sono esenti sacerdoti e consacrati! – tranne che pregare, divorati dall’attivismo come Marta, si giustificano dinanzi a se stessi credendosi giusti come il farisei per l’ineccepibilità del proprio comportamento. Senza la preghiera, il dialogo con Lui, non si focalizza la meta da raggiungere, non si chiariscono le modalità da attuare, non si verifica quanto è stato fatto per rispondere al meglio alle situazioni sempre cangianti della nostra vita. Gesù sale il monte perché ne ha bisogno e perché vuol insegnare ai discepoli a non considerare superfluo il tempo della preghiera e del dialogo con Dio.

Ci sono momenti in cui saliamo con Gesù sul monte? Come sposi e come famiglia viviamo dei tempi, pur brevi, ma egualmente intensi, per guardarci in Dio, per stare davanti a Lui, per vedere che Lui c’è, infonde in noi la forza, sprona il nostro coraggio, motiva il nostro impegno, anima la nostra mente a pensare vie nuove per realizzare il bene? 

Esiste nella nostra società un analfabetismo religioso che fa paura e che tocca le punte più alte proprio nella preghiera. È un’arte quella del dialogo con Dio che richiede tempo e pazienza, attesa fiduciosa e fede. Siamo sommersi da programmazioni pastorali, incontri organizzativi, corsi di preparazione, ma a bene vedere nelle nostre comunità manca la cura del silenzio, la docilità dell’ascolto, la delicatezza dell’evitare rumori quando ci si muove, senza disturbare l’altro che parla con Dio. Dobbiamo costruire oasi di silenzio orante, cenacoli di preghiera e di adorazione silenziosa, scuole della Parola dove non si apprende l’arte del parlare di Dio, ma dell’ascoltare Dio. Dobbiamo salire sul monte con Gesù e vedere Lui. Ogni arte si impara così, vedendo chi la pratica e rubandogli il mestiere. Anche noi dobbiamo rubare a Gesù l’arte del parlare con il Padre e di obbedire a Lui. 

La metamorfosi del dialogo

Diversamente dagli altri evangelisti, Luca non solo ci presenta la preghiera come motivo del salire di Gesù sul monte, ma, come aveva fatto in precedenza nel battesimo (cf. Lc 3,21), descrive Gesù in preghiera nel momento della sua trasfigurazione. Nel dialogo amoroso ed intimo con il Padre al Giordano, Gesù riceve il dono del Paraclito che lo unge per portare ai poveri un lieto messaggio, mentre la voce lo riconosce figlio amato, che trova compiacimento al cospetto di Dio; ora, sul monte, sempre nella preghiera, il Cristo vive la metamorfosi dell’amore. Non qualsiasi dialogo cambia l’uomo, nel cuore e nella mente sua, negli atteggiamenti e nei propositi – quante volte i dialoghi in famiglia sanno più di pretesa che di confronto, più di rimprovero che di chiarificazione! – perché l’interiorità non è cesellata a colpi di parola – a forza di parole, direbbe Gesù – ma dall’amore e dalla tenerezza, dagli sguardi e dai silenzi. Nella preghiera il Padre cambia l’aspetto del Figlio e lo rende più simile a sé nella sua umanità, come il Verbo è simile al Padre nella sua divinità, perché la grazia della preghiera conduce alla somiglianza, ovvero chi prega diviene carbone incandescente d’amore. Il dialogo con Dio trasforma l’uomo in una creatura nuova e più si parla con Lui, si obbedisce alla sua voce, si è docili alla sua parola e più si cambia dentro, nel profondo del proprio intimo. Il dialogo che cambia è solo quello che è plasmato dall’amore. Non è Gesù che cambia d’aspetto, ma è l’amore riversato nel suo cuore dal cuore del Padre che si manifesta così all’esterno in maniera visibile da partecipare tale luce di divina conoscenza, tale splendore di bellezza, candore di luminosità divina che persino le vesti ne sono inondate.

Se una persona prega con cuore sincero, il dialogo con Dio la trasforma, non in un giorno, neppure in un mese, ma nel tempo prolungato dell’amicizia e del tempo condiviso con amore, dedizione ed impegno. Noi crediamo di cambiare approfondendo e conoscendo di più del mistero di Dio e della Scrittura, della vita sacramentale e dei dogmi della Chiesa, ma la conoscenza è una considerevole ricchezza, ma non conduce alla sapienza, alla santità, alla vita evangelica. Questi sono doni gratuiti di Dio, elargiti dalla sua bontà e misericordia, mai il frutto del nostro sforzo, quanto, invece, della nostra collaborazione. A cambiarci è la preghiera come dialogo, la familiarità come intima unione con Dio, la parola che, sussurrata nel silenzio, parla al cuore che la accoglie come un piccolo seme capace, come il granello di senape, di divenire un grande albero.

Perché la preghiera non cambia il nostro cuore? Perché il tempo che restiamo davanti al Signore non ci trasforma? Siamo più interessati alle formule di preghiera oppure al cuore che parla ed accoglie, a ciò che si vuole ottenere o quanto desidera chiedere e costruire con noi e per noi? Forse preghiamo poco o preghiamo male o forse ancora parliamo troppo senza ascoltare Dio. La trasformazione della vita, invece, è un dono per Gesù e per noi, un dono del Padre che giunge quando c’è la docilità e l’abbondono, l’amore vero e la fede salda. Tra gli sposi il cambiamento nasce dal dialogo autentico, dallo scambio costruttivo, dalla volontà condivisa di costruire insieme il progetto affidato da Dio. Quanti dialoghi non trasformano il cuore, anzi lo induriscono, non fanno crescere la comunione in famiglia, ma il dubbio e la paura nei rapporti. In questo modo, pur senza far decrescere l’amore, si costruiscono muri e steccati, ci si difende perché la parola dell’altro/a ferisce, non la si accoglie come possibilità di vita. È importante accogliere la sfida del cambiamento attraverso il dialogo franco e leale. Nella coppia ed in famiglia è necessario creare spazi e tempi di confronto e di ascolto sincero, perché la parola è una pietra che tanto può costruire la propria relazione con l’altro, quanto muri di divisioni, anche se talvolta le parole sono simili a pietre perché vengono gettate contro l’altro ferendolo a morte. Ma perché è così difficile cambiare? Perché crediamo di perdere qualcosa abbandonando il nostri egoismo e aprendoci ad un modo diverso, maturo di amare? Possibile che non siamo mai disposti a lasciarci amare dall’altro/a, a non difenderci e a credere che colui/ colei che ci è accanto vuole e ricerca solo il nostro bene?

Il dialogo tra Gesù ed il Padre è sorgente di trasformazione nel cuore e nel corpo. Gli sposi cristiani devono testimoniare la portata della trasformazione nel cuore e nel corpo che solo le parole, plasmate dall’amore riescono a compiere nella vita dell’uomo. Sono loro, che hanno consacrato il loro vincolo nel crogiuolo del Cuore del Diletto crocifisso, che devono lasciare all’amore di plasmare le parole e alle parole di farsi ascoltare dell’altro perché ne abitino il cuore e ne lavorino l’animo. Abbiamo bisogno di parola intrise della carità di Dio perché non è la verità a cambiare la vita, ma la verità amore che non si impone come legge, ma si propone come dono da accogliere. I cristiani sono chiamati a testimoniare l’onnipotenza delle parole d’amore. Come il pane ed il vino sull’altare divengono Corpo e sangue del Signore, trasformati dalla potenza della divina parola che è amore tradotto in lettere, così le nostre parole, cesellate dal fuoco dello Spirito, sono capaci di trasformare la vita dell’altro che docilmente si affida a noi, sapendo che a noi interessa il solo suo bene. Solo così la grazia della trasformazione irradierà la nostra vita con la potenza dell’amore che discende da Dio. 

Uscire per vivere nella volontà di Dio 

Il quadro della Trasfigurazione è ricco di particolari. Tessere di questo mosaico sono, oltre la preghiera e le vesti candide del Maestro, l’apparire di Mosè ed Elia e il dialogo prolungato con loro sul mistero della Pasqua. È vero, gli Evangelisti non specificano bene la presenza delle figure più significative dell’Antico Testamento, ma sembra che il Maestro nella preghiera interroghi la Scrittura e che questa gli risponda attraverso le figure più eminenti del Primo Testamento. Gesù dialoga con la Scrittura come se fossero persone in carne ed ossa e parla del progetto del Padre, della sua volontà di salvare gli uomini con la passione e morte del suo Figlio Gesù. Luca utilizza un termino ricco di riferimenti biblici: Gesù, con Mosè ed Elia parla “del suo esodo che stava per compiersi a Gerusalemme” (v. 31). La vita è un esodo, un uscire dalle proprie sicurezze condotti solo dalla Parola del Signore, come Abramo. Vivere con Dio significa avere Lui solo come compagno e lasciare tutto perché nulla possa oscurare il primato della sua Presenza. Ascoltare ed obbedire alla sua voce comporta uscire da se stesi e dalle proprie false sicurezze per prendere il largo nel mare della storia e camminare, senza tentennamenti, sulla acque con il Maestro che ce lo comanda. Amare significa uscire. Dialogare significa uscire. È quello che fa un neonato quando nasce, esce dal grembo della propria mamma per vivere. Così anche noi, siamo chiamati ad uscire per crescere, se rimaniamo ancorati a noi stessi e alle situazioni della nostra vita, non matureremo mai. Ma uscire è un dono ed un rischio, dono come nel caso del popolo che esce dalla schiavitù dell’Egitto per il braccio teso e la mano potente del Signore, rischio perché è necessario vincersi, infatti la terra promessa impone un ritmo di cambiamenti che il deserto rende necessario se si desidera fare sul serio e giungere alla meta prefissa dal Signore.

L’impegno della quaresima: ascolto come obbedienza

Accanto alla figura di Gesù totalmente proteso a vivere nella forza del dialogo e dell’amore trasformante, Luca pone i tre discepoli eletti, Pietro, Giovani e Giacomo, modelli di un cammino claudicante dietro al Signore. In essi oggi siamo chiamati ad identificarci per il sonno che appesantisce il loro sguardo, per il nostro desiderio di fermare il mistero di Dio, incapaci di comprendere la portata della sua rivelazione nella nostra vita. In loro e con loro ascoltiamo la voce del Padre per noi: Gesù è il Figlio amato e c’è un solo imperativo per il discepolo, ascoltare Lui, ovvero obbedirgli perché solo nell’obbedienza docile troviamo la gioia e la pace vera. È questo il ritmo binario di questa domenica, guardare a Gesù per capire chi veramente Egli è, guardare i discepoli per divenire consapevoli delle proprie debolezze. Non è forse questo il cammino del popolo nel deserto (cf. Dt 8,1-5)? Non ci resta che perderci nella contemplazione della bellezza del Signore trasfigurato, pregandolo perché ci attiri a sé, rendendo la vita delle nostre famiglie oasi dove si sperimenta la trasformazione dell’amore che unica illumina la vita con i colori della gioia.




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