II Domenica del T. O. – Anno C

Stanchezza e fallimenti avvelenano il matrimonio? Gesù può rinnovare l’amore

di fra Vincenzo Ippolito

Gesù può rinnovare il nostro amore, rivitalizzare i nostri rapporti, riaccendere il desiderio della comunione sognata all’inizio della vita insieme e poi accantonata per la stanchezza dei fallimenti. Abbiamo bisogno che il Signore ci rinnovi, che ci cambi, che trasformi l’inconsistenza dell’acqua nel gusto squisito del vino buono.

Dal Vangelo secondo Giovanni (2,1-11)

In quel tempo, vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli. Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno vino». E Gesù le rispose: «Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora». Sua madre disse ai servitori: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela». Vi erano là sei anfore di pietra per la purificazione rituale dei Giudei, contenenti ciascuna da ottanta a centoventi litri. E Gesù disse loro: «Riempite d’acqua le anfore»; e le riempirono fino all’orlo. Disse loro di nuovo: «Ora prendetene e portatene a colui che dirige il banchetto». Ed essi gliene portarono. Come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, colui che dirigeva il banchetto – il quale non sapeva da dove venisse, ma lo sapevano i servitori che avevano preso l’acqua – chiamò lo sposo e gli disse: «Tutti mettono in tavola il vino buono all’inizio e, quando si è già bevuto molto, quello meno buono. Tu invece hai tenuto da parte il vino buono finora». Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui.

 

Quest’anno la liturgia ci offre la grazia di iniziare il Tempo Ordinario – sarà di appena quattro domeniche, una breve parentesi prima della quaresima, in seguito un periodo più ampio, dopo la cinquantina pasquale – con una pagina del Vangelo secondo Giovanni che completa il ciclo delle manifestazioni del Signore, all’inizio della sua vita pubblica. Dopo l’adorazione dei Magi ed il battesimo al Giordano, le nozze di Cana, considerate nel quarta Vangelo “l’inizio dei segni compiuto da Gesù” (Gv 2,11), rappresentano la terza manifestazione del Signore, l’evento che dà principio alla graduale rivelazione della gloria di Cristo quale Figlio del Padre. Il nostro brano è spesso proclamato nella celebrazioni delle nozze, talvolta anche nelle memorie mariane. Per comprenderne in profondità il significato è necessario collocarlo nella struttura generale del Vangelo, utilizzando simboli e figure dell’Antico Testamento riprese dall’Evangelista per indicare in Cristo il Rivelatore del volto di Dio Padre (cf. Gv 1,18), lo Sposo che dona all’umanità il vino di quell’amore fedele che Egli solo può concedere in abbondanza.

Lo Spirito sia il nostro Maestro interiore, ci guidi nella terra santa della Scrittura dove, al pari di Mosè, incontriamo misteriosamente il roveto ardente del cuore di Dio che si dona quale sorgente di misericordia.

La relazione sorgente di identità personale

Con il brano odierno ci troviamo nella settimana inaugurale del ministero pubblico di Gesù. L’Evangelista, infatti, costruisce i suoi primi capitoli avendo dinanzi i racconti della creazione e presentando il Cristo, annunciato da Giovanni il Precursore (cf. Gv 1,19-34), quale Agnello di Dio, che chiama alcuni a seguirlo, facendo esperienza della sua stessa vita (cf. Gv 1,35-51).

Il sesto giorno – il settimo giorno, quella della resurrezione e della pienezza, giungerà solo con il mattino di Pasqua in Gv 20,1 – Giovanni narra un evento di cui, tra gli Evangelisti, è l’unico testimone. A Cana di Galilea, un piccolo villaggio a pochi chilometri da Nazaret, c’è una festa di nozze. La descrizione della scena è scarna e, tra le poche notizie che l’Evangelista presenta, quasi come introduzione, menziona la presenza della Madre di Gesù e, tra gli invitati, il Maestro con i suoi discepoli. Oltre al fatto che Madre e Figlio appaiano quasi divisi nella narrazione, desta stupore il fatto che Giovanni, come anche nella descrizione della scena del Golgota (cf. Gv 19,25-27), non usi il nome proprio della Vergine, Maria, ma preferisca definirla “la Madre di Gesù” (cf. Gv 2,1.3.5). Nel quarto Vangelo la Fanciulla di Nazaret è indicata sempre come madre, ovvero attraverso quella identità che deriva dalla relazione amorosa vissuta con il suo Figlio, un rapporto questo non di adozione, né di pura amicizia e neppure di semplice conoscenza, perché iscritto nella viva sua carne. Ella è Madre di Gesù. Il Figlio di Dio, fattosi in lei Figlio dell’uomo, ha determinato un cambiamento sostanziale e totale in lei. La Vergine non è più la stessa dopo aver generato il Verbo della vita perché è la maternità che da ora in avanti determinerà la sua identità e la qualificherà nella comunità cristiana delle origini.

La relazione è alla base dell’identità personale di ciascuno di noi. Nella relazione veniamo concepiti, nasciamo, cresciamo e diveniamo adulti e possiamo dirci maturi solo quando i nostri rapporti ci cambiano in bene, ci migliorano, determinano la nostra crescita, conducono allo sviluppo progressivo delle capacità che sono proprio del corpo, della mente e del cuore nostro. La relazione che il Verbo vive con la Vergine di Nazaret è così profonda che determina un cambiamento in entrambi: grazie a Maria, il Figlio unigenito del Padre “si converte” in Figlio dell’uomo e Maria sviluppa la sua femminilità in maternità, pur senza conoscere l’unione carnale con un uomo, come capita ad ogni donna, secondo le leggi della natura. La relazione è sorgente di conversione, ovvero di cambiamento, di vita nuova, di rivoluzione gioiosa, non per questo priva di difficoltà e di dolori. Maria dona carne a Dio e Questi offre possibilità che per una Fanciulla sarebbero impensabili, quali la maternità, l’educazione di un figlio, la sequela del Redentore dal suo stesso concepimento. Gesù dona nuova identità a Maria, ma anche Maria dona identità umana al Verbo, introducendolo nella scena di questo mondo. La relazione dona senso di appartenenza che non è appropriazione egoistica dell’altro, quanto piuttosto dono di ciò che l’altro è per me. Dire madre sta ad indicare non solo ciò che una donna è divenuta per il concepimento del proprio figlio, ma anche quello che ella desidera essere ogni giorno per colui che si è formato nel suo grembo. In questo sta la grandezza della Madre di Gesù ai piedi della croce: la sua relazione unica ed irripetibile con il Verbo del Padre, definita come maternità, viene dilatata a dismisura dallo stesso Figlio morente sulla croce così da accogliere il discepolo amato, conducendolo a scoprire nella consegna del suo Maestro e Signore l’unica strada per divenire con Lui, figli amati dal Padre. In tal modo la Madre di Gesù fa della propria maternità un dono che determina l’identità del discepolo amato che, dal momento della croce, può considerarsi figlio della Madre di Gesù.

Dalla relazione all’identità, dall’identità all’appartenenza. Come sono cristallini questi passaggi tra Il Figlio e la Vergine Madre, figlia del suo Figlio. Maria sa di appartenere a Gesù, come madre al figlio, così come il Cristo sa di appartenere alla madre. Esiste una reciprocità nelle relazione, una complementarietà nel rapporto, uno scambio che è sviluppo progressivo di vita nell’amore di Dio. Per Maria l’identità di madre che le deriva dalla relazione con il Figlio che è strutturante la sua persona e fondamentale per la sua vita. Ma tale reciproca relazione è soggetta al tempo, alla capacità di portare il passo con Dio, attuando la sua volontà che sta nel rendere i fratelli partecipi della ricchezza e della salvezza del Cristo Signore.

Se riuscissimo a comprendere meglio quanto la nostra identità dipenda dalle relazioni importanti della nostra storia. La consapevolezza di relazioni strutturanti e fondamentali, come quella tra marito e moglie, genitori e figli, è necessaria per vivere la bellezza dell’amore coniugale e familiare. Abituati come siamo ad essere chiamati per nome, perdiamo la relazione come radice di identità. Diverso, invece, quando usiamo i termini che si rifanno ai rapporti parentali propri della famiglia, marito e moglie, figlio e figlia, sorella e fratello. Non c’è nulla di più bello che sentire “Lei è mia moglie/mio marito!” o anche “Mio figlio …”. È necessario vivere con più consapevolezza il senso di appartenenza familiare, non si può, in nome della propria libertà che diviene spesso libertinaggio, non solo scindere la relazione fondamentale che determina l’identità strutturale della nostra vita, ma anche non darle il giusto senso e posto nella propria esistenza.

 

Il mistero del simbolo delle nozze di Cana

Il matrimonio, nella cultura ebraica, era un momento importunate della vita sociale, pur se non vi era un particolare rito religioso, secondo le poche testimonianze che abbiamo nell’Antico Testamento. Lo sposo, accompagnato dai suoi amici, si recava alla casa della sposa che, velata, era condotta in corteo, con amiche e compagne, tra canti di giubilo e d’amore, alla casa dello sposo, dove il rito vero e proprio era l’ingresso della ragazza nella nuova sua dimora. La festa poteva durare più giorni, spesso una intera settimana, ma anche due, secondo le possibilità della famiglia e veniva organizzato un banchetto, accompagnato da musiche e danze. Questo è quanto sappiamo degli usi del popolo eletto sulla base delle narrazioni anticotestamentarie. Ma Giovanni, dal canto suo, non dice nulla, perché non sembra particolarmente interessato alle tradizioni e ai rituali per la festa di matrimonio. Egli appunta semplicemente “ci fu una festa di nozze a Cana di Galilea” (Gv 2,1). Così facendo, egli preferisce guidare il lettore, senza distrarlo, ad un livello superiore di comprensione dell’evento delle nozze celebrate a Cana, mostrando come il vero senso della realtà sia proprio nel simbolo, come sempre accade nel quarto Vangelo. Per Giovanni, infatti, la realtà contiene un significato che sfugge agli occhi dei più ed è possibile percepirlo solo mediante la fede. Attraverso il simbolo, le immagini e le figure, per lo più desunte dalle Scritture antiche, l’Evangelista svela la verità delle creature e delle cose secondo Dio e conduce a ravvisare in Cristo la chiave di volta di ogni situazione umana.

Le nozze, in quanto realtà simbolica, sono il segno dell’alleanza che Dio stipula con il suo popolo. Nell’Antico Testamento, infatti, l’amore nuziale, il rapporto sponsale, il linguaggio amoroso, scandito anche dalla gelosia e dal rimprovero, è utilizzato, soprattutto nella letteratura profetica, per rendere plasticamente vivo il rapporto di intimità e di comunione che il Signore vuole nutrire ad ogni costo con il suo popolo. Difatti, Dio elegge Israele tra tutte le nazioni, lo ama di un affetto di predilezione, con lui stringe la sua alleanza al pari di uno sposo che ama, predilige, ricerca e si lega alla sua sposa. “Come un uomo sposa una vergine, così ti sposerà il tuo Creatore, come gioisco lo sposo per la sposa, così il tuo Dio gioirà per te” canta Isaia (62,5) – è il brano che la liturgia oggi ci dona come prima Lettura – mentre in Osea, Dio dà libero sfogo alla fedeltà dell’amore suo: “… farò per loro un’alleanza […]. Ti farò mia sposa per sempre” (2,19).

L’Antico Testamento annuncia ed in parte realizza la comunione di Dio con il suo popolo, ma, paragonata a quella che Dio stipula in Cristo, l’antica alleanza risulta solo una sbiadita figura. Gesù, Verbo incarnato, porta a compimento le promesse antiche e, realizzandone le figure, passa dai segni di una relazione promessa, alla sua attuazione. Dalle figure alla verità, dalla parola ai fatti, dai simboli alla realtà: è questo il passaggio che Giovanni mostra a Cana. È in Gesù che il desiderio del Dio dei padri, sposo geloso della sua donna, prende carne e viene vissuto in pienezza, nella dimensione umana assunta dal Verbo. È in Cristo che Dio vive la fedeltà e la definitività del suo amore per un popolo dalla dura cervice che, pur continuando a preferire le tenebre alla luce, è continuamente amato e prediletto tra i tanti. È nel Figlio di Maria che la sponsalità cantata dai profeti trova vivacità di passione e concretezza di offerta fino alla croce, che diviene il dolce talamo dove Cristo associa a sé la sua sposa e le dona la sua vita, segno inequivocabile di una amore che non si arresta dinanzi al rifiuto e all’infedeltà. Lo sposo per Giovanni è Gesù e Lui solo può esserlo. Ecco perché il Precursore (cf. Gv 3,28-30), si definisce “amico dello sposo” e sa bene che la sposa a Lui appartiene. Le nozze celebrate a Cana riguardano Dio che desidera unirsi al suo popolo per vivere con lui, attraverso il suo Figlio Gesù, la comunione nuova e definitiva, la nuova ed eterna alleanza. In tal modo la Madre di Gesù è simbolo e figura dell’umanità che riconosce il suo Sposo, che a Lui si rivolge e che attende il momento definitivo della sua rivelazione del suo amore. In questa chiave il testo giovanneo appare in tutto il suo splendore e promana la singolare bellezza dei tempi messianici della salvezza e della redenzione dell’umanità. A Cana, quindi, non è Cristo che, con sua Madre, partecipa ad una festa di nozze, ma è Lui lo sposo che vuol legarsi agli uomini. La Madre anticipa i tempi delle nozze perché da un lato spinge il Cristo a dare visibilità alla sua vera identità di sposo, mentre dall’altro, si mostra all’umanità come l’immagine della sposa che in tutto confida nello sposo e da lui attende la salvezza, la redenzione e la gioia.

Il sacramento del matrimonio, vissuto nell’amore tra un uomo e una donna, è simbolo e segno al tempo stesso. Segno vuol dire che richiama altro da sé, simbolo indica che ciò che esprime è già in sé. Può sembrare un bisticcio di parole, ma, pensandoci, è così. Un segnale stradale che indica una curva oppure un dosso, mostra, ma non contiene il dosso oppure la curva, ma la annuncia come prossima. Così è l’amore di un uomo e di una donna, è segno dell’amore di Cristo, lo richiama, lo indica, ne è uno specchio, vi tende con passione, ad esso si riferisce come a modello. Ma l’amore degli sposi, in quanto segno, è strutturalmente diverso dall’amore che Cristo nutre per la Chiesa sua sposa. Oltre che segno, l’amore nuziale è anche simbolo. Il simbolo contiene in sé ciò che esprime ed indica. Una rosa donata ad una persona cara, non solo mostra e rivela l’amore, ma in un certo senso lo contiene, lo manifesta e lo racchiude, al punto che, rifiutare una rosa vuol dire non accogliere l’amore. Il sacramento nuziale, oltre che richiamare la relazione sponsale di Cristo con l’umanità, la vive in sé perché “l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato” (Rm 5,5). Oltre ad essere segno e ad indicare l’amore totalmente altro rispetto all’affetto che il proprio cuore sente per la persona amata, il patto nuziale è, al tempo stesso, simbolo, ovvero gli sposi vivono, molto spesso senza averne profonda consapevolezza, la profondità dell’amore che lo Spirito costruisce, corrobora e dona. La grazia potenzia le facoltà naturali e rende l’amore dell’uomo e della donna partecipe di quello scandito dalla gratuità, dalla fedeltà e dall’offerta incondizionata, mai soggetta al tempo e alle mode passeggere che è proprio del cuore di Cristo Sposo.

Se il Signore ci concedesse di vivere il già e non ancora dell’amore sponsale di Cristo! Se volesse farci dono di essere coscienti che l’amore degli sposi è per essenza diverso da quello di Cristo – Gesù è una persona divina, differentemente da noi che siamo persone umane! – ma, al tempo stesso, facesse nascere in noi la certezza che in noi scorre il medesimo Spirito del Signore che è onnipotenza d’amore per essenza sua propria. Quale grande mistero è quello dell’amore nostro, o Signore, siamo creature tue e non in grado di paragonaci a te, di cui siamo unicamente immagine e somiglianza e, di pari tempo, siamo abitati da te, dalla tua natura, la Soffio del tuo Spirito che fa nuove tutte le cose in noi e tra noi. Il sapere di non essere come Gesù ci mantiene nell’umiltà e nella vigilanza su noi stessi, nell’evitare le occasioni e nella custodia delle propria strutturale debolezza. Però il dono di Grazia che Cristo infonde negli sposi è l’amore sostanziale di Dio, è Dio amore in loro, è amore che ama, dono che si effonde, grazia che si concede, tenerezza che si dona, amabilità che rallegra, pace che rasserena. Gli sposi – come tutti i battezzati – sono chiamati a lasciare che lo Spirito agisca in loro come Dio e Signore. Nell’uomo e nella donna, uniti nel vincolo santo del matrimonio, tale grazia di docilità al Paraclito non conosce confini di mente, di cuore e di carne, ma è incondizionata e gratuita signoria dell’amore di Dio in loro. A questa scuola i figli imparano l’amore e dalla vita dei propri genitori assorbono, pur senza saperlo, quanto sia bello lasciare a Dio il primato della propria esistenza. Le nostre comunità cristiane devono educare all’amore umano tra uomo e donna simbolo e segno dell’amore di Cristo, difendendo l’unione sacra tra l’uomo e la donna, senza mai mercanteggiare per rispetto umano o calcolo politico il patrimonio della fede che è poi confacente alla struttura naturale voluta da Dio per la famiglia umana.

 

L’acqua mutata in vino per la gioia dei commensali

La Madre di Gesù è l’unica che a Cana si accorge della difficile situazione che si è creata. Manca il vino, ma non va in panico, non si lascia prendere dall’ansia, non gira come una trottola per cercare una soluzione che non ha. Ella sa che lì c’è Gesù – se lo ricordassimo anche noi, facendo nostro l’annunzio gioiosa di Marta che, alla sorella in pianto, dice: “Il Maestro è qui e ti chiama!” (Gv 11,28) – c’è il Signore! Lo Sposo è con la Madre, anzi la Madre dello Sposo è accanto allo Sposo, il Figlio suo. Non sembra scomporsi, ma si rivolge verso di Lui con la fiducia incondizionata di chi sa che Egli non negherà il suo ausilio, poiché “grande presso di lui è la misericordia”. Non presume di indicare al Maestro di da farsi, ma gli presenta semplicemente la situazione di necessità. La Madre al pari del Precursore, non prende il posto dello Sposo, ma, da serva (cf. Lc 1,28), si abbandona alla fedeltà del Signore. “Non hanno vino!” (Gv 2,3) quasi a spingere il cuore del Figlio alla compassione, alla misericordia, alla cura amorevole verso gli uomini. “Non hanno” dice, ovvero “Mancano gli sposi ed i commensali, mancano i familiari ed i parenti, sì, essi non hanno il vino della gioia, il frutto della letizia, il motivo del canto. Essi non hanno, ma io ho te che sei il vino della mia gioia spillato dal mio seno, come da tino, nel quale lo Spirito ha fermentato nuova la vita. Io, benedetta tra tutte le donne, ho te che rallegri i miei giorni e sei la luce della mia vita, ho te che sei e sarai per sempre la ragione e la forza del mio canto, del mio eterno magnificare il Signore, mio Salvatore”.

Ed è qui più che altrove, in queste poche parole che la Madre di Gesù è Vergine orante, come lo sarà nel cenacolo con i discepoli in attesa del Consolatore promesso. Il segreto della sua preghiera è il suo tenere gli occhi fissi sul Figlio “come gli occhi dei servi alla mano della sua padrona, come gli occhi della schiava alla mano della sua signora, così i nostri occhi sono rivolti al signore nostro Dio perché abbia pietà di noi” (Sal 123,2). La Vergine Madre guarda il suo Figlio e diviene raggiante – guardate a lui e sarete raggianti (Sal 34,6a) – la paura è fugata – non saranno confusi i vostri volti (Sal 34,6b) – sa di essere ascoltata – questo povero grida e il Signore lo ascolta (Sal 34,7)– perché Dio libera coloro che gridano a Lui giorno e notte, non li farà aspettare lungamente (cf. Lc 18,7-8). Altro elemento della voce orante della Madre è la capacità di non pensare a sé, ma di vedere le necessità degli altri. Tale preghiera è priva di ogni interesse egoistico, perché nessuna chiave apre meglio dell’umiltà il cuore del Padre. A mancare è il vino, un elemento essenziale in una festa di nozze. Quando manca il frutto della vita ad un convito, manca la gioia, il motivo della letizia, la convivialità allegra e spensierata. Seguendo sempre la linea simbolica, il vino richiama l’amore tra gli sposi (cf. Ct 1,2; 7,10; 8,2). In queste nozze, che rappresentano l’antica alleanza, non esiste relazione di amore tra Dio ed il suo popolo, simboleggiata dal vino e la festa non ha motivo di essere celebrata. La Madre si rende conto che l’esistenza degli uomini è priva della luce e della vita del Verbo, che le tenebre si spandono dovunque, che gli uomini preferiscono l’errore alla verità. La Vergine si duole di questo e l’unica cosa che può fare ed in definitiva compie è far presa sul cuore misericordioso del suo Figlio.

Le parola di Cristo – “Donna che vuoi da me? non è ancora giunta la mia ora”, v. 4 – non fanno minimamente vacillare la fede della Madre che si rivolge ai servi per chiedere la loro obbedienza totale ed incondizionata. Quanto potente è la preghiera fatta con fede! È capace di smuovere le montagne, di sradicare alberi per trapiantarli nel mare. La fede rende l’uomo onnipotente, perché Dio si lascia vincere dall’amore della sua creatura che confida con tutta se stessa in Lui solo, accolto come unico Dio e Signore della propria vita. Si riempiono le giare di acqua e se ne mesce al maestro di tavola. Non è più acqua, ma vino delle migliori qualità, al punto che lo stupore è palese. Cristo cambia l’inconsistenza dell’acqua in vino, muta la tristezza in gioia, un matrimonio dove manca lo sposo in una vera festa di nozze. Il senso dell’incarnazione del Verbo è proprio questo: riempiere del vino della gioia di Dio il cuore dell’uomo che desidera, pur senza saperlo, la comunione vera e piena con Dio.  

Quale salto di fede Giovanni chiede di compiere a noi oggi! Gesù è già nella nostra vita, ma spesso è una potenzialità inespressa la grazia del suo Spirito. Tante volte siamo vecchi dentro, ci trasciniamo una vita che manca dell’ebbrezza del vino nuovo, dei colori della gioia, della letizia semplice e schietta del Vangelo dell’amore e dell’unità di una sola carne. Siamo otri vecchi incapaci di contenere la novità di Dio, giare di pietra irremovibili per riti che purificano i corpi, ma che lasciano freddo e chiuso il cuore. Gesù può rinnovare il nostro amore, rivitalizzare i nostri rapporti, riaccendere il desiderio della comunione sognata all’inizio della vita insieme e poi accantonata per la stanchezza dei fallimenti. Abbiamo bisogno che il Signore ci rinnovi, che ci cambi, che trasformi l’inconsistenza dell’acqua nel gusto squisito del vino buono. Ma come la Madre, dobbiamo chiederlo per noi e per le nostre comunità, per le nostre famiglie, perché non ci può essere festa di nozze senza lo Sposo che realizza l’ora dell’incontro e riempie i cuore di intima pienezza di gioia.

Nuzialità, alleanza ed amore sono i fili rossi che percorrono la vita pubblica del Signore per rincontrarsi sul Golgota, dove sul telaio della croce verranno tessuti insieme nel corpo di Gesù consegnato per amore. La gioia nasce solo quando l’amore incontra il dono. Anche lì, ai piedi della croce, ci sarà la Madre ad insegnare, come un giorno a Cana, a rivolgersi sempre al Signore per trovare in Lui vita e salvezza in abbondanza.

Le nostre famiglie camminino con gioia verso la croce e guardino verso Gesù per imparare da Lui a tessere l’amore perché la tela della propria vita insieme conosca i colori della gioia esigente del Vangelo.




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