XXVI Domenica del Tempo Ordinario – Anno B
Occhi nuovi per un Bene più grande
di fra Vincenzo Ippolito
Ritorna nel Vangelo di questa domenica la necessità della cura e della responsabilità dell’altro, l’attenzione a sapere vigilare sui propri gesti e sulle proprie parole. È questo il passaggio che in famiglia, tra sposi è necessario compiere. Siamo sempre bravi a storcere il naso e ad alzare la voce dinanzi a ciò che l’altro fa, quando esce dai nostri schemi. Ci rendiamo conto che gli altri, soprattutto i nostri figli, ci guardano, pendono dalle nostre labbra, assorbono da noi atteggiamenti che in età adulta vorremo correggere?
Testo Mc 9,38-43.45.47-48
In quel tempo, Giovanni disse a Gesù: «Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demòni nel tuo nome e volevamo impedirglielo, perché non ci seguiva». Ma Gesù disse: «Non glielo impedite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me: chi non è contro di noi è per noi. Chiunque infatti vi darà da bere un bicchiere d’acqua nel mio nome perché siete di Cristo, in verità io vi dico, non perderà la sua ricompensa. Chi scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, è molto meglio per lui che gli venga messa al collo una macina da mulino e sia gettato nel mare. Se la tua mano ti è motivo di scandalo, tagliala: è meglio per te entrare nella vita con una mano sola, anziché con le due mani andare nella Geenna, nel fuoco inestinguibile. E se il tuo piede ti è motivo di scandalo, taglialo: è meglio per te entrare nella vita con un piede solo, anziché con i due piedi essere gettato nella Geenna. E se il tuo occhio ti è motivo di scandalo, gettalo via: è meglio per te entrare nel regno di Dio con un occhio solo, anziché con due occhi essere gettato nella Geenna, dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue».
Siamo intorno al Maestro, come la scorsa Domenica – anche oggi leggiamo un brano del capitolo nono del Vangelo secondo Marco – per ascoltare insieme ai discepoli la Parola di vita, la sola che converte i nostri desideri di grandezza in gioiosa accoglienza della croce. Portare il passo del Maestro non è cosa da poco, ma sappiamo per fede che la goccia della Parola sua, che per noi gronda di Spirito Santo, è capace di consumare l’uomo vecchio, rendendoci creature nuove.
Anche il discepolo può peccare di gelosia
C’è da sorridere nel leggere il brano odierno del Vangelo. Mentre Gesù ancora stringe dolcemente un bambino per far comprendere la vera grandezza del suo Regno, un discepolo, Giovanni, vede sorgere nel suo cuore sentimenti totalmente contrari da quelli richiesti dal Maestro. In lui, infatti, alla vista di ciò che altri operano nel nome di Gesù, sorgono la gelosia e l’invidia e così la parola che il Signore sta donando non trova terreno fertile per portare frutto.
Non ce la fa a tacere, deve parlare, accusare gli impostori, condannare i truffatori, smascherare, in nome di chissà quale sua autorità, coloro che si appropriano – questo sembra intendere lui! – del nome di Gesù per scacciare demoni. Giovanni, come in altri brani del Vangelo, non sa cosa dire, vorrebbe calmare il fuoco della rabbia e domare l’astio, ma non ci riesce. Le parole sue sono l’eco all’esterno dello scandalo che sta vivendo dentro di sé, incapace di frenare la mente, dopo che i suoi occhi hanno visto ciò che sarebbe stato bene nascondere, coprire con il velo della dimenticanza. Il discepolo ha visto che altri, nel nome di Gesù, hanno compiuto ciò che i discepoli non erano riusciti a fare – “Maestro, ho portato da te mio figlio … ho detto ai discepoli di scacciarlo, ma non ci sono riusciti” (Mc 9,17-18) – e non sopporta un tale affronto, si scandalizza che ciò possa accadere fuori dalla sua cerchia, tra coloro che non direttamente seguono il Maestro. Credere che i discepoli del Signore siano quelli che noi riusciamo a vedere e contare, che la comunità dei credenti sia un gruppo chiuso, detentore della verità, difensore dei diritti di Dio è una tentazione antica e sempre nuova. Gesù non ha bisogno di chi difenda la sua persona, di soldati al suo servizio – lo dirà a Pilato che gli chiede se è re e dove risiede la sua forza! – di custodi della sua vita, paladini delle sue cause, di chi lo guarda bene dal furto e della rapina del suo nome. Dio è libero di operare ciò che desidera, dove e quando vuole e a chi accordare la sua grazia, elargire il potere di compiere in suo nome prodigi. Giovanni non riesce a comprendere che Dio è più grande del suo cuore e per Lui non ci sono buoni o cattivi – il Padre vostro che è nei cieli … fa sorgere il sole sui malvagi e sui buoni e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti (Mt 5,45) – ma tutti sono pecore da ricondurre all’ovile sicuro del cuore del Padre. Il discepolo, poiché non ha accolto il seme della parola del Maestro nel terreno buono del suo cuore, vede crescere in lui le spine delle preoccupazioni e degli affanni della vita che impediscono la germinazione e la crescita del grano di Dio. Giovanni parla per l’abbondanza di un cuore dove non regna Cristo, ma l’invidia e la superbia. Il suo peccato, nasce dagli occhi – come nel caso di Eva, il frutto della conoscenza del bene e del male viene prima visto e poi desiderato e solo dopo preso, cf. Gen 3 – la gelosia è generata dallo sguardo non puro. Ciò che si è visto si imprime poi nell’animo – tutto ciò che è presente nell’intelletto passa attraverso i sensi, dicevano i Medievali – e diventa conoscenza dell’altro mediata dal proprio egoismo, consapevolezza della sua capacità di operare ciò che a noi non è dato. Solo allora ognuno si trova dinanzi a un bivio, una prima strada è quella di riconoscere il bene che l’altro compie ed emularlo con coraggiosa costanza, l’altra via è quella di ardere per la superbia di affermare la propria grandezza, di volere ad ogni costo ciò che l’altro accoglie come dono dall’Alto e denigrare il fratello, distruggendolo agli occhi degli altri, dopoché è stato ucciso in noi dai colpi del nostro egocentrismo. È quanto è capitato a Giovanni, non riesce a vedere come bene quanto gli altri compiono, crede di essere l’unico a poter detenere ed usare il nome di Gesù, il solo a vantare una relazione preferenziale con Lui.
Il nostro cuore, come il vaso di Pandora
Ma perché mai i nostri occhi sono capaci di ferire noi stessi nell’intimo prima che gli altri? Perché la debolezza ci spinge al giudizio, al disprezzo quando non riusciamo a fare ciò che il fratello compie senza difficoltà? Non capita forse questo anche nelle nostre famiglie, nella relazione tra marito e moglie, nel rapporto con i figli? La gelosia ci divora quando non riusciamo a vedere una cosa come bene e bello, vero e giusto, partiamo con precomprensioni, con giudizi affrettati, l’altro/a è nostra proprietà e dobbiamo difenderla a tutti i costi! È così difficile fidarsi della persona che abbiamo accanto? A che serve esserne gelosi se lei scambia un bacio o un abbraccio con nostro figlio, se c’è una complicità dalla quale ci sentiamo esclusi, un discorso che non comprendiamo, perché crediamo che sia in codice? Perché mai non gioire del bene dal momento che si è una carne sola e ciò che fa uno lo compie anche l’altro? Perché lasciare che gli occhi seminino in noi la tristezza, attraverso interpretazione sbagliata di ciò che vediamo? Brutto il termine che usa Giovanni, proibire – glielo abbiamo proibito perché non ci seguiva! – ovvero impedire il bene. Quante volte siamo di ostacolo alla grazia del Signore nella vita degli altri! Quante volte non aiutiamo, limitiamo quanto l’altro può e deve fare, spingendolo a doversi sempre giustificare per ciò che compie e dice! Quale autorità abbiamo di proibire? Chi siamo noi per impedire al bene di effondersi, all’amore di comunicarsi solo perché non siamo noi l’oggetto o non ci sentiamo partecipi! Non abbiamo forse promesso di custodire l’altro nel bene, nella buona e nella cattiva sorte, e di ricercare il suo vero bene, la sua realizzazione, la sua gioia?
Il cuore dell’uomo è come il vaso di Pandora, contiene mille difetti e se non si sta attenti a ben contenerli, stipandoli quando fanno capolino, semineranno discordia in noi stessi e tra gli altri. Ma al discepolo è richiesto non di tenere ben chiuso il vaso perché nulla si perda all’esterno dei vizi che dentro sono raccolti, quanto, invece, di riconoscere il male e di combatterlo, liberando il cuore da ogni schiavitù, sgombrandolo da ogni ospite indesiderato, scacciando quanto è contrario a Dio e alla sua volontà perché la bocca parla per l’abbondanza del cuore, insegna Gesù, e gli occhi vedono all’esterno con chiarezza solo se l’animo è veramente puro. La purezza di cuore, dice san Francesco, si traduce nella chiarezza dello sguardo, nella capacità di vedere il bene, gioendo di quanto l’altro fa e dice. È questo un imperativo in ogni relazione, ma soprattutto in famiglia. Non guardare con preconcetti, non scorgere il male lì dove esiste solo il bene, sorridere dinanzi al cuore che desidera ciò che non ha o non può ottenere. Ma c’è un aspetto, insegna sempre il Poverello di Assisi, da tenere in conto, guardando con gelosia al bene compiuto dal fratello, noi, a bene pensarci, siamo invidiosi di Dio che elargisce con misericordia, secondo la sua volontà. Bisogna rallegrarsi del bene che l’altro compie, soprattutto in famiglia. Il marito deve essere contento del bene che la moglie compie ed anzi aiutarla nel fare sempre meglio e lo stesso deve fare la sposa, mai considerando i figli come “oggetto di lite”, ma anzi facendo a gara non a chi più li accontenta, ma a chi meglio li aiuta a divenire maturi.
L’uso dei pronomi dipende dall’amore
Gesù, con toni pacati, riprende Giovanni. Non è conveniente impedire che altri operino il bene, anzi bisogna accoglierlo lì dove è presente, riconoscendolo come segno della presenza di Dio. È un esercizio non semplice questo per tutti, perché uno sguardo puro capace di riconoscere la operazioni dello Spirito nella vita dei fratelli non è cosa da poco. Richiede un esercizio continuo di purificazione del cuore degli occhi, di accoglienza di quanto Dio dona attraverso le persone che ci sono accanto. Inutile vedere nemico dovunque, sembra dire Gesù, poiché chi non è contro di noi, è per noi. Quale delicatezza il Maestro utilizza in questa frase! Passa dalla prima persona singolare – non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me – alla prima persona plurale, quasi a ricondurre sulla strada del bene il suo Giovanni, a farlo sentire partecipe della sua sorte, della predilezione che in altri momenti egli ha goduto e sperimentato. La forza delle nostre relazioni sta nel noi, nell’avere Gesù al centro, Cristo in mezzo. Il discepolo deve comprendere, come il figlio maggiore della parabola del Padre misericordioso, che “tu sei sempre con me e tutto quello che è mio è tuo”, ovvero l’essere discepolo non è una relazione esclusiva, ovvero non deve allontanare il chiamato dagli altri, ma anzi deve portarlo a sentirsi ancor più spinto verso i fratelli, ricco dell’amore di elezione che Cristo gli ha messo nel cuore. Vivere il noi, in questo sta la gioia dell’essere sposi cristiani, famiglia unita sulla salda roccia dell’amore di Dio. È il noi che deve vincere, non come uniformità di parere, ma quale unità nella diversità-complementarietà di natura e di grazia. L’esercizio che fa Gesù – passare dall’io al noi – è quanto siamo chiamati a compiere continuamente in famiglia e nelle comunità religiose, in parrocchia, nelle amicizie perché chi vive arroccato sull’io, non cresce, non matura, vive come un’isola, non come un arcipelago, crede di star bene da solo, in realtà soffre senza sapere che l’unico farmaco in grado di guarirlo è aprirsi alla comunione con gli altri. È bello quando uno degli sposi utilizza il noi nel parlare, perché sente che l’altro/a non è estraneo a ciò che sta dicendo, come se parlassero ad una voce, come un coro dove il canto raccoglie persone diverse, modulando in unità suoni con differenti tonalità. È l’armonia della comunione che la famiglia vive sempre, a questa dobbiamo tendere, per questa lavorare, soffrire, impegnarci, offrire, vivere e in questa armonia consegnare a Dio la nostra vita, sapendo che l’abbiamo spesa per costruire il noi della nostra famiglia. Costruire il noi: è la priorità per due giovani che vogliamo vive con impegno il sacramento nuziale. Vivere e pensare come noi, mai come singoli, come una sola carne che vive l’armonia della diverse membra, la complementarietà nella carne segno di quella dell’anima. Il noi – è da chiarire e ripeterlo senza mai stancarsi – si crea come unità solo se Gesù ci dona la sua grazia, effonde la sua forza, ci sostiene lungo il cammino. In caso contrario il noi è più legale che reale, frutto di moralismo piuttosto che di offerta consapevole. Nella pagina odierna del Vangelo Gesù vuole costruire il noi nella cerchia dei discepoli, un noi che nessuno esclude, ma che tutti accoglie, abbraccia, riconcilia, aiuta nell’essere fratelli. È come se il Maestro steso dicendo a Giovanni: “Quello che tu consideri antagonista mi è caro tanto quanto te! Cosa al Padre il mio sangue come costi tu! Per lui sono disposto ad offrire la mia vita perché, attraverso strade diverse, che tu non conosci, a me note, possa trovare la salvezza e sperimentare la gioia”.
È necessario riscoprire e rinsaldare il noi, quello familiare ed il noi ecclesiale, il senso di appartenenza ad un movimento o ad un realtà religiosa, sentirsi parte di un corpo, nella diversità dei carismi, nella ricchezza dei ministero. In questo la famiglia è piccola chiesa, in essa si vive la complementarietà nell’amore, la sollecitudine nel dono, si accoglie l’offerta dell’altro per sentirsi completi, si presta il proprio servizio con umiltà, si accoglie quello dell’altro senza pretese, si edifica la casa comune.
Fare tutto nel suo nome
È significativo notare che, se da un lato Gesù spinge il discepolo al allargare il suo sguardo verso gli altri, vincendo le contese ed estinguendo le liti sorte per gelosia e spirito di rivalità, dall’altro rafforza in lui la necessità di tenere fisso lo sguardo su Lui solo per vivere da Lui ogni relazione. Tutto deve essere fatto in Dio perché il segreto della santità sta nel fare tutto sapendo che è per Dio. Così anche un bicchiere d’acqua ricevuto oppure offerto non è un diritto da pretendere, ma un dono ricevuto nel nome di Gesù, perché siamo suoi. È un secondo passaggio che il Signore chiede, dopo quello dall’io al noi, ovvero dal credere che Dio è nostro al considerarci di Cristo. Può sembrare un gioco di parole, ma in realtà è il segno della maturità. Non capita lo stesso con i nostri figli? Quando possiamo dire che stanno crescendo? Quando passeranno dal considerare tutto come loro – non è forse questo l’atteggiamento di un bambino che stringe tra le sue mani tutti i suoi giocattoli, considerando tutto di sua proprietà? – al saper donare agli altri, quanto hanno ricevuto gratuitamente. Noi siamo di Cristo, “egli ci ha fatto e noi siamo suoi” (Sal 99,3) e non possiamo credere che possediamo Dio, quanto piuttosto siamo da Lui posseduti. Dire io sono di Dio significa vivere il primato della grazia, la passività consapevole del dono che scende dall’Alto. Come famiglia siamo di Dio, Egli ci preserva, ci custodisce, ci ama, sostiene il nostro cammino, illumina le nostre notti. Siamo suoi sempre, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, così come non sono i figli ad essere nostri, ma noi siamo dei nostri figli, la prospettiva cambia perché si passa dall’appropriazione al dono. Se dico mia moglie è mia, la rendo una cosa. Se invece vivo sapendo che io sono suo, allora renderò ogni giorno la mia esistenza un dono d’amore alla persona che Dio mi ha messo accanto come compagna di viaggio. In tal modo, lei è un segno di Dio e le creature che sono nate da noi sono le orme che il Signore ha lasciato nella nostra vita di coppia. Gesù chiede di avere questo profondo sguardo di fede. Ecco perché ogni gesto va compiuto nel nome di Gesù, come se servissimo Lui nell’altro/a che ci è vicino, nelle piccole come nelle grandi cose ed il bene che riceviamo, ci è fatto nel suo nome. Solo con questo sguardo di fede, i nostri sensi non saranno di scandalo, ma, animati dall’amore, saranno strumenti di bene.
Dallo scandalo subito per invidia a quello evitato per amore
C’è un ultimo passaggio che Gesù sembra proporre ai suoi discepoli. Giovanni – nel testo l’evangelista Marco lo lascia intendere – si è mostrato scandalizzato di ciò che ha visto ed ha cercato di porre un limite al male osservato, attraverso una condanna palese. Anche su questo punto il Signore chiede di fare un salto di qualità. Non è ciò che entra nell’uomo a rendere impuro l’uomo – abbiamo ascoltato alcune domeniche fa – ma ciò che esce dal suo cuore a contaminarlo (cf. Mc 7,15). Ovvero non dobbiamo guardare allo scandalo vero o presunto che l’altro causa in noi, quanto piuttosto essere vigilanti a non divenire noi motivo di scandalo per i fratelli, soprattutto per i piccoli. È come se Gesù stesse dicendo: “Veglia su di te perché non ci sia nel tuo cuore un pensiero segreto contrario alla legge” (Dt 15,9). Ritorna qui la cura e la responsabilità dell’altro, l’attenzione a sapere vigilare sui propri gesti e sulle proprie parole. È questo il passaggio che in famiglia, tra sposi è necessario compiere. Siamo sempre bravi a storcere il naso e ad alzare la voce dinanzi a ciò che l’altro fa, quando esce dai nostri schemi. Ma è possibile guardare anche a noi stessi, a quello che facciamo, a ciò che, consapevolmente o meno, diciamo? Ci rendiamo conto che gli altri, soprattutto i nostri figli, ci guardano, pendono dalle nostre labbra, assorbono da noi atteggiamenti che in età adulta vorremo correggere?
Tra sposi è di fondamentale importanza evitare occasioni che non aiutano a crescere sia la coppia sia anche i figli, stroncare sul nascere occasioni che potrebbero compromettere l’unità e la pace domestica. È ancora san Francesco ad ammonirci: Ciascuno ha in suo potere il proprio io per mezzo del quale pecca. Sì, è necessario non vivere d’istintività, ma nella consapevolezza che le nostre membra – Gesù parla di mani, piedi, occhio … – vanno offerte “non al peccato, come armi d’iniquità” (Rm 6,13), ma “in servizio di giustizia per la santificazione” (Rm 6,19) perché “Non regni più il peccato nel vostro corpo mortale, così da obbedire ai suoi impulsi” (Rm 6,12). Se Giovanni, vinto dal proprio io ha considerato nemici, coloro che doveva accogliere come credenti in Cristo, anche se da lui lontani, anche noi non dobbiamo far vincere quell’io che Cristo ci chiede continuamente di rinnegare per essere suoi discepoli. In famiglia, però non siamo soli. La persona che mi sta accanto, in nome di Dio, mi aiuta in questa lotta ed io aiuto lei per divenire specchio tersissimo di quel Dio che si compiace del bene operato dal Figlio e dell’amore che Questi riversa nel cuore del Padre. Lo Spirito effuso su di noi ci sostiene, ci abita, ci spinge a non aver paura del nostro egoismo, ma a saperlo combattere con determinazione ed impegno per essere immagine e somiglianza di Dio.
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Cari lettori di Punto Famiglia,
stiamo vivendo un tempo di prova e di preoccupazione riguardo il presente e il futuro. Questo virus è entrato prepotentemente nella nostra quotidianità e ci ha obbligati a rivedere i tempi del lavoro, delle amicizie, delle Celebrazioni. Insomma, ha rivoluzionato tutta la nostra vita e non sappiamo fin dove ci porterà e per quanto tempo. Ci fidiamo delle indicazioni che provengono dal Governo e dagli organi sanitari preposti ma nello stesso tempo manifestiamo con la nostra fede che “il Signore ci guiderà sempre” (cfr Is 58,11).
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