XXII Domenica T. O. – B

I gesti dell’amore che restituiscono e generano vita

di fra Vincenzo Ippolito

Dobbiamo lasciare che Gesù apra la nostra interiorità ad accogliere l’altro e a lasciarci accogliere senza paura dall’altro - i figli non nascono forse in una coppia proprio quando, per il dono di Dio ci si dona all’altro senza paura? – perché la relazione fiorisca come possibilità di accogliere l’altrui ricchezza e di condividere il proprio tesoro interiore.

Testo Mc 8,31-37

In quel tempo, Gesù, uscito dalla regione di Tiro, passando per Sidòne, venne verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli. Gli portarono un sordomuto e lo pregarono di imporgli la mano. Lo prese in disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: «Effatà», cioè: «Apriti!». E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente. E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano e, pieni di stupore, dicevano: «Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!». 


 

Con la pagina odierna del Vangelo, ci troviamo in territorio straniero, fuori dalla Galilea. Marco, infatti, interessato a mostrare come la salvezza sia donata gratuitamente anche ai pagani, presenta due miracoli, il primo operato per la preghiera insistente di una donna siro-fenicia (cf. Mc 7,24-30), il secondo nella Decapali. Al seguito del Maestro, anche noi chiediamo il dono del docile ascolto della Parola sua e la proclamazione gioiosa delle meraviglie che Egli solo opera nella nostra vita.  

Gesù, il Dio in cammino

La cornice letteraria del brano marciano – Gesù, uscito dalla regione di Tiro, passando per Sidòne, venne verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli – ci presenta un’immagine particolarmente bella di Gesù. Il Maestro di Nazaret, infatti, ama viaggiare, di continuo cammina, entra ed esce dalle città e dai villaggi, annuncia la Buona Novella come il seminatore che sparge la sua semente e, non inorridito dal male del peccato, né scandalizzato dalla colpa, con misericordia chiama i peccatori a conversione. Il Figlio di Maria ha una parola per tutti e ad ognuno dona il suo sorriso e la profondità del suo sguardo che effonde la potenza della misericordia e fa sentire il calore dell’abbraccio del Padre, ricco di ogni bontà. Non c’è casa che non visiti se invitato, né infermo che non tocchi quando il suo cuore, stretto nella morsa della compassione, sente il bisogno di donare salvezza. Non ci sono muri che dividano, né spazi che separino gli uomini per Gesù perché tutti hanno il diritto di ascoltare la sua Parola e di credere nel Vangelo che dona la vita in abbondanza. È bello vedere lo stile feriale di Gesù, in Lui non c’è formalità, né regola che regga, è libero da ogni condizionamento, passa in territorio pagano, a Sidone, come prima a Tiro senza nessun problema, solo desidera che la fede apra il cuore dell’uomo alla sua Persona e alla potenza del suo Vangelo. Gesù è il Dio che cammina nella vita degli uomini, che entra nelle loro storie, che interseca le strade strette spesso in salita per il dolore e la difficoltà di una vita non semplice da sbarcare. Con Gesù Dio è vicino, prossimo, non solo a noi, alla nostra famiglia e comunità, ma a tutti. Gesù è il Dio per tutti, senza esclusione di razza, popolo e lingua, lo dirà in seguito san Paolo. E se Isaia aveva spinto Israele a fare spazio alla venuta di Dio – Allarga lo spazio della tua tenda, Is 54,2– ora Gesù realizza quella parola con una vita tutta protesa verso gli altri.

Il posto di Cristo è anche quello del cristiano – dove sono io là sarà anche il mio servo, Gv 12,26 – e Marco sta dicendo alla sua comunità che la Chiesa del Risorto deve fare proprio il suo stile di prossimità perché i luoghi di tenebra vedano la luce, le periferie fioriscano per la solidarietà e la carità fraterna che nasce da cuori nuovi, i lontani vengano accolti ed amati, gli stranieri ospitati e curati. È questo lo stile della Chiesa di Cristo, dei discepoli suoi che, consumati dalla potenza dello Spirito che assimilano nella meditazione del Vangelo e nell’Eucaristia celebrata, li rende nel mondo sale e luce. Non è possibile chiudere Dio in un territorio, in uno spazio, in una istituzione, in un gruppo, no! Dobbiamo allargare lo spazio della nostra tenda, pensare in maniera diversa, aprici alla globalizzazione della solidarietà e della carità, spingerci come famiglie e come Chiesa nei territori “delle nostre Decapoli” perché nel deserto possa fiorire la vita. È questa la conversione che Cristo ci chiede, soprattutto oggi, non possiamo continuare a difendere interessi di parte o privilegi nazionali. È questo il tempo della carità sfrenata perché il cristiano è un peccatore perdonato che dona la ricchezza di quella misericordia gratuita ed immeritata che trasforma la vita e la rende, come quella del Maestro, pane per la vita dei fratelli.

È necessario nelle nostre famiglie far proprio lo stile di Cristo, accostarsi con affetto, rendersi prossimi con tenerezza, alleviare con cura, sollevare con amore, perché l’altro è la mia carne, lo straniero che bussa alla mia porta è Gesù che mi chiede di essere riconosciuto ed accolto. Ogni famiglia è il luogo dove ci si educa riconosce ed accoglie Gesù nell’altro perché, fuori dalle mura domestiche si viva la prossimità, la spiritualità del buon Samaritano.

Portare Gesù agli altri e gli altri a Gesù

Sfugge spesso, nel leggere il Vangelo, la presenza di personaggi minori, secondari che, pur rimanendo nell’ombra, cambiano totalmente le situazioni e, a differenza delle figure più preminenti, dimostrano una fede che neppure i discepoli manifestano. Si pensi ai servi di Cana che attingono l’acqua e sono i primi testimoni del primo segno del Messia (cf. Gv 2,1-11) oppure alle quattro persone che scoperchiano il tetto della casa dove c’è il Signore, permettono al paralitico di essere guarito per la fede che ripongono in Gesù (cf. Mc 21-12). Un caso analogo lo riscontriamo nel brano odierno del Vangelo: gli portarono un sordomuto e lo pregarono di imporgli la mano (v. 32). L’evangelista Marco non specifica chi siano, ma è chiaro che sta indicando la forza della preghiera di intercessione e la potenza dell’unità nel chiedere con insistenza al Signore un suo intervento salvifico. Molto vale la preghiera del giusto fatta con perseveranza, ammonisce san Giacomo (5,16).

Nei Vangeli non solo ci vengono trasmesse le parole che Gesù rivolge ai suoi perché nella preghiera al Padre si chieda con fede ciò che si desidera ricevere, ma ci vengono offerti esempi straordinari di supplica accorata rivolta a Gesù per ottenere la grazia e la salvezza. Si pensi a coloro che intercedono per la suocera di Pietro (cf. Mc 1,30) o anche alla donna siro-fenicia che presenta al Signore la situazione della sua figlioletta (cf. Mc 7,26). L’Evangelista, con una frase lapidaria, priva di orpelli letterari, ci dona una lezione tra le più belle sul dialogo che il discepolo di Cristo deve avere con il suo Signore. La preghiera – gli Evangelisti lo diranno in altri luoghi, in maniera più chiara e diretta – non è dire a Dio ciò che è bene che Lui faccia, come debba intervenire e quali tempi utilizzare. La preghiera non è vuota verbosità, sfogo confusionario delle proprie difficoltà o dei moti di un cuore che non riesce a contenersi – talvolta può capitare anche questo, ma la preghiera non è questo! – quanto, piuttosto relazione amorosa con Dio che è nostro amico, dialogo confidente con il Signore che si fa nostro compagno, scambio filiale con il Padre per compiere, pur senza capirla appieno, la sua volontà. Nella preghiera – è bene che sia sempre modellata sul Padre nostro, che è il metro di misura su come si prega e cosa si debba chiedere al Padre – si presenta a Dio la situazione, senza la pretesa di dire a Lui cosa fare, ma abbandonandosi alla sua mano, alla bontà del suo cuore misericordioso. La supplica nasce dall’umiltà – non è necessario dire a Dio tante cose, Lui già le sa, ma si chiede per dire a Lui che può anche servirsi di noi per compiere la sua volontà in quella determinata situazione –  si nutre di silenzio, cresce nella confidenza. Chi prega utilizza lo sguardo per comunicare con Dio, sa che la sua parola cade nel terreno gravido di speranza del cuore del Padre, lascia lavorare lo Spirito perché la susciti, si abbandona come Cristo alla croce nella sofferenza perché l’amore suo salva l’uomo da ogni situazione di morte.

Questi discepoli senza nome compiono due azioni: portano il sordomuto – ed questi si lascia portare! – e pregano di imporgli le mani. La mano di Gesù dona salvezza ed essi lo sanno, non presumono di salvare la vita di quell’uomo, ma lo conducono alla Sorgente della grazia, alla Fonte della rigenerazione spirituale. La preghiera è accompagnata da un gesto che prepara l’intervento di Cristo. Ecco perché la preghiera è preceduta dalla disponibilità a compiere ciò che si chiede a Dio, a collaborare con Lui alla liberazione dei miseri, a ridonare dignità agli oppressi. Cristo ha bisogno di collaboratori e non si può pregare senza fare la propria parte, senza aiutare il Signore a compiere la sua opera, senza prestarsi come la Vergine Maria perché, con il proprio Eccomi, Dio entri nella storia degli uomini e doni salvezza.

Marco sta dicendo alla sua comunità che tra loro è di fondamentale importanza la preghiera di intercessione, di mediazione. L’altro è parte di te, della tua vita, è necessario pregare per lui e presentarlo al Signore. Non puoi dimenticarti di lui perché nella Chiesa la fraternità ti conduce a prenderti a cuore le sorti altri e a non chiuderti nell’egoismo e nell’indifferenza. È quanto deve accadere nella famiglia, piccola chiesa: il marito deve presentare la propria moglie al Signore ogni giorno e pregare Gesù che riveli la sua misericordia, lo stesso anche la moglie, in quella gara reciproca dove si porta l’altro a Dio proprio quanto l’altro sta conducendo te. Al tempo stesso però, come il sordomuto, ci si deve far guidare: per il sacramento nuziale l’altro media Dio e mi conduce a Gesù, quando io non vedo e non sento, devo lasciarmi guidare senza paura. L’altro è il mio occhio ed il mio udito, la sua mano mi conduce alla vita, non mi porta nella valle della disperazione e della morte. La preghiera in famiglia nasce e cresce nella fiducia di lasciarsi guidare e nel guidare i figli verso Cristo, solo Lui ha parole di vita eterna, solo Lui dona la gioia e la pace che nessuno potrà toglierci.

Esercizio continuo poi nella preghiera – anche in questo bisogna farsi guidare! – sta nel non dire a Dio ciò che deve fare, non legargli le mani, ma accogliere con gioia la sua volontà. Solo quando Dio vede un cuore umile, apre le sue mani e opera meraviglie. L’imposizione delle mani richiesta da quelle persone è il segno che nella preghiera è necessario domandare l’essenziale. Nell’orazione è il discernimento che lo Spirito dona a nutrire la relazione con Dio. Devo sapere se ciò che chiedo è secondo la volontà del Padre che Gesù mi rivela. Spesso, bisognerebbe forse dire la maggior parte della volte, non vediamo esauditi perché non chiediamo il bene o non lo chiediamo con andrebbe fatto, ovvero con umiltà, abbandono e fede sconfinata. Dio è sempre pronto ad esaudirci, mai a darci ciò che, pur creduto un bene, può essere per noi poi motivo di male.

Nei segni tangibili la salvezza

Presentata la supplica la folla orante scompare e Gesù solo è in disparte con il sordomuto. Avrebbe potuto comandare imponendo le mani oppure pregare il Padre perché lo esaudisse, come farà con Lazzaro (cf. Gv 11,41-42). In questo caso Marco presenta un rituale che richiama il battesimo quasi a dire: il Signore si concede attraverso i segni, tu incontri il Risorto nell’umiltà dei sacramenti che la Chiesa celebra nel nome del Signore, tu ti salvi perché, nella povertà degli elementi umani, Cristo non disdegna di trasmettere la sua potenza di vita.

È necessario ritornare al linguaggio dei gesti per comprendere la dinamica dei sacramenti: Gesù pone le dita negli orecchi e con la saliva tocca la lingua del sordomuto, ovvero la vita del Signore penetra lì dove il male ha impedito di far fiorire il progetto del Padre – la parola  e l’udito erano nel disegno di Dio per l’uomo fin dalla fondazione del mondo – ed ora Gesù opera con potenza, ma solo nella docilità di colui che non teme la povertà dei segni, ma li trascende per incontrare in essi Dio. Marco desidera che i suoi entrino nel linguaggio sacramentale, che non si fermino al segno della celebrazione liturgica, ma che risalgono al suo Autore e penetrino nel senso recondito di ciò che appare e può anche talvolta scandalizzare.  

È necessario educarsi al linguaggio dei segni e comprendere che ogni nostro gesto contiene in sé misteriosamente una promessa di bene. Un carezza, un bacio – quando più un bacio che è trasmissione tra gli sposi del proprio alito, della propria vita, quasi a dire “Ti dono la vita perché tu viva della mia vita!” – un abbraccio trasmettono la vita, manifestano l’amore, chiariscono i sentimenti, guariscono il cuore. Questo fa Gesù con i sacramenti: ci guarisce e ci risana, ci rafforza e ci ristora, ci sostiene e ci accompagna senza mai lasciarci soli nel cammino. Ma i gesti in sé non bastano, devono essere accompagnati dalle parole – proprio come il rivelarsi di Dio in fatti e parole intimpanente connessi, lo insegna il Concilio Vaticano II nella Dei Verbum 2 – parole che chiariscono i gesti senza banalizzarli, mentre il segno offre concretezza e visibilità alle parole che resterebbe astratte senza il gesto. È questa la dinamica di ogni sacramento, linguaggio che Dio sempre utilizza con noi: le parole non bastano, ci vogliono i fatti, ma anche i fatti vanno compresi alla luce della parole dette, quelle sussurrate nel segreto per cogliere la reale intenzione del cuore e non fermarsi all’apparenza.

Il linguaggio della nostra fede deve nutrirsi di parole che si rispecchiano nei fatti ed è questo che sostiene la vita familiare e conduce i figli a crescere in spessore di umanità e responsabilità. Quando le parole non vengono precedute dai fatti, scricchiola la fiducia, l’attenzione viene messa nello spiare l’altro se mi dice la verità, ovvero serpeggia il dubbio che non fa crescere l’amore, la stima e l’abbandono nell’abbraccio dell’altro. Abbiamo bisogno di parole vere che si traducono in azioni significative: solo così la salvezza è un dono offerto ed accolto.

La famiglia è il luogo dove si parla e si impara il linguaggio della coerenza tra ciò che si fa e quanto di dice. Il parlare bene ed il razzolare male non si addice ai discepoli del Cristo perché in Lui non si riscontra. Ci possono anche essere momenti di difficoltà e di stanchezza, ma è necessario vigliare su se stessi perché l’esempio in famiglia è come la radice per una pianta, gli permette di rimanere salda tra le mille tempeste. I figli devono vedere e esperimentare che è possibile parlare bene ed operare secondo quello che si è detto, se non imparano questa armonia tra le mura domestiche venderanno chiacchiere, ma non vivranno nella quotidianità la dinamica e l’armonia sacramentale dei fatti e delle parole che concorrono a donare l’amore e a tramettere la vita e la salvezza. Discorso analogo vale per la promessa del matrimonio: alle parola bisogna far seguire i fatti, nella consapevolezza che la fedeltà è un dono di Dio da chiedere, accogliere e far fruttificare con responsabilità e fede sempre crescente.

Aprirsi alla vita

Effatà, apriti! (v. 34), così dice Gesù al sordomuto, ovvero ape i suoi orecchi e le sue labbra, lo apre all’esterno, può finalmente comunicare ciò che si porta dentro e ascoltare, ovvero ricevere e incamerare in sé ciò che proviene dall’esterno, dagli altri. Gesù apre l’uomo chiuso in se stesso alla comunicazione e allo scambio: solo Gesù può operare questa osmosi tra ciò che c’è dentro di noi e quanto è all’esterno. Come un giorno con la forza dello Spirito, spinse i discepoli il mattino di Pasqua, ad annunciare la parola di vita aprendoli all’esterno, solo Lui può in noi vincere la paura di relazionarci agli altri e non considerarli fratelli. Gesù apre il nostro cuore per accogliere gli altri e per creare ponti di comunione e di fraternità. È Lui, sempre e solo Lui che sbaraglia il regno di Satana che ci chiude in noi stessi e permette l’armonia della fraternità e della vita di coppia e di famiglia. Gesù deve emettere il suo soffio di vita sulle nostre famiglie e comunità religiose e parrocchiali perché è Lui che deve vincere nei suoi discepoli la paura e la ritrosia dell’altro, del diverso, dello straniero – e a quanta paura del diverso, che è poi nostro fratello, assistiamo oggi! – anche e soprattutto quando questa paura è nei riguardi delle persone che ci sono accanto. Dobbiamo lasciare che Gesù apra la nostra interiorità ad accogliere l’altro e a lasciarci accogliere senza paura dall’altro – i figli non nascono forse in una coppia proprio quando, per il dono di Dio, si accoglie l’altro e ci si dona all’altro senza paura? – perché la relazione fiorisca come possibilità di accettare l’altrui ricchezza e di condividere il proprio tesoro interiore.

Solo se in noi e nelle nostre famiglie testimonieremo il primato del dono di Dio, la vita diverrà un canto di gioia e di stupore per Dio che ci comunica la sua vita e ci abilita a vivere tra noi relazioni armoniose che sono il riflesso in terra della comunione di Vita trinitaria.




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