L'intervista

Susanna Tamaro: cresciuta in un famiglia atea, così ho trovato la fede…

di Giovanna Abbagnara

“Chi ha paura di passare attraverso il dolore, ha paura di vivere. Vive in un eterno presente, senza mai avere il lampo dello stupore, della gratitudine per quello che la vita potrebbe ancora riservargli”: con queste parole Susanna Tamaro risponde alla domanda sul senso del dolore contenuta in uno dei suoi libri più belli, Per sempre.

Saper scrivere significa avere un cuore pronto e occhi attenti per accorgersi del mistero che avvolge gli eventi della vita. Questa ricerca spesso è molto faticosa. Passa attraverso esperienze vissute, dolori laceranti, attese deluse fino a diventare un libro: uno spaccato dell’animo umano che invita il lettore a riflettere, a interrogarsi o semplicemente a contemplare la bellezza e il mistero della vita. È questa la prosa di Susanna Tamaro: un viaggio faticoso e realistico nelle profondità dell’uomo con uno stile pulito e un linguaggio semplice. In questa intervista rileggiamo insieme a lei le tappe del percorso della sua vita che l’hanno resa uno delle scrittrici più amate al mondo.

Si definisce una persona solitaria, lontana dal potere del successo. E difatti lei vive in modo austero, lontano dal chiasso. Quanto conta il silenzio nella vita di uno scrittore?

Il silenzio è alla base della conoscenza di se stessi. Non facendosi coinvolgere dal fragore e dal chiacchiericcio del mondo, ma conservando intatta la capacità di interrogarsi, di stupirsi e di riflettere, si riesce a mettere a fuoco meglio l’inquietudine che è alla base dell’ispirazione di ogni scrittore.

I suoi libri indagano nella profondità dell’animo umano. Mettono alla luce le contraddizioni ma anche il bisogno di una forte autenticità. Invitano a guardare la realtà a partire dal cuore. Quale significativa esperienza nella sua vita l’ha condotta a intraprendere questo viaggio?

Un’infanzia molto problematica e solitaria, soprattutto. Non c’è un’unica esperienza, ma un susseguirsi di attese deluse, di domande senza risposte, di amore filiale tradito. Un bambino ferito e pieno di domande è una fonte inesauribile di storie e riflessioni per un se stesso adulto, se ha la fortuna di avere il talento di scrivere.

Nel suo romanzo Per sempre, lei tratta il tema della riconciliazione di una persona ferita che passando attraverso la morte, guarisce perché accetta la sfida dell’Amore. Che peso ha un tale cammino nella vita di ogni uomo? Perché si ha paura oggi di passare attraverso il dolore?

Il dolore ci rivela a noi stessi. Senza dolore, raramente si riesce a crescere, a diventare esseri umani migliori, più consapevoli. Chi ha paura di passare attraverso il dolore, ha paura di vivere. Vive in un eterno presente, senza mai avere il lampo dello stupore, della gratitudine per quello che la vita potrebbe ancora riservargli. Viviamo ormai tutti in un eterno presente, intrattenuti da distrazioni virtuali, asserragliati nelle nostre piccole infelicità, per paura di affrontare quello che non conosciamo. Ma è proprio quel che non conosciamo che ci rivelerà a noi stessi, che porterà alla luce quella parte nascosta e sorprendente di noi capace di trasformarci da passivi fruitori dei giorni in attivi viandanti pieni di meraviglia, capaci di amare e di riconoscere nell’amore il significato più profondo della vita.

Ho letto in qualche intervista che lei ha voluto ricevere la prima comunione a tutti i costi. Perché? Cosa ricorda di quel momento?

Perché speravo che, con la comunione, avrei avuto una risposta alla domanda che mi assillava da sempre. Perché si nasce, se poi si deve morire? La mia famiglia non voleva che facessi la prima comunione, erano tutti ferocemente atei, tranne mio nonno. Ma io sentivo che in quella nuova dimensione, qualcosa si sarebbe aperto nella mia mente e nel mio cuore, che sarei entrata a far parte di qualcosa di misterioso e sacro che avrebbe placato un po’ le mie paure.

Che cosa significa per lei avere fede? Come si esprime il senso del mistero nella sua vita?

La fede, per me, è la massima espressione di libertà. Riconoscere il mistero che ci avvolge, essere grati alla vita che ci è stata data, alla bellezza che ci circonda, alla grande forza dell’amore, vuol dire vivere al massimo la nostra condizione di figli, di esseri umani sospesi tra due oscurità – quella dalla quale veniamo e quella verso la quale andiamo – e di dare un senso profondo al cammino della vita, che è prima di tutto un cammino di consapevolezza, di umiltà e di amore.

Spesso si è schierata a difesa della vita, contro l’aborto e l’eutanasia. Perché, in nome di chi o di cosa?

In nome della vita, che ci è stata data da Dio e che non sta a noi interrompere. Non si può affidare l’inizio e la fine a delle leggi. La vita è un dono straordinario, rinnegarla, spegnerla, per una malinterpretata visione di libertà individuale, vuol dire rinnegare la nostra stessa natura di esseri umani. Una creatura che viene al mondo, arriva quasi sempre per far cambiare qualcosa in chi l’ha generata. Non bisogna avere paura della vita, ci sorprende sempre. Per me l’eutanasia è l’anticamera della barbarie, perché vuole imporre un diritto alla morte per vie legali, quando, da sempre, nei casi più disperati l’uomo ha saputo, nel silenzio e con amore, accompagnare alla morte i propri cari, impedendo l’accanimento terapeutico, questo sì vero scandalo del nostro tempo.

Guardiamo alla famiglia di oggi. Non è quella da Mulino Bianco ma nemmeno il luogo dei delitti più efferati. È ancora una forza, una risorsa per la società. Ma come far passare questa certezza ai giovani?

I giovani vivono in un eterno presente ipercollegato, assordati da un intrattenimento tecnologico tossico e incapaci di fare progetti. La colpa, naturalmente non è loro, ma della società mediatica che li spinge ad essere dei compulsivi consumatori di emozioni e impauriti conoscitori del proprio cuore. Mancano gli esempi, sia in famiglia che nella classe dirigente o scolastica, che li spinga a comprendere che la crescita interna passa attraverso l’impegno, il confronto e la conoscenza dell’altro e l’accettazione dell’amore come dimensione primaria della vita. In questa società iperpermissiva, solo chi ha dei genitori uniti, amorevoli e responsabili riesce a capire l’importanza e la bellezza di creare una famiglia e a desiderarla. Ma per far questo bisognerebbe che i genitori riuscissero ad accettare prima di tutto la crescita dei propri figli, che smettessero di proteggerli e far durare la loro adolescenza fino alla soglia dei quarant’anni, per paura di perderli.

Nel suo saggio L’isola che c’è, lei affronta il tema educativo evidenziando che manca un riferimento ad un orizzonte più ampio e definitivo. I genitori non si impongono più e non suscitano più nei figli le domande sul senso della vita. Come uscire da questo empasse?

Non lo so. Come le dicevo, è tutta la società mediatica che incoraggia questo vivere giorno per giorno, in balia dei propri desideri e delle proprie pulsioni più basse. I genitori, il più delle volte, sfiancati dall’infelicità, dalle difficoltà e dalle loro stesse delusioni, più che suscitare domande sul senso della vita, preferiscono lasciare liberi i figli di fare le loro esperienze, sperando che una saggezza interna li porti poi da soli a comprendere i valori sui quali basare la loro vita. Sono solitudini che vivono sotto lo stesso tetto, più che famiglie. Per uscirne, bisognerebbe che tornasse nel mondo il desiderio di futuro, l’idea di vivere per diventare migliori e per migliorare il mondo che ci circonda.

Come sogna lei la Chiesa del Terzo Millennio?

Come una grande missione di amore diffusa su tutta la terra. Una Chiesa fatta di esempi di vita, di sobrietà, di dedizione e anche di responsabilità. Gesù venne a portare la spada sulla terra, a scuotere gli animi, non a blandirli con parole tranquillizzanti, prive di mordente. Il testo originale della messa preconciliare dice Agnus Dei qui tollit peccata a mundi. ‘Agnello di Dio che sopporti i peccati del mondo’. Tradurlo con ‘Agnello di Dio che togli i peccati dal mondo’, ha cambiato drasticamente il significato del messaggio cristiano. Nessuno può togliere i peccati, ma può farsene carico. Ecco vorrei una Chiesa che si facesse carico del dolore e dei peccati del mondo, una chiesa che ama prima di giudicare, una chiesa che riveli alle persone che solo andando in profondità del proprio cuore, ascoltando la voce dello Spirito, seguendo il Decalogo, possono diventare ve- ramente liberi. Liberi soprattutto dalla disperazione di una vita ‘a caso’.




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