Carcere

Quello che nessun giudice ha mai ascoltato

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di Michela Giordano

Madri, mogli, sorelle anche dietro le sbarre di un carcere. Perché le donne hanno la capacità di ricominciare sempre, come “fiori dopo un temporale”. A colloquio con suor Maria Silvia, volontaria penitenziaria della casa circondariale Le Vallette di Torino.

Tutto è cominciato 150 anni fa. Con una carezza. Inviato a predicare alle detenute del carcere di Cadillac, nel Sud della Francia, il giovane frate domenicano Jean Joseph Lataste, oggi Beato, si ritrova al cospetto di un esercito di 400 dimenticate: prostitute, assassine, ladre, condannate alla solitudine e ai lavori forzati. In cappella, le donne arrivano a capo chino, spinte più dall’obbligo, che dal desiderio. Il predicatore esordisce: «Carissime sorelle». Eccola, la carezza, che in un attimo provoca l’inaspettato: «Le loro teste si rialzano come fiori dopo il temporale». Per 4 giorni, padre Lataste racconta la Misericordia di Dio, l’amore che può far cambiare una vita. Maria Maddalena; Pietro, l’apostolo che ha tradito; Sant’Agostino, sono gli amici che lui presenta loro, come testimonianza di questa metamorfosi. L’Eucarestia – dalla quale per le leggi dell’epoca erano escluse – sarà per loro l’appuntamento a cui le invita a non mancare, il segno dell’innocenza ritrovata.

La grazia di Dio fa breccia nei cuori. È il tempo della speranza. Di quelle 400 detenute, moltissime si convertono e decidono di consacrarsi. Sono le prime “suore domenicane di Betania”: gareggeranno in amore per Gesù, come Marta e Maria nella casa di Betania, così ospitale per il divino Maestro. Nel solco di quella carezza, le domenicane di Betania oggi sono presenti in Italia, Francia, Svizzera, Belgio. 

Due volte alla settimana, suor Maria Silvia si reca nel carcere Le Vallette, a Torino. Come a Cadillac, cerca dove è possibile di testimoniare la speranza. Incontra le donne che vogliono parlare: sono straniere, lontane dalla famiglia, senza nessuno che vada a far loro visita, ma anche italiane con situazioni difficili alle spalle.

Inutile chiedere a suor Maria Silvia qualche dettaglio biografico o qualche elemento sulla cornice in un cui è maturata la sua vocazione. «Metta che sono una domenicana di Betania, che vive in una piccola città nella cintura di Torino. Se serve – è l’unica concessione – sono del 1960». Non si tratta  di un divieto, ma di una scelta, «che ogni domenicana di Betania – racconta – fa: quella di fissare l’attenzione su Dio e sul presente. Padre Lataste ha voluto che la discrezione sul proprio passato personale fosse la base del nostro carisma».

Sorella, si può essere madri, dietro le sbarre?

Una madre in carcere non è meno madre di tante altre madri, non è per forza una cattiva madre: è sempre una madre, con la forza e la fragilità di tutte le madri. Quello che la rende diversa è la lontananza dagli affetti, dalla famiglia. Vive una doppia carcerazione, perché anche in carcere la donna resta il fulcro attorno al quale la famiglia ruota. Occuparsi del suo percorso carcerario, con il pensiero sovente rivolto al fuori: al marito, quando c’è, da sostenere; ai nonni che accudiscono i figli; ai figli che magari hanno assistito al suo arresto, i figli che dopo il suo arresto hanno iniziato ad andare male a scuola, a quelli che sono arrabbiati con lei, alle scuse da inventare perché non può spiegare al piccolo di casa dove si trova. Una madre vive la frustrazione di essersi persa la crescita dei figli. Una di loro mi diceva con angoscia: «Non conosco i suoi gusti, quale fiaba ama, chi sono i suoi amici; non c’ero quando ha iniziato la scuola materna». Forse a qualcuno viene il pensiero: «Se la sono cercata». Ma le donne in carcere non sono sempre criminali incallite.

Spesso sono donne e madri abbandonate dai mariti con figli piccoli, senza un lavoro, che spinte dalla mancanza di soldi accettano di fare un viaggio, di portare un pacco, qualsiasi cosa che possa porre fine alla loro disperazione e alla loro miseria. Alcune pagano per altri, a volte per difendere mariti o fratelli, altre sono soltanto fragili. Basta un unico errore per trovarsi dietro le sbarre. Ed essendo donne hanno la capacità di ricominciare, di stringere i denti, di sorridere di fronte al disegno fatto dal figlio e ricevuto attraverso una lettera, di piangere senza farsi vedere da chi le viene a trovare ai colloqui, perché «altrimenti ci stanno male. Sai devo essere forte». Ecco la forza delle donne, delle madri.

Si può vivere il carcere come redenzione?

La parola redenzione è una parola grossa. Il carcere non redime nessuno, anzi spesso incattivisce. Il carcere non assolve la sua funzione rieducativa e riabilitativa. Spesso diventa scuola di delinquenza. Dovrebbe esserci tutto un apparato che prenda in carico la persona nella sua globalità, mettendo in atto strategie educative, che aiutino la persona detenuta a lavorare su se stessa. Per alcune può forse rappresentare una prima occasione di riflessione, di presa di coscienza. Ci sono donne che riescono a farlo da sole, pensando nella loro cella. Altre non ci riusciranno mai, perché avrebbero bisogno di un aiuto. Il sistema carcere non favorisce questo tipo di percorso. È importante trovare qualcuno che sappia ascoltare, nel rispetto della persona, che sappia sospendere il giudizio e abbia la capacità di distinguere tra persona e reato. Spesso il reato è solo la fine di una storia di disagio iniziata anni prima. È un cammino che richiede tempo, rispetto della persona detenuta. Una donna mi parlava del bisogno di raccontare la sua storia, non quella degli atti giudiziari, ma quella che nessun giudice chiede. Questo rappresentava per lei la possibilità di una vera presa di coscienza del perché aveva commesso quel reato.

Cosa racconta a queste donne?

Per prima cosa, ascolto. Ogni incontro è diverso. Cerco, secondo il carisma delle domenicane di Betania, di far passare il messaggio che è sempre possibile ricominciare, che loro sono e rimangono persone. Senza negare la realtà che stanno vivendo. Dicevo a una di loro: «La legge prevede che tu debba stare qui un certo numero di anni, il come tu ci debba restare dipende da te. Puoi scegliere». Con le donne credenti, che non si sentono più degne dell’amore di Dio, che si sentono giudicate, racconto di un Dio che non giudica, che non guarda al passato, un Dio che ama la compagnia di peccatori e prostitute. Ecco, allora una speranza, un sorriso si abbozza sul loro volto.

Può raccontarci qualche esperienza di riabilitazione?

Non conosco esperienze di vera riabilitazione. Conosco storie di detenute che a fatica e a prezzo di molti sacrifici sono riuscite, dopo una carcerazione, a rifarsi una vita, resistendo alla tentazione di riprendere la strada di un tempo, ma sui luoghi di lavoro rimangono sempre delle ex detenute. Per parlare di riabilitazione bisognerebbe che la società civile fosse capace di ristabilire a livello pubblico la dignità originaria della persona: serve un cambio di mentalità, un tessuto sociale che creda nella persona. Anche in quella che ha sbagliato.




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1 risposta su “Quello che nessun giudice ha mai ascoltato”

Forse nessuno ne parla mai…la condizione nelle carceri italiane è pietosa, ancor di più se vissuta da donne che sono anche madri. Sicuramente scontano una ‘giusta’ pena per il reato commesso, ma un passaggio di questo articolo è fondamentale: “Alcune pagano per altri, a volte per difendere mariti o fratelli, altre sono soltanto fragili”.
Complimenti alla redazione per qst intervista.

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