XXXII Domenica del T. O. – B
Amare con totalità, senza se e senza ma
di fra Vincenzo Ippolito
La radice dell’offerta della vedova nel vangelo di questa domenica sta nella sua fede, mentre dona per gli altri, sa che Dio penserà a lei, nel tesoro mette pochi spiccioli, ma nel cuore del Padre getta tutta la sua vita.
Dal Vangelo secondo Marco (12, 38-44)
In quel tempo, Gesù nel tempio diceva alla folla nel suo insegnamento: «Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti. Divorano le case delle vedove e pregano a lungo per farsi vedere. Essi riceveranno una condanna più severa».
Seduto di fronte al tesoro, osservava come la folla vi gettava monete. Tanti ricchi ne gettavano molte. Ma, venuta una vedova povera, vi gettò due monetine, che fanno un soldo.
Allora, chiamati a sé i suoi discepoli, disse loro: «In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere».
Siamo a Gerusalemme. Gesù ha fatto il suo ingresso trionfale nella città santa (cf. Mc 11,1-11) e sta vivendo gli ultimi giorni della sua vita terrena. Gli eventi di questa settimana, che noi siamo soliti definire santa, coprono più di un terzo dell’intero Vangelo (sei capitoli su sedici!), mostrando quanto sia nevralgico il mistero pasquale nella predicazione della Chiesa primitiva. Mentre i capi dei sacerdoti e gli scribi cercano il modo di farlo morire (cf. Mc 11,18), Gesù continua la sua missione, anche con gesti di forte rottura nei riguardi delle istituzioni giudaiche – si pensi alla cacciata dei venditori dal tempio in Mc 11,15-19 – pur prevedendo la sua prossima fine. E proprio il tempio è il luogo in cui è ambientata la narrazione odierna, pochi versetti, appena sei, che mostrano quanto sia importante non fermarsi alla scorza, ma andare al midollo in tutte le cose.
Se unico è il luogo dell’azione – v. 35 “insegnava nel tempio”; v. 41 “Seduto di fronte al tesoro [del tempio]” – diverse sono le scene. Nei versetti 38-40 Gesù insegna, puntando il dito contro gli scribi che vivono di apparenza, mentre nei versetti 41-44, una povera vedova diviene modello di fede e di totale abbandono nella mani provvidenti di Dio. Si tratta di due strade che ogni cristiano ha dinanzi nelle concrete scelte della vita: seguire gli scribi o fare proprio il cuore della vedova; essere come il Nemico, menzogniero fin dal principio, oppure pronti al dono, come Gesù.
Smascherare l’apparenza e fuggire la superficialità
Spesso i Vangeli presentano le dispute di Gesù con i suoi avversari, ma queste divengono ancor più accese a ridosso della sua ultima Pasqua: i farisei e gli erodiani si presentano a Lui per coglierlo in fallo (cf. Mc 12,13-17), i sadducei lo interrogano sulla resurrezione nella quale non credono (cf. Mc 12,18-27), gli scribi cercano di vedere dove la sua dottrina si discosti da quella dei padri (cf. Mc 12,28-34). La trama dell’intrigo è ben tesa, ma questo non impedisce a Gesù di parlare con quella franchezza – parresía – con la quale san Luca negli Atti degli Apostoli presenterà la parola franca e coraggiosa dei primi testimoni della fede. Non solo il Cristo non ha paura di parlare con chiarezza, ma neppure di apostrofare le falde dell’insegnamento e l’incoerenza della vita dei suoi avversari. È quanto accade nel tempio, sta insegnando e mette in guardia i suoi ascoltatori dagli scribi che vivono di apparenza e si vantano di ciò che credono sia accetto a Dio. Leggendo il brano evangelico potrebbe sembrare che sotto accusa sia il comportamento degli scribi – si tratta, infatti, di bene cinque atteggiamenti che denotano una fede di facciata “passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti. Divorano le case delle vedove e pregano a lungo per farsi vedere.” (v. 38-40) – quanto, invece, il loro peccato, che merita l’amara condanna da parte del Signore – “Essi riceveranno una condanna più severa” (v. 40a) – consiste nell’avere desideri contrari a Dio. Gli scribi sono “coloro che vogliono” – così dice l’originale greco – ovvero persone che hanno il cuore orientato non a Dio e alla sua legge, ma verso se stessi. Il peccato sta, infatti, nella volontà, nelle intenzioni recondite dell’animo – “Ciò che esce dall’uomo è quello che rende impuro l’uomo. Dal di dentro, infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male” (Mc 7,20-21) – ed è il cuore, la sede della volontà, che va purificato perché un albero buono (un cuore puro) non può fare frutti cattivi (ciò che è contrario a Dio) (Mt 7,18). Gesù va alla radice di ogni errore, cerca il tarlo che corrode la pianta della vita del credente, procurandogli la morte. Ed il morbo sta nel credersi giusti, migliori degli altri, stimati da coloro che vedono, degni, senza nessun dubbio, della ricompensa da parte di Dio. Può il Signore trovare spazio in un cuore dove l’egoismo serpeggia? Può l’albero della croce estendere nel terreno le sue radici lì dove l’unica pianta che cresce è quella dell’egoismo e dell’amor proprio? Così facendo anche la preghiera si sminuisce, viene denaturata e da incontro con Dio scade a ricerca di se stessi e della propria autogratificazione. In tal modo si riduce Dio all’impotenza! Basta guardare noi stessi quando crediamo che il mondo giri tutto intorno a noi, illudendoci di essere sempre i primi della classe.
Si può vivere una vita di fede anche senza avere Dio al centro del cuore, quale motore dei propri sentimenti e pensieri. Se alla base della vita non c’è un vero incontro con il Signore, un’autentica relazione di amore con Lui, un dialogo familiare e continuo che conduce a scelte secondo la sua volontà, la fede – ammesso che di fede si possa parlare, dal momento che la fede è la risposta obbediente ad un Dio incontrato! – perde di spessore, di incisività, di significato. Dio non c’è e il proprio io prende il suo posto, lasciando che l’apparenza riempia il vuoto causato dalla sua mancanza. Dove non c’è Dio, si passeggia sì, ma a vuoto e, alla brezza leggera della sera (cf. Gen 3,8), le lunghe vesti coprono la nudità dell’uomo che ha escluso Dio dal suo orizzonte vitale, ma non riscaldano il suo cuore assetato di infinito. Senza Dio si desiderano saluti, onori e posti di prestigio, perché non si tiene lo sguardo fisso sulla vera grandezza che consiste nel servire i fratelli e prendere l’ultimo posto, al pari del Figlio dell’uomo (cf. Mc 10,42-45). Senza Dio, si opprimono i poveri, si spogliano gli orfani, le vedove vengono defraudate e l’ingiustizia regna perché non c’è il timore di Dio, della sua condanna, del suo intervento e si crede che “Dio non veda”, quando, invece, il suo orecchio è sempre teso nell’ascoltare il grido di coloro che si volgono a Lui. Senza Dio, anche la preghiera diviene come quella del fariseo, non si cerca il volto del Signore al pari di Mosè, la solitudine è fuggita perché non ripaga con la lode di coloro che guardano, il silenzio non è cercato perché non gratifica attraversare il deserto, credendo nella Presenza di un Dio che sembra assente, ma non lo è mai! Senza Dio, non si chiude la stanza per entrare nel segreto e parlare con il Padre. Come suona attuale la parola del patriarca ortodosso Atenagora: “Senza lo Spirito Santo, Dio è lontano, il Cristo resta nel passato, il Vangelo una lettera morta, la Chiesa una semplice organizzazione, l’autorità un potere, la missione una propaganda, il culto un arcaismo, e l’agire morale un agire da schiavi. Ma nello Spirito Santo il cosmo è nobilitato per la generazione del Regno, il Cristo risorto si fa presente, il Vangelo si fa potenza e vita, la Chiesa realizza la comunione trinitaria, l’autorità si trasforma in servizio, la liturgia è memoriale e anticipazione, l’agire umano viene deificato”.
C’è un unico modo per vincere l’apparenza, lavorare di interiorità con Dio, una sola strada per far morire il proprio io, rinnegarsi continuamente, chiedendo con insistenza lo spirito di umiltà. Non sono più di moda termini, e di rimando realtà, quali la mortificazione dei sensi – basterebbe della lingua e dello sguardo! – il silenzio, la moderazione, la custodia del cuore, la purificazione della volontà, ma questo significa lavorare di interiorità.
Nella nostra famiglia riusciamo ad evitare l’apparenza, educando i figli alla sobrietà e al gusto per le cose semplici? Che peso gioca nel rapporto di coppia la mentalità del secolo? Ci lasciamo facilmente portare dal gusto dell’effimero oppure riusciamo a custodirci e a custodire il nostro cuore da ogni erbaccia cattiva di vizio ed egoismo? Quando mi metto dinanzi a Dio riconosco il mio essere peccatore di vivere grazia al perdono che Egli mi accorda? Che peso ha nella relazione di coppia il vanto, la superiorità, il farsi vedere? Faccio le cose perché l’altro mi veda o perché amo l’altro/a, i miei figli e metto la mia vita al loro servizio con gratuità e in spirito di disponibilità?
L’importanza di avere uno sguardo puro
Gesù, se con il rimprovero degli scribi, pone un anti modello dal quale guardarsi, con la lode della vedova mostra ciò che Dio realmente richiede, indicando ai suoi discepoli come il Padre guardi l’azione silenziosa che edifica il suo Regno. Il culto dell’apparenza, sembra dire il Maestro, è cosa riprovevole non solo in chi lo pratica, ovvero in chi ricerca nell’effimero il senso della propria vita, ma, cosa ancor più nefasta e riprovevole, anche in coloro che, sedotti dall’esteriorità, si lasciano incantare ed attrarre da ciò che gli altri mostrano e vantano di avere e di fare. In tal modo, gli occhi desiderano ottenere quanto il fratello paventa di possedere e così dal formalismo nasce l’invidia e la gelosia, dimostrando come tutti siano interiormente vinto dal mistero del male.
È bello vedere, invece, come la parola di Gesù ceda il posto al suo silenzio, allo sguardo che penetra nei cuori, alla capacità di svelare le cose nascoste. Solo l’occhio di Cristo riesce a compiere questo perché “Non vi è creatura che resti invisibile dinanzi a lui; tutto è nudo e scoperto agli occhi suoi e a lui dovremo rendere conto” (Eb 4,13). Inutile nascondersi come Adamo ed Eva, vano credere che il nostro cuore non sia per Lui un libro aperto. Il Signore si siede e tiene fisso lo sguardo sul tesoro del tempio. Egli osserva “come la folla vi gettava monete” (v. 40). I ricchi ne mettono molte – alla base di questa osservazione dell’Evangelista c’è la critica dell’ostentazione formale in precedenza collegata al comportamento degli scribi – ma a Dio non interessa la quantità. Se riuscissimo a pensare come Lui! Se la qualità divenisse criterio di giudizio della nostra vita, delle azioni e dei pensieri! Se saltassimo la palude del multa – le molte cose di Marta (cf. plurima, Lc 11,41) – per camminare spediti sul lido del multum, dell’intensità, della profondità, come Maria (cf. unum est necessaria, Lc 11,42)! Gesù non si ferma al tintinnio delle numerose monete dei ricchi, perché il compromesso, morbo maligno che corrode i sensi, non ha in Lui il sopravvento. Noi abbiano gli occhi assetati di possesso e gli orecchi pieni delle voci del Tentatore che cerca di sedurci, come un tempo la ninfa Calipso con Ulisse. Siamo attratti dal rumore del denaro, i nostri occhi percepiscono subito il bello ed il comodo, il nostro olfatto immediatamente fiuta dove l’interesse può essere perseguito con il minimo sforzo. Gesù, invece, è puro di cuore, il suo sguardo va in profondità, va alle intenzioni delle persone che incontra, legge nell’animo, come quando a Cafarnao smascherò i pensieri degli scribi (cf. Mc 2,6-8) o quando percepì che la mano dell’emorroissa lo aveva toccato con quella fede che strappa a Dio la guarigione sperata (cf. Mc 5,25-34). Avere lo sguardo di Cristo è possibile solo se abbiamo il suo cuore, se interiormente siamo mossi dall’amore, se il fumo del Tentatore non ci abbaglia la vista, se, a differenza dei prediletti, non ci lasciamo sopraffare dal sonno nella preghiera, quando il Signore ci chiede di vegliare con Lui. È il cuore che deve vedere e soprattutto deve voler vedere. Non basta, infatti, fidarsi di ciò che percepiscono gli occhi, è necessario, invece, chiedere con insistenza, come il cieco Bartimeo, il dono della vista. Vedere risponde a un dono naturale, mentre il voler vedere è il frutto di un forte desiderio dell’uomo che sa per esperienza come solo il Signore possa aprire i suoi occhi – Aprimi gli occhi perché io veda le meraviglie della tua legge – guardandolo dalla sua cecità, come un giorno il vecchio Tobi.
Anche per noi il semplice sguardo non basta. Spesso, infatti, nelle nostre famiglie, tra marito e moglie, gli occhi giocano brutti scherzi, si crede di aver visto bene e su questo si costruiscono i più grandi castelli in aria. Gli occhi guardano, la mente fantastica, il cuore trema, la bocca accusa e pretende giustifiche che stupiscono l’altro. Abbiamo bisogno di occhi puri, di cuori integri, di menti libere, di labbra che custodiscono il silenzio. Sì, abbiamo bisogno che la giustizia come ricerca della verità e della rettitudine animi i nostri sguardi e ci faccia andare oltre l’apparenza, per scorgere nella semplicità la bellezza, nell’ordinarietà lo stupore, nella fiducia accordata all’altro e da lui ricevuta come dono la strada per divenire maturi e veri. Dobbiamo porre fine nei nostri rapporti al sospetto, al dubitare dell’altro, a interpretare cose viste ed udite come prove schiaccianti della sua colpevolezza. Solo il Signore può donarci occhi semplici come quelli di un bambino per credere al bene anche quando ciò che appare sembra il suo contrario.
Con quali occhi guardo la persona che Dio mi ha posto accanto? Fraintendo facilmente le sue parole ed i gesti che compie, oppure riesco a non fare giudizio affrettati e a non rompere per inezie il rapporto? Esiste nella nostra famiglia un confronto franco e costruttivo, nel quale ci aiutiamo a sapere leggere la nostra vita, senza fermarci all’apparenza?
La vedova, una figura che anticipa il dono del Signore
Gesù, guardando quella donna, pone il suo sguardo lì dove nessuno si sarebbe mai sognato di fermare gli occhi. Difatti, cosa c’è da scoprire in una povera vedova che getta nel tesoro pochi spiccioli? Nulla, a prima vista. L’Evangelista lo sottolinea bene, pur presentando il contrasto tra le molte monete dei ricchi e i due spiccioli della donna. Per chi guarda non c’è nulla di particolarmente importante. Anche i discepoli – in realtà Marco dà per scontata la loro presenza, anche se sono intervenuti direttamente l’ultima volta solo in 11,21 – sembra che non abbiamo notato nulla. Per questo Gesù li chiama. Egli vuole che guardino ciò che gli altri non vedono, che entrino lì dove nessuno giunge. Guardare il mondo con gli occhi di Dio è una grazia, solo se Cristo ci partecipa il suo sguardo, riusciremo a dare il giusto significato ad ogni cosa. È lo Spirito che accende in noi la stessa capacità che fu del Figlio di Dio nel guardare ogni uomo ed ogni creatura. In caso contrario ci fermeremo alla scorza e perderemo tante occasioni di bene, ci lasceremo andare al giudizio facile, mai riuscire a vedere nella giusta luce gli uomini e le cose. Come i discepoli, dobbiamo essere continuamente ammaestrati dal Signore, illuminati dalla sua Parola, strappati dalla superficialità mediante il suo occhio che vigila non solo sulle azioni, ma sul cuore che le origina.
La vedova fa parte di quella categoria di persone che nell’Antico Testamento erano i protetti dal Signore, da Lui amati e difesi. In quanto povera, priva di tutto, incapace di provvedere a se stessa, la donna non è tenuta all’elemosina, né tantomeno a partecipare, pur con le sue poche risorse, ad impinguare il tesoro del tempio. Ella, invece, pur se indigente, sente di avere la capacità di dare, avverte di essere debitrice di qualcosa nei riguardi di quanti sono più poveri di lei e, dimentica di sé, non teme di dare. Tutti abbiamo in noi la capacità di donare perché Dio ci abilita al dono. La vedova ci insegna che non siamo così poveri da non poter donare, né tanto ricchi da chiuderci ad accogliere il dono dell’altro. La donna non è ripiegata su di sé, centrata, come gli scribi, sulla necessità della propria vita. In realtà, potrebbe e, per alcuni aspetti, dovrebbe, eppure non lo fa. La sua offerta è poca cosa – due spiccioli sono la più piccola moneta (di bronzo) che circola in Palestina, equivalente al quadrante romano con il quale acquistare 100 g. di pane! – ma anche qui, non è la quantità che conta, ma il cuore. Dio non guarda l’apparenza, perché Egli ama chi dona con gioia (2Cor 9), l’uomo che offre al fratello con disponibilità, che apre la sua mano per saziare, al pari di Dio, la fame del suo prossimo, che non si chiude alla carità, è amato da Dio, che moltiplica i suoi beni e fa abbondare il raccolto dei suoi campi. Non multa, sed multum! Non bisogna perseguire la quantità delle opere, ma la qualità delle azioni!
La vedova deve divenire la nostra sorella maggiore, dobbiamo imitarla – sembra dire Marco – nella disponibilità e nella capacità di pensare ai più bisognosi. Il povero ed il bisognoso è prima di tutto colui che ci vive accanto, lo sposo per la sposa e viceversa. Nel rapporto di coppia è importante donare all’altro non il superfluo del proprio tempo, delle energie e di quanto arricchisce la nostra vita. Non siamo chiamati a donare delle cose – quante cose riempiono la nostra vita e la rendono arida! – ma ad offrire all’altro noi stessi. Ecco perché la figura della vedova sembra richiamare l’offerta volontaria di Gesù che sulla croce non trattiene nulla, ma si offre con generosità ed amore. La famiglia è il luogo dove si viene educati alla logica gratuita del dono di sé e se questa lezione non si impara tra le mura domestiche, dovremo chiedere la grazia di cadere sulla strada verso la nostra Damasco perché da Saulo si rialzi Paolo, l’uomo nuovo che vive di Dio e con Dio. Dobbiamo passare dal superfluo al necessario non solo sulle nostre mense – e questo già sarebbe tanto, il gettare è il verbo che più si utilizza per il cibo in una società che si vanta di fare del riciclaggio un segno di civiltà! – ma soprattutto nei nostri rapporti. I figli non si crescono con il superfluo, neppure con giochi che riempiono le stanze – c’è da sorridere quando, visitando una famiglia, si nota con stupore la presenza di una “stanza dei giochi”! – ma con il necessario e cosa lo è più dell’amore, della tenerezza, degli abbracci che donano forza, dei sorrisi che, dopo le lacrime, sono come il sereno dopo una tempesta?
Cosa è veramente necessario nel nostro rapporto di coppia e cosa superfluo? Quale il formalismo da eliminare, l’apparenza da scacciare, gli atteggiamenti di vanagloria e di pretesa contro i quali fare guerra? Come è possibile rendere le nostre case scuole di educazione all’amore che si dona, rifuggendo, nei piccoli, i capricci di avere, senza comprendere che il possesso è la radice di ogni peccato?
La moneta della totalità
“Tutti hanno gettato parte del loro superfluo. Ella, invece, nella sua miseria, vi ha gettato quello che aveva, tutto quello che aveva per vivere” (v. 44). Con questa ultima pennellata di colore, dei più intensi, dalle tinte più vive, si conclude la scena evangelica. La vedova ha superato quanti l’hanno preceduta perché è povera – Marco lo sottolinea per ben due volte (questa vedova così povera, v. 43; lei invece nella sua miseria, v. 44) – ma la superiorità della sua offerta è data soprattutto dal fatto che ha messo nel tesoro quanto aveva per vivere. La radice dell’offerta della donna sta nella sua fede, mentre dona per gli altri, sa che Dio penserà a lei, nel tesoro mette pochi spiccioli, ma nel cuore del Padre getta tutta la sua vita. La totalità è la moneta che Cristo ha coniato e che, unica, circola tra i suoi figli, nel suo Regno. Totalità è la parola che i fidanzati devono sognare e cominciare a gustare nel tempo della promessa; totalità è il dono di Cristo che gli sposi devono scambiarsi come segno di un amore che non si ritrae dinanzi alla piccola offerta dell’altro; totalità del dono è la logica evangelica che deve rendere le nostre famiglie solidali ed accoglienti verso tutti, perché se Cristo si è offerto tutto, il suo discepolo non può fare diversamente. È la totalità la logica che apprendiamo partecipando all’Eucaristia, dove il nostro Amen traduce il desiderio di seguire Gesù, il Maestro e Signore, lasciando allo Spirito di essere in noi sorgente di vita donata, nascoste, offerta, sofferta, consegnata, solo e sempre per amore.
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stiamo vivendo un tempo di prova e di preoccupazione riguardo il presente e il futuro. Questo virus è entrato prepotentemente nella nostra quotidianità e ci ha obbligati a rivedere i tempi del lavoro, delle amicizie, delle Celebrazioni. Insomma, ha rivoluzionato tutta la nostra vita e non sappiamo fin dove ci porterà e per quanto tempo. Ci fidiamo delle indicazioni che provengono dal Governo e dagli organi sanitari preposti ma nello stesso tempo manifestiamo con la nostra fede che “il Signore ci guiderà sempre” (cfr Is 58,11).
1 risposta su “Amare con totalità, senza se e senza ma”
Grazie x la profonda riflessione