XXIX Domenica del T. O. – B

Il Padrone che si fa schiavo, l’Eterno che entra nel tempo

di fra Vincenzo Ippolito

Il fumo di Satana, entrando nelle fessure delle nostre famiglie, semina la morte, distrugge l’amore, minando alle radici l’unità e la fedeltà promessa. È necessario aprire le finestre perché entri la luce di Cristo, l’aria del suo Spirito; come a Pentecoste, tra noi deve soffiare la vita nuova del Risorto.

Dal Vangelo secondo Marco (10, 35-45)

In quel tempo, si avvicinarono a Gesù Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedèo, dicendogli: «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo». Egli disse loro: «Che cosa volete che io faccia per voi?». Gli risposero: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra».

Gesù disse loro: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?». Gli risposero: «Lo possiamo». E Gesù disse loro: «Il calice che io bevo, anche voi lo berrete, e nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati. Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato».

Gli altri dieci, avendo sentito, cominciarono a indignarsi cori Giacomo e Giovanni. Allora Gesù li chiamò a sé e disse loro: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».


 

Per la terza domenica consecutiva la Liturgia ci propone un brano tratto dal decimo capitolo del Vangelo secondo Marco. Questa volta, però, gli interlocutori del Maestro non sono né i farisei (cf. Mc 10,1-12), né singoli uomini (cf. Mc 10,17-28), ma due dei suoi discepoli, Giacomo e Giovanni. Anche loro, infatti, al pari degli altri, hanno bisogno di comprendere meglio la grazia della chiamata per camminare dietro il Maestro, in maniera sempre più spedita, verso la Pasqua.

Un cammino senza consapevolezza

Per ben comprendere la pagina odierna del Vangelo e giungere all’intenzione dell’Autore ispirato – in realtà questo criterio vale sempre quando si legge la sacra Scrittura – dobbiamo studiare il contesto in cui il brano si colloca. Mc 10,35-43 segue il terzo annuncio della passione (cf. Mc 10,32-34) nel quale il Maestro nuovamente chiarisce ai suoi il cammino che lo attende. Se leggiamo poi i precedenti racconti in cui Gesù prepara i discepoli alla sua Pasqua, ci renderemo conto della dinamica sottesa anche al nostro brano: il Cristo annuncia la sua morte (cf. Mc 8,31-32) e Pietro vuol dissuaderlo, meritandosi l’appellativo di Satana (cf. Mc 10,32-33); per la seconda volta Gesù annuncia il compimento della sua missione a Gerusalemme (cf. Mc 9,30-31) e quanti lo seguono discutono tra loro su chi è il più grande (cf. Mc 9,33-37); lo stesso notiamo anche nel nostro brano, il Signore chiaramente espone il senso della sua vita nella consegna per amore e Giacomo e Giovanni seguono i desideri del proprio cuore. Capita sempre così, sembra che Cristo parli a vuoto perché i discepoli fanno il contrario di ciò che egli dice, non si curano di quanto il Maestro proponga, non prendono in considerazione quanto il Signore sta per compiere e così con i piedi sono diretti a Gerusalemme, ma il cuore e la vita, i sogni e la mente sono lontani da Dio. Chi seguiamo ogni giorno nel nostro cammino? Per chi ci affanniamo nella nostra giornata? In chi confidiamo ed affidiamo la nostra vita?

È una triste realtà, ma è così: nei Vangeli coloro che non capiscono nulla e non vogliono intendere la parola del Maestro sono proprio coloro che Egli ha chiamato ad una intima comunione con sé. I Dodici spesso restano ai margini, pur seguendo il Signore, superati da quanti, per obbedienza e docilità, accolgono Gesù e gli aprono il cuore. Non è forse il centurione romano a superare per fede i figli del popolo eletto (cf. Lc 7,1-10)? E l’emorroissa non dimostra un abbandono maggiore rispetto a tanti discepoli (cf. Mc 5,25-34)? Cosa dire poi del centurione che, sotto la croce, riconoscerà, da autentico discepolo, la divinità di Cristo, proprio nel momento della sua morte (cf. Mc 15,39)? Non si contano i brani nei quali gli Evangelisti trasmettono l’umanità dei discepoli, le continue cadute di tono, la poca attenzione dimostrata, le ricorrenti ribellioni. Potremmo stilare un catalogo delle malattie che possono attaccare il discepolo di Cristo – di un sano realismo è il discorso tenuto dal Papa alla Curia romana per gli auguri natalizi il 22 dicembre 2014 – impedendogli di mettere a frutto la grazia del Signore. E così, a Giacomo e Giovanni che domandano «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra» v. 37, viene da chiedere: ma voi non avete ascoltato ciò che il Maestro ha detto or ora? Eravate distratti? A cosa pensavate? Come Pietro, eravate intenti a credere a un Gesù diverso, oppure a prendere tempo per poi presentare la vostra richiesta? Perché mai misconoscete la grazia, disprezzate l’elezione alla sua sequela, non ricambiate l’amore del Maestro, il suo sguardo di misericordia, la comunione che Egli vi offre tenendovi accanto a sé? Proprio voi che siete i prediletti insieme con Pietro, che lo avete visto restituire la vita alla fanciulla dodicenne (cf. Mc 5,37-43), che siete stati inebriati dalla sua luce sul Tabor (cf. Mc 9,2-8), voi che nel Getsemani entrerete nel mistero della preghiera del Maestro – o quale grazia a voi data! Chi non avrebbe desiderato stare al vostro posto e asciugare il sudore del Maestro nella notte del tradimento! Quale discepolo, ditemi, quale ingrato discepolo si sarebbe fatto vincere dal sonno al pensiero che il diletto è sveglio e soffre, trema dall’angosci ed è in preda alla tentazione più oscura? – proprio voi parlate di sedere, di star comodi quando il vostro Gesù dice di non sapere dopo posare il capo, di non avere un luogo stabile, una dimora sicura su questa terra, a differenza degli uccelli del cielo che si riposano dalla stanchezza del volo nel loro nido sicuro? È così dura la parola del Signore, irriconoscibile la voce del Pastore, incomprensibile il suo discorso? Forse non disseta più l’acqua del suo amore, non sfama il suo pane, non dona ristora l’ombra della sua dolce Presenza? Ma perché, perché mai, fate così, verrebbe da dire a loro, battendo le mani sul petto di questi discepoli per poi stringere loro in un abbraccio di riconciliazione con quella debolezza che è di ognuno di noi e che in loro non è nascosta per pudore dagli Evangelisti, anzi mostrata per nostro ammaestramento.

Viene da piangere – anche le lacrime sono un dono che papa Francesco ci dice di chiedere con fede, lacrime di penitenza e di dolore dei peccati – al pensare che Giacomo e Giovanni, al pari di Pietro sono nostri fratelli, rivestiti della nostra stessa creaturale debolezza, impastati di umanità ribelle. In loro ci siamo noi quando chiediamo a Dio ciò che non è secondo la volontà del Padre, nella loro voce ci sono le nostre voci quando in famiglia ci allontaniamo dagli altri perseguendo strade alternative di salvezza solitaria che si traducono immancabilmente in fallimento dai quali poi risulta difficile risalire. Nella preghiera dei figli di Zebedeo c’è il grido del nostro egoismo che ci spinge a dire noi vogliamo, senza sapere cosa chiediamo, senza la consapevolezza di quanto domandiamo, incuranti che accanto abbiamo altri fratelli che scandalizziamo con il nostro dire.

Ci aspetteremmo che al seguito del Nazareno ci siano i migliori – spesso noi così ci pensiamo, pur senza dirlo – invece, a ben vedere, dietro al Signore, coloro che Egli stesso ha chiamato a stare con lui (cf. Mc) vivono ire e passioni, euforie e tristezze, cadono nella tentazione e nel peccato, proprio come noi. La sequela non è per uomini già santi, ma per quanti, consapevoli del bisogno vitale che hanno di Cristo, lo seguono per intraprendere un itinerario che ha come meta la santità di Dio. Pietro e gli altri sono impastati di debolezza perché Dio non chiama i capaci, ma, con la sua grazia, rende capaci i chiamati. È questa la sorgente della nostra speranza. Siamo tutti, ma proprio tutti – papa Francesco lo ricorda spesso, anche se suona strano che a dirlo sia proprio il Successore del Principe degli Apostoli! – sulla strada della conversione e dobbiamo sempre combattere in noi la presunzione di essere arrivati. La strada della sequela – che è poi l’altro nome del cammino di conversione, perché non c’è vera sequela senza autentica conversione – è per tutti e lungo il cammino il Signore ci ammaestra, ci riprende, piega la dura cervice, come fece con il popolo nel deserto, conducendoci gradualmente a salire il Golgota per vivere con Lui la Pasqua.

Dio ci accoglie così come siamo, lo stesso dovremmo fare anche noi. La famiglia, al pari della comunità dei discepoli, è il luogo della verità di se stessi, dove si parla senza la paura di essere giudicati, ma con la sicura certezza di essere amati ed accolti. E questo perché Gesù è in mezzo a noi, è Lui la roccia della nostra casa, il legame che ci tiene stretti, la forza che ci sostiene nella debolezza. La famiglia è il cenacolo dove Cristo ci riprende, con la tenerezza dell’amore che mai condanna, attraverso l’altro e ci riconduce sulla strada del bene. Quanta grazia divina sovrabbonda nelle nostre famiglie! Eppure non ce ne rendiamo conto, come i figli di Zebedeo abbiamo la testa tra le nuvole, cerchiamo beni che in realtà sono meno interessanti e di gran lunga rispetto a quelli che abbiamo, la grazia dell’Eterno, la comunione con Cristo, la caparra dello Spirito nei nostri cuori. È necessario mettere a frutto l’amore effuso in noi con abbondanza ed aiutarci reciprocamente in questo cammino.

Un accordo mal riuscito

Giacomo e Giovanni si avvicinano a Gesù con una richiesta precisa nella formulazione, ma totalmente sbagliata nel contenuto, come anche nella modalità utilizzata. Il Maestro aveva assicurato che «Se due di voi sopra la terra si accorderanno per domandare qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli ve la concederà» (Lc 18,19) e questo perché «Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro» (Lc 19,20). Giacomo e Giovanni si accordano tra loro, ma chi li unisce nella richiesta non è Gesù, non li muove la sua Parola, non li motiva il desiderio di costruire il suo Regno. In loro, la domanda, che è pur sempre una preghiera, non nasce da un attento discernimento, non è frutto del confronto tra quello che Gesù vive e chiede ai suoi e la propria vita, diversamente da Maria non meditano con attenzione, non custodiscono con cura amorosa, non serbano nel cuore con il silenzio la volontà del Padre, non attendono i tempi che Dio attua per aspettare la maturazione dell’uomo – l’espressione i tempi di Dio va ben compresa perché il tempo che Egli usa non serve a Lui, ma a noi per crescere nella sua volontà! – e la loro unione non è nel bene. Fratelli di sangue, si accordano per esserlo anche in fortunis – il plurale in latino indica non i tempi che verranno, come nel singolare, ma i beni di fortuna, quelli, potremo dire, procurati con astuzia ed ingegno – e superare i loro compagni di avventura nella sequela del Signore.

L’arrivismo è un malattia perniciosa anche tra i discepoli di Cristo, il farsi le scarpe, nella corsa ai primi posti tocca anche l’umanità di coloro che, per vocazione, sono chiamati ad essere lampade poste sul candelabro a far luce a quanti sono nella casa. È lo scandalo e l’indignazione – sarà questa la reazione degli altri dieci nel v. 41 – causati dall’incoerenza, dalla durezza di cuore, dalla vittoria dello spirito del mondo che ha messo radici nei discepoli. Come può Satana rodere, come un tarlo, coloro che vivono con il Signore? Come può egli, maestro di ogni inganno, intrufolarsi mentre si ascolta la Verità, seminare la discordia quando il Cristo tesse l’unità? Si ha infatti la sensazione che «da qualche fessura sia entrato il fumo di Satana nel tempio di Dio» – sono parole di Paolo VI, nell’omelia del 29 giugno 1972 – a portare scompiglio. Sì, il demonio – è duro da accettarlo, ma può accadere e purtroppo accade! – può servirsi degli eletti, dei chiamati, dei discepoli di Gesù, dei suoi amici prediletti. Ci si può accordare con il Nemico mentre si siede a mensa con il Maestro – è il caso di Giuda – e si può ascoltare il Signore che parla di umiltà e di sottomissione, mentre nel cuore si covano desideri di umana grandezza. Ecco perché la prudenza non è mai troppa – non a caso è una virtù cardinale! – e la vigilanza deve condurci a stare sempre all’erta per non incappare nei lacci del demonio che, come leone ruggente, va in giro cercando chi divorare (2Pt 5,8).

La vigilanza e la prudenza devono essere coltivate nel giardino dell’Eden della propria casa. Non possiamo permette che il Nemico semini la discordia tra noi, sparga il dubbio che l’altro voglia sul serio il mio bene, faccia passare come una cosa buona l’affermazione del proprio egoismo, la ricerca del tornaconto, il disprezzo dell’altro che mi sta accanto. È necessario fare un lotta spietata non contro l’altro/a che è mio osso e mia carne, ma verso le forze centripete che ci dividono, contro voci che abitano il nostro cuore per allontanarci.

Giacomo e Giovanni, quasi ignari – ma si può essere così ottenebrati nella mente e nel cuore da non comprendere che ciò che si desidera e si chiede è contrario a ciò che il Maestro va dicendo? – si accordano nel male e chiedono a Dio di assecondarli. Quanti accordi sono frutto di compromessi e così ci intendiamo tra noi per superare gli altri, essere i migliori, preoccupati solo delle nostre cose? E gli altri dieci che fine fanno? Si potrebbe chiedere ai due fratelli: voi prendete la parte migliore, vi accomodate nell’esercizio di un potere non meritato, acquistato con il favore e la raccomandazione e gli altri, quelli che condividono con voi la sequela che fine fanno? Perché non vi preoccupate di loro?

È la morte quando tra marito e moglie non ci si preoccupa dell’altro, quando si crede di poter bastare a se stessi, di non aver altri a cui pensare! È la morte quando i figli sono un bene da contendersi, non un dono da condividere, merce da spartire, non affetti da servire. È la morte quando non custodisco l’altro, non vigilo sul campo del suo cuore, non sgombro il terreno dalle paure e dai dubbi, non sorveglio sul bene perché cresca in abbondanza tra noi. È la morte quando mi accordo con l’altro/a per amore dei figli, senza capire che essi respirano l’aria malsana di un rapporto di coppia che non si vuol sanare con la forza di Dio. È la morte quando non chiamo l’altro mio e lo considero un estraneo, il suo corpo è per me straniero e il suo tatto mi è di fastidio. È la morte quando insieme non ascoltiamo Dio, non facciamo spazio alla sua parola e ci sentiamo autorizzati a poter dare libero sfogo al nostro cuore, non purificato da Gesù, non bonificato dalla grazia del suo amore.  Questo è il fumo di Satana che, entrando nelle fessure delle nostre famiglie, semina la morte, distrugge l’amore, minando alle radici l’unita e la fedeltà promessa. È necessario aprire le finestre perché entri la luce di Cristo, l’aria del suo Spirito; come a Pentecoste, tra noi deve soffiare la vita nuova del Risorto, quale vento gagliardo, deve bruciare il fuoco divino che consuma il nostro peccato e ci rende testimoni della vita che rinasce dalle ceneri del proprio egoismo inchiodato sulla croce di Cristo.

Il senso della vita: nel calice e nel battesimo

Quel Gesù che si era loro rivolto con infinita tenerezza vedendoseli presentare – «Cosa volete che io faccia per voi?» v. 36 – non risponde con la durezza dimostrata con Pietro, ma con altrettanta dolcezza cerca di ricondurre i figli di Zebedeo sulla retta via, come in precedenza i Dodici in contesa su chi fosse il più grande. Il Maestro chiede: «Potete bere il calice che io sto per bere o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?» v. 38. Domanda consapevolezze, richiede responsabilità, invoca autenticità. I figli di Zebedeo parlano un linguaggio che nulla ha a che vedere con quello che Gesù utilizza nel corso della sua predicazione – concedere di sedere, tua gloria, tua destra, tua sinistra – segno di come la parola del Maestro non abbia fatto breccia nel loro cuore. Nella preghiera, nel dialogo con Gesù è importante sia il come si chiede – con l’umiltà del pubblicano e la perseveranza della vedova – e cosa si chiede. È necessario ben intendere le parole, perché il trono di Cristo è la croce, su di esso Egli siede e regna, la sua gloria è il dono della vita nell’accoglienza obbediente della morte per gli uomini. Ecco perché essi non sanno cosa chiedono e intendono con una mentalità umana ciò che il Signore vive come un puro dono d’amore del Padre.

Quanto la mondanità corrode le nostre parole e rende vano il nostro discepolato! Giacomo e Giovanni applicano a Dio e al suo Cristo una dinamica che scandisce il potere in questo mondo, credono che nel regno di Gesù vigano le stesse regole, la raccomandazione, la gloria, il ricoprire cariche di onore e di prestigio, depauperando gli altri, camminando sulla dignità altrui. Anche la mondanità è un grave peccato – papa Francesco lo ricordava in una lettera ai cardinali appena nominati lo scorso anno – essa è sinonimo di vanagloria e ci rende nemici della croce di Cristo, non con-crocifisso insieme con Gesù. La mondanità è l’applicazione dei criteri umani alla comunità dei credenti, si può usare lo stesso linguaggio, come i due figli di Zebedeo, ma indicando non ciò che il Signore vive e vuol far vivere ai suoi.

Nelle nostre famiglie e comunità ecclesiali, tra i religiosi/e, nei gruppi che posto ha l’annuncio del mistero pasquale, la scelta di povertà e di umiltà del Figlio di Dio fatto uomo? Costruiamo e perseguiamo l’immagine di una Chiesa forte, potente, con mezzi di evangelizzazione all’avanguardia che spesso svuotano la croce di tutta la sua potenza (cf. 1Cor 1,17) oppure il nostro è il cammino del granello di senape, del lievito che si nasconde nella pasta, del sale che scompare nella terra? La nostra è una famiglia dove si gareggia in carità o nello strappare lo scettro del comando, ci si serve o si spadroneggia? La nostra gloria è l’amore crocifisso – di null’altro mi glorificherò se non della croce di Cristo, canta san Paolo in 2Cor – o la capacità di imporsi nella società, a scuola, nei posti di lavoro? I criteri del mondo – bellezza esteriore, potere ad ogni costo, soldi facili e senza limiti, passioni delle più diverse – dettano legge in noi oppure combattiamo perché nel nostro rapporto di coppia, nell’educazione dei figli, nelle amicizie, Cristo sia tutto per noi, la sua croce il nostro metro di giudizio, il suo sangue la misura della nostra donazione, la sua consegna il nostro modello, la sua morte la meta dove deve giungere il nostro rinnegamento per il bene dell’altro. Solo così la famiglia è sacramento di Cristo e del suo amore per la Chiesa sua sposa.

«Potete bere il calice che io sto per bere o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?». Le parole che Gesù rivolge a Giacomo e Giovanni non indicano il cammino che essi sono chiamati a compiere, ma prima di tutto stanno a designare l’itinerario che attende il Maestro. È Lui che può e deve bere il calice, deve e può ricevere il battesimo che la sua missione comporta. Attraverso la richiesta ci è dato di sollevare un velo sul senso profondo della vita del Signore. I discepoli non sono consapevoli di ciò che chiedono e di quanto li attende – «Il calice che io bevo anche voi lo berrete ed nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati», v. 39 – ma il Maestro sì, sa bene il suo cammino dove lo porterà, il suo amore per il Padre e per i suoi dove lo condurrà. I figli di Zebedeo rispondono «Lo possiamo» v. 39, ma la disponibilità che manifestano è debole, la loro voce flebile, il loro coraggio di paglia, la volontà brucia di fuochi di paglia. Quante volte i “Sì, lo voglio” del rito del matrimonio divengono ombre che passano nella vita insieme! Quante volte manca, tra gli sposi, la volontà ferrea di vivere fino in fondo la fedeltà promessa! Quante volte si getta la spugna perché amaro è il calice del cuore dell’altro ed immergersi nel mistero della sua storia, delle sue debolezze, dei suoi limiti, è scandalo, orrore, procura angoscia. Eppure, per la grazia di Dio, quella debolezza mi tempra, l’altrui limite mi rafforza, l’errore suo mi rende pronto al dono della vita per amore.

Gesù berrà il calice della volontà del Padre fino alla feccia – nel Getsemani pregherà che gli venga allontanato, ma si consegnerà obbediente all’amore del Padre, accogliendo il suo silenzio, senza tentennamenti, né dubbi – e si immergerà nel mistero della morte, entrerà nel suo regno per liberare l’uomo e donargli la vita.

Il senso della vita della famiglia è nel calice e nel fonte. Dall’acqua del battesimo riemergiamo come creature nuove, figli di Dio, chiamati a santità nella Chiesa per la vita del mondo, dal calice dell’Eucaristia prendiamo la forza per vivere la nostra vocazione, pur tra le difficoltà e le lentezze della vita. Il calice si svuota bevendolo ed io interiormente mi riempio, nel battesimo sono esteriormente purificato, unto di Dio, profumato di Cristo, segnato dal sigillo dello Spirito. È quanto fa Dio con noi, ci abita interiormente ed esteriormente ci riveste, ci fa nuovo nel cuore e fa nascere il sorriso sulle nostre labbra, ci illumina con il suo amore e ci plasma nella mente e nell’anima con la sua dolce Presenza. Dobbiamo essere tutto di Dio. Tutto l’uno per l’altro in Dio, nel legame sacramentatale del matrimonio, tutto per i figli nel testimoniare l’amore, tutto, corpo e anima, mente e cuore nel servizio d’amore alla Chiesa e ad ogni uomo.   

Gesù raccoglie come un pastore il suo gregge

Continua la tenerezza e l’amabilità, la dolcezza e la misericordia del Maestro. Vede l’indignazione dei suoi e li chiama a sé, con il suo braccio raduna [il suo gregge]; porta gli agnellini sul seno e conduce pian piano le pecore madri” (Is 40,11). Quando siamo dispersi, è Lui che ci richiama; lontani, Egli ci viene incontro; vinti dall’odio e dall’inimicizia, ci riconduce al bene. Se riuscissimo a sperimentare questa tenerezza di Dio nelle nostre famiglie, nelle comunità religiose ed ecclesiali, nei gruppi e nei movimenti! Se riuscissimo a lasciare a Gesù la possibilità di riamalgamarci, estinguendo le contese e le incomprensioni, di riplasmarci con la forza del suo amore, di ricominciare dopo ogni fallimento sperimentato con dolore, di accoglierci con la misericordia ed il perdono che Dio è sempre disposto ad usarci! Egli vuole che in noi ci sia una mentalità diversa da quella del mondo, pesa sopra di noi come un macigno il «Tra voi però non è così». Nella sua comunità il criterio è la croce, la misura dell’amore è il dono, il potere è il servizio, il primo posto è l’ultimo, poiché «… chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuol essere il primo rea voi, sarà vostro schiavo» v. 43. Ecco perché Egli stesso si pone come modello, si propone come Guida, si offre come Maestro, ci accompagna come amico: «Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» v. 45. E lo dice quasi a donarci la certezza che guardando a Lui saremo raggianti nella ricerca del bene, confideremo in Lui che è il medico misericordioso, il sacerdote compassionevole, capace di pretendere parte alla nostra debolezza (Seconda Lettura odierna, Eb 4,14-16), il Padrone che si fa schiavo, il Dio che diviene uomo, l’Eterno che entra nel tempo.

Solo Lui può piantanare nel centro del nostro cuore la sua croce che è il segno della verità e della fedeltà dell’amore.




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