II Domenica di Natale

L’amore che non diventa carne, non è vero amore

di fra Vincenzo Ippolito

Amare significa farsi carne perché l’amore è concretezza, visibilità, è carne. Sì l’amore è carne e non ha paura della fragilità, della miseria, perfino del peccato. Questa è la potenza della divina misericordia: l’amore capace di abitare lì dove l’uomo vive ribelle, lontano, escluso, avverso. Solo l’amore di Dio può far questo, solo la potenza della sua misericordia può assumere dell’altro tutto, senza rifiutare nulla.

Dal Vangelo di Giovanni (1,1-18)

In principio era il Verbo,
e il Verbo era presso Dio
e il Verbo era Dio.
Egli era, in principio, presso Dio:
tutto è stato fatto per mezzo di lui
e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste.
In lui era la vita
e la vita era la luce degli uomini;
la luce splende nelle tenebre
e le tenebre non l’hanno vinta.

Venne un uomo mandato da Dio:
il suo nome era Giovanni.
Egli venne come testimone
per dare testimonianza alla luce,
perché tutti credessero per mezzo di lui.
Non era lui la luce,
ma doveva dare testimonianza alla luce.

Veniva nel mondo la luce vera,
quella che illumina ogni uomo.
Era nel mondo
e il mondo è stato fatto per mezzo di lui;
eppure il mondo non lo ha riconosciuto.
Venne fra i suoi,
e i suoi non lo hanno accolto.
A quanti però lo hanno accolto
ha dato potere di diventare figli di Dio:
a quelli che credono nel suo nome,
i quali, non da sangue
né da volere di carne
né da volere di uomo,
ma da Dio sono stati generati.

E il Verbo si fece carne
e venne ad abitare in mezzo a noi;
e noi abbiamo contemplato la sua gloria,
gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre,
pieno di grazia e di verità.

Giovanni gli dà testimonianza e proclama:
«Era di lui che io dissi:
Colui che viene dopo di me
è avanti a me,
perché era prima di me».

Dalla sua pienezza
noi tutti abbiamo ricevuto:
grazia su grazia.  
Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè,
la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo.
Dio, nessuno lo ha mai visto:
il Figlio unigenito, che è Dio
ed è nel seno del Padre,
è lui che lo ha rivelato.

 

Il commento

La liturgia del Tempo di Natale, attraverso le diverse pagine evangeliche dei giorni festivi e feriali, ci offre la grazia di approfondire il mistero della nascita del Salvatore su due livelli. In primo luogo, infatti, siamo portati a fermare l’attenzione della mente e la gioiosa contemplazione del cuore all’evento accaduto nella povertà di Betlemme. In questo siamo aiutati dagli evangelisti Luca e Matteo, a noi più familiari per la capacità evocativa propria dei loro racconti che rendono plasticamente viva la scena descritta. Un secondo livello, poi, più profondo rispetto alla mera, pur se importante e fondamentale descrizione dell’evento – che non lo sostituisce, ma che, anzi si basa su di esso – è quello del significato del Natale. Le comunità cristiane delle origini non si chiedono solo cosa accadde quando il Figlio di Dio si fece figlio dell’uomo, ma cercano anche di investigarne il significato recondito. A questo secondo livello sembra riferirsi l’evangelista Giovanni. Ecco perché risulta inutile sfogliare il quarto Vangelo alla ricerca di Betlemme o dei Re Magi, dei pastori o anche del viaggio di Maria e Giuseppe fino alla borgata di Giudea per il censimento voluto dall’imperatore romano. Tutto questo è un dato risaputo, parte integrante della tradizione di fede delle comunità. Per questo san Giovanni conduce i lettori su una strada più ardua – dall’evento al significato profondo dell’evento – con un linguaggio in parte desunto dall’Antico Testamento che lo rende quel fine teologo, profondo conoscitore e rivelatore del mistero del Verbo incarnato, come la Chiesa lo ha da sempre considerato.

Dall’evento al suo significato è questo il salto da fare in questa seconda Domenica di Natale, un balzo semplice per chi, avvinto dallo Spirito, si lascia condurre dalla sua dolce brezza.

Una teologia dall’alto

Se Luca e Matteo – discorso a parte riguarda invece Marco, che non presenta accenni alla nascita e all’infanzia di Gesù Cristo, preferendo iniziare il suo Vangelo dalla predicazione del Battista – descrivono l’incarnazione dal basso, ovvero da come la storia di Maria e di Giuseppe, dei pastori e dei Magi sia stata rischiarata dalla venuta del Redentore promesso, san Giovanni, invece, nella struttura del suo Vangelo tiene fisso lo sguardo sul mistero di Dio, prima che il mondo fosse, oltre che prima della venuta del suo Figlio nella carne. È per questo che si preferisce parlare con il quarto Vangelo di una teologia dall’alto, ovvero che parte da Dio e dal suo desiderio di rivelare la sua grazia per l’umanità. Si comprende così il simbolo con il quale si indica solitamente il figlio di Zebedeo, l’aquila, unico animale capace di fissare il sole. Questi è Giovanni: il discepolo che tiene fisso lo sguardo sul mistero di Dio e comprende in Gesù Cristo la sua piena e definitiva rivelazione. Naturalmente identica è la finalità che Luca, Matteo come anche Giovanni desiderano raggiungere: chiarire la salvezza che raggiunge gratuitamente gli uomini mediante Gesù Cristo, Dio fatto carne. Nondimeno però la strada che Giovanni batte a noi sembra tutt’altro che agevole perché, abituati, direbbe san Paolo, al puro latte spirituale, ci appare difficile nutrirci con il cibo della solida dottrina.

È necessario nel cammino della nostra crescita spirituale tenere fisso lo sguardo su Gesù Cristo, tenere a mente il suo amore, vivere della sua misericordia, inebriarsi della contemplazione dei misteri della vita del Verbo fatto uomo. Mai deve cadere dalla mente e dal cuore nostro Gesù, il suo amore infinito, la sua accondiscendenza, l’umiltà e l’abnegazione sua, il suo lasciare il seno del Padre per obbedire alla volontà e realizzare il disegno di salvezza degli uomini. Essere come le aquile e lasciare che Dio sia la nostra aquila. È una delle immagini più tenere dell’Antico Testamento. “Come un’aquila veglia la sua nidiata” così il Signore ci custodisce perché “come un’aquila vi ho portati fino a me”. Non dobbiamo mai stancarci di tenere fisso lo sguardo, come Giovanni, sul cuore di Dio per imparare il segreto dell’umiltà che entra nella storia degli uomini per donare refrigerio e pace. È questo che l’Evangelista sembra indicarci dalla struttura generale del Vangelo secondo Giovanni. Si tratta, infatti, di ventuno capitoli, introdotti da un prologo – così è definita l’overture del quarto Vangelo che la liturgia oggi ci offre – dove, con un linguaggio particolare e per noi inusuale, si presenta il mistero del Verbo incarnato, radicato in Dio e proteso a donare grazia su grazia (cf. v. 17) agli uomini. Diciotto sono i versetti che lo compongono, cesellati dalla penne dell’Autore divino, lo Spirito Santo, e dall’autore umano, san Giovanni, dove è necessario immergersi nella Scrittura, nel linguaggio antico, nelle figure di un tempo, per compiere questa meravigliosa scalata fino a Dio che scende verso l’uomo e raggiunge le tenebre della nostra storia per illuminarla dall’interno con i chiarori del suo amore.

Dio, un mistero nascosto che si rivela

Se non è semplice entrare nel linguaggio del Prologo giovanneo, neppure dobbiamo credere che sia impossibile comprendere quanto l’Apostolo ed Evangelista ci offre perché siamo sorretti dalla grazia dello Spirito ogni qual volta ci mettiamo in docile ascolto della Scrittura.

Prima di tutto notiamo che il linguaggio non è quello dei Vangeli Sinottici. Non si tratta, infatti, della narrazione di un miracolo operato dal Maestro e neppure della trasmissione, mediata dalla tradizione orale della comunità, dell’insegnamento del Rabbì di Nazaret. Giovanni si propone, infatti, di ritornare al principio (v. 1), ripercorrendo le tappe del desiderio divino di effondere la grazia della sua misericordia in Gesù Cristo per rendere suoi figli gli uomini dispersi dal mistero delle tenebre. Il termine principio ci riporta direttamente a Genesi (1,1), ma qui non si tratta dell’inizio della creazione, come nel primo libro della Scrittura, perché siamo proiettati nell’eternità di Dio, in una dimensione atemporale. Risulta necessario, sembra affermare Giovanni, andare al principio di tutte le cose e tale inizio è da ravvisare nella mente di Dio, nel desiderio di felicità e di gioia che Egli da sempre ha pensato per ogni uomo. Noi siamo stati pensati e desiderati, amati, sognati e voluti da Dio nel mistero della sua eternità, nasciamo nel tempo, ma nella mente di Dio siamo presenti da sempre come suo desiderio, viviamo nella storia, ma in realtà abbiamo una radice nel cuore di Dio. È Lui e Lui solo il nostro principio. In questa chiave tutta la nostra esistenza è sotto la potenza della volontà amorosa di Dio. Io non esisto per caso, né le persone che mi sono accanto sono frutto di un destino implacabile che determina la storia e detiene, in maniera irrazionale, le sorti della vita degli uomini. Noi abbiamo una meta – Dio ed il suo cuore di Padre, ricco di misericordia – come abbiamo anche un principio, l’eternità di Dio e il suo desiderio di averci collaboratori nel suo disegno universale di salvezza. Dona gioia pensare a se stessi e alla propria storia familiare sotto la volontà del Padre. Io e la mia famiglia, la donna che è mia carne, i figli nati dal nostro amore erano da sempre presenti nella mente amorosa, nella volontà misericordiosa di Dio. Sono nato nel tempo, ma sono stato pensato ed amato da Dio dall’eternità. Quando io ancora non lo conoscevo, quando ancora dovevano essere formate le mie viscere, possiamo dire con le parole del salmo 138, Dio mi conosceva, Lui che scruta e conosce da sempre ogni suo figlio. Di questo amore preveniente la famiglia è il segno, ovvero l’amore scambievole degli sposi è il riflesso nel tempo della volontà di Dio che si traduce in vita comunicata nella gioia. Radice della nostra vocazione è il cuore di Dio, siamo stati trapiantati – è un’immagine cara a s. Teresa di Gesù Bambino che diceva di essere un piccolo fiore preso dalla sua famiglia e trapiantato sul monte del Carmelo – interrati nel mondo dove teniamo inconsapevolmente in noi l’anelito del seno del Padre, della sua volontà operosa, del suo pensare a noi da sempre e per sempre.

Nell’eternità di Dio c’è il Verbo. Questa espressione fa quasi tremare, si avverte lo smarrimento e già alle prime battute siamo presi dal desiderio, frutto della paura, di lasciare la scalata e di abbandonare le alte cime del Prologo. Dobbiamo, invece, continuare nella lettura della Scrittura, condotti dallo Spirito che della Scrittura è l’Autore, così come è necessario continuare nel cammino della vita sempre. Il Verbo che era al principio presso Dio e che è Dio Egli stesso è il Progetto del Padre, il disegno di Dio sull’uomo e sul mondo. La matrice dell’antico Testamento la troviamo nel libro del Siracide, di cui leggiamo un brano nella liturgia odierna come prima Lettura. Il termine Verbo – in greco logos – indica proprio il disegno sapiente – di qui l’identificazione del Verbo con la Sapienza divina di Sir 24 – che presiede alla creazione del mondo. Dio Padre ha nel cuore e nella mente sua un progetto e questo è il suo Figlio eterno con Lui. Il Verbo vive in Dio, è a Lui rivolto ed è Dio Egli stesso. Nulla è creato a caso, tutto ciò che Dio opera è preparato da una determinazione – si pensi in Gen 1,24 “Facciamo l’uomo a nostra immagine e a nostra somiglianza” – da un desiderio, da un pensiero fisso. Tutte le cose che sono presenti nel mondo sono state create secondo questo progetto del Padre ed in vista di questo disegno prestabilito da Lui prima della fondazione del mondo. Non solo tutto è stato pensato e voluto da Dio, ma ogni realtà creata ha un modello che è il Figlio unigenito, colui che è nel seno del Padre (cf. v. 18). Siamo abituati alla figura dell’ingegnere. Questi, con la sua riflessione ed il suo ingegno, riesce ad ideare un progetto che è suo perché egli ne è l’autore, ma è qualcosa di esterno a lui, pur se trae dalla sua mente consistenza e realtà di vita. In Dio, invece, il progettista ed il progetto sono la stessa realtà, ovvero Dio stesso. Egli non pensa qualcosa al di fuori di sé perché al di fuori di Dio non solo nulla può esistere, ma nulla può esistere di veramente bello. Il Signore è il progettista, il progetto e anche colui che realizza il progetto. Ecco perché “tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di tutto ciò che esiste” (v. 2).

Può sembrare una realtà così distante da noi, ma la dinamica che si vive nell’amore coniugale è lo stesso. Un uomo e una donna nell’amore hanno un disegno di gioia che non è altro rispetto alla loro vita, ma, anzi, della loro vita rappresenta il pieno sviluppo. I figli poi di questo disegno di gioia condiviso e perseguito sono la concretizzazione storica ed i genitori al tempo stesso, hanno pensato, desiderato e hanno offerto la loro stessa carne da veri autori per eseguire il progetto reso vivo nella carne dei figli. Dobbiamo imparare da Dio a pensare progetti che non sono studiati a tavolino, ma che hanno di noi tutto. Pensare la vita in questo modo ci rende veramente artefici della nostra storia e, al pari di Dio, costruttori di un mondo nuovo. In Dio pensare ed operare sono una identica azione, anche se noi la percepiamo e descriviamo come due atti diversi – il movimento è nel tempo, non nell’eternità! – e sono di un unico Attore, Dio. Questo dice responsabilità. Dio non delega nella creazione, ma Egli stesso è artefice di storia, entra nella complessa realtà umana dall’inizio come il vasaio che plasma la creta e le dona consistenza di vita, forma specifica, differenza di fisionomia. I nostri progetti troppo spesso sono parole, ma del Verbo di Dio sembrano essere un sbiadita realtà. Quando Dio parla, progetta vita, disegna spazi, pensa gioia, crea bellezza. Le nostre parole, pur avendo la stessa capacità di plasmare, distruggono, non creano; separano, non uniscono; svuotano, non riempiono di vita. È necessario progettare la vita, pensarla in bene, sognarla in meglio, operare perché della divina bellezza ne sia lo specchio. La parola d’amore che gli sposi si scambiano è il disegno da realizzare con determinazione, da tradurre con impegno, da perseguire con abnegazione continua.

Dal pensare all’agire, dal dire al fare, dal disegnare al realizzare: questo fa Dio, non addossando agli altri responsabilità o incombenze, ma mettendo le sue mani nell’opera della creazione (i padri della Chiesa dicono che il Padre, nel creare, utilizza due mani, il Figlio e lo Spirito Santo). In famiglia il diritto di delega non esiste, perché la famiglia è il luogo naturale dove le parole divengono fatti e dove si viene educati, mossi dalla grazia del sacramento, all’acquisizione della proprie responsabilità. Quante volte i figli sono un progetto la cui realizzazione si delega ad altri! Quante volte, nella vita coniugale, si vive senza modelli, senza mordente, non c’è il coraggio di osare parole nuove e di rottura con mentalità di morte, regna l’apatia del “non c’è nulla da fare” oppure del “si è sempre fatto così”. La famiglia è la fucina dove si progetta continuamente la vita nuova e della vita si cercano sempre nuove forme di espressione. La famiglia è il laboratorio della responsabilità, dove si matura facendo le cose, sporcandosi le mani. Senza un progetto chiaro non si procede, come anche senza un ferrea volontà di perseguire insieme il progetto insieme pensato, si costruisce sulla sabbia, non sulla salda roccia che è Cristo.

Nel cuore del mistero dell’Incarnazione

Cuore del Prologo è il v. 14 “Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi”. È la frase che meglio descrive il senso dell’evento che Luca e Matteo trasmettono nella loro concretezza. San Paolo, al pari di Giovanni, parlerà dell’Incarnazione mettendo l’accento sul significato – l’evento era ben noto alle sue comunità – e indicherà nella povertà assunta dal Cristo la via del nostro arricchimento (cf. 2Cor 8,9), come anche nell’adozione filiale il fine della nascita del Figlio da donna, sotto la legge (cf. Gal 4,4). L’aquila che è l’evangelista Giovanni, a questo punto, fa una stupenda discesa in picchiata che segue quella del Verbo. Dio che abita una luce inaccessibile, totalmente altro rispetto all’uomo, si fa uomo Egli stesso ed assume, dice san Francesco d’Assisi “la vera carne della nostra umanità e fragilità”. Si tratta di termini antitetici che coesistono nel versetto, traduzione letteraria della realtà storica: il Verbo si fa carne – come non stupirsi dinanzi a questo straordinario scambio tra il divino e l’umano! – Egli, che è Dio, pone la sua dimora tra gli uomini – come non commuoversi dinanzi ad una bontà così eccelsa! – scegliendo per sé la carne dell’uomo che Egli aveva pensato, voluto, amato e creato. Giovanni, in maniera icastica, descrive così l’irrompere dell’Eterno nel tempo, dell’Immortale nel creaturale, della Potenza nella debolezza, della grazia nel peccato, della misericordia nell’errore, del perdono nella valle della desolazione. Il Verbo, in sé non soggetto al tempo, sceglie per sé – scelse per sé insieme con la beatissima Vergine sua Madre la povertà, scrive sempre Francesco d’Assisi – il divenire. Dio, non soggetto al movimento proprio della storia umana, “si fa”, entra nella temporalità e nel flusso caotico del nostro incedere. Questo è l’amore, farsi altro da sé, divenire ciò che l’amato è, perché riprenda le fattezze dell’amore che ha perso, della bellezza che ha smarrito, della gioia che ha rifiutato. L’amore è tale da sempre in Dio, ma sceglie di divenire concreto e visibile all’uomo perché la creatura lo riconosca, lo contempli, ne ami la bontà, si compiaccia della volontà di raggiungerlo. L’amore di Dio diviene la carne, il corpo dell’uomo Gesù di Nazaret, una carne non propria, ma accolta come dono, presa con umiltà dalla carne di Maria. C’è da impazzire dinanzi al mistero della carne, della debolezza, della mortalità assunta dal Verbo eterno!

O divino annichilimento! O mistero dell’umiltà dell’Eterno che sconfina nell’umiliazione accolta con gioia. Il Verbo prende la mia carne – può dire ogni uomo al suo Dio! – non disprezza il mio corpo, si lascia contenere nel grembo di una Creatura, diviene pienezza di umanità tra le braccia di una Vergine. Carne, il Verbo diviene carne. Questa carne che è la causa del mio scandalo, lo specchio che ricorda il mio limite, il peso della mia caducità, la catena che mi stringe imbrigliato alle mie passioni, sì, questa carne è assunta dal Verbo. Io non la voglio perché mi è di obbrobrio, e Tu la prendi, io, se potessi, la getterei alle ortiche e Tu te ne rivesti.  La carne, la mortalità, la debolezza, il limite, la fragilità, in quell’impeto di potenza che sempre divora l’uomo, le muterei in forza, potere, e Tu, o mio Dio, assumi ciò che io non accolgo del mio essere, quanto, pur se dono tuo, io rifiuto. La mia carne diviene la tua, le fibre del mio essere che furono da te formate perché se tu non le avessi plasmate io non sarei, divengono tue, da me le prendi per restituirle a me non più ribelli al Padre a al suo amore. Divieni carne, ciò che per me è una necessità del mio essere, in Te è l’esigenza dell’amore che è il tuo essere Dio. “Il Verbo si fece carne”. Fragile, mortale, debole, tu sei Dio e sei forte, potente ed immortale, ma sei uomo e, rivestito di ciò che rende me ciò che sono, sei creatura fragile e soggetta alla stanchezza e – ahimè! – alla morte. Come fa la carne da Maria presa a non esserti di peso? Come non sentirla ribelle, nemica, contraria, avversa? È l’amore che il Padre riversa nella tua carne a riconciliarla, a renderla docile alla grazia, pronta all’obbedienza, disponibile alla voce sua. Più ci penso, o Verbo che dell’amore sei per me il rivelatore nella carne da me presa, sì, più ci penso e più mi perdo in questo abisso di carità sconfinata che ti rende per me, nella mia carne, oceano di misericordia. Abbracci la mia umanità, la mia debolezza, il mio limite, la fragilità mia e la chiami sorella, sì sorella debolezza, sorella fragilità e non ne senti lo scandalo perché l’amore, lo Spirito amore che rese per l’uomo concreto l’amore tuo eterno, interiormente ti ripete e ricorda la parola d’amore del Padre per te che sei l’Amato, il Diletto, il Figlio unigenito. Da Dio ti fai uomo perché anch’io divenga libero nell’accogliere l’amore, nel vivere da figlio senza i legami della colpa antica, portando ai fratelli nella mia carne, come in un vaso di creta, la potenza tua, perché Tu abiti la mia fragilità e te ne servi misteriosamente perché appaia che questa forza straordinaria viene da Te e mai da noi.

Il mistero dell’abbassamento

L’amore che non diventa carne, non è vero amore, come un “Ti amo” che non si traduce nella carne viva di un figlio concepito nella gioia e partorito nel dolore, è portato via, come le foglie d’autunno spazzate dal vento. Amare significa farsi carne perché l’amore è concretezza, visibilità, è carne. Sì l’amore è carne e non ha paura della fragilità, della miseria, perfino del peccato. Questa è la potenza della divina misericordia: l’amore capace di abitare lì dove l’uomo vive ribelle, lontano, escluso, avverso. Solo l’amore di Dio può far questo, solo la potenza della sua misericordia può assumere dell’altro tutto, senza rifiutare nulla. Se riuscissimo dell’altro ad amare tutto, ad accoglierlo in totalità, senza rifiutarlo, giudicarlo, allontanarlo, proprio come fa Gesù, il Verbo eterno!

Dobbiamo imparare ad amare questa nostra carne e a riconciliarci con questo nostro corpo – frate corpo lo chiamava san Francesco, più spesso frate asino! – ad amarlo come tempio dello Spirito di Dio, legame condiviso con il nostro fratello Gesù che da Maria ricevette la nostra carne. Amare la propria carne ed amare la carne dell’altro/a come tempio di Dio, custodire l’altrui fragilità, accoglierne la debolezza è il segno che viviamo in noi la dinamica dell’Incarnazione e rendiamo concreto l’amore che il Signore accende nei nostri fragili cuori.

È proprio dell’amore poi porre la tenda, entrare nella vita dell’amato, abitare i suoi spazi senza invaderli, donarsi come presenza discreta nella gioia di esserci sempre. La seconda parte del versetto 14 – mise la tenda in mezzo a noi – sembra che chiarisca la prima– il Verbo si fece carne – in una sorta di parallelismo. Farsi carne significa mettere la tenda, come nel grembo di una donna l’amore dell’altro si fa carne, annidandosi, ponendo la tenda della propria storia, la dimora della propria vita, il cominciamento di una nuova avventura. La tenda del Verbo è nella storia, “in mezzo a noi”. Stare in mezzo non è per il Verbo segno del desiderio suo di imporsi, ma di donarsi. “Io sono in mezzo a voi come colui che serve”. Gesù è al centro come il servo, lo schiavo, che dona la sua vita in riscatto per molti. Il mistero dell’Incarnazione è nell’amore che si umilia, nella carità che raggiunge l’amato, nell’abbassamento pesato, desiderato, attuato perché l’uomo abbia la vita e l’abbia in abbondanza.

Il Verbo, luce e vita di Dio, effonda su di noi la sua grazia e ci spinga a vivere in Lui, di Lui e con Lui il mistero della nostra storia, luogo dell’incontro con Lui e tra noi!




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