XIX Domenica del T. O. – B La capacità di fermarsi e di vincere le nostre paure Autore articolo Di PUNTO FAMIGLIA Data dell'articolo 9 Agosto 2015 2 commenti su La capacità di fermarsi e di vincere le nostre paure di fra Vincenzo Ippolito Il segreto della forza per il discepolo del Signore sta nel rimanere davanti a Lui. Dove attingere energia e forza se non in Dio? Come vincere il Tentatore, riconoscendo i suoi lacci ed evitando le situazioni di morte? Testo 1 Re 19, 4-8 In quei giorni, Elia s’inoltrò nel deserto una giornata di cammino e andò a sedersi sotto una ginestra. Desideroso di morire, disse: «Ora basta, Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri». Si coricò e si addormentò sotto la ginestra. Ma ecco che un angelo lo toccò e gli disse: «Alzati, mangia!». Egli guardò e vide vicino alla sua testa una focaccia, cotta su pietre roventi, e un orcio d’acqua. Mangiò e bevve, quindi di nuovo si coricò. Tornò per la seconda volta l’angelo del Signore, lo toccò e gli disse: «Alzati, mangia, perché è troppo lungo per te il cammino». Si alzò, mangiò e bevve. Con la forza di quel cibo camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l’Oreb. La Liturgia odierna, come Prima lettura, in unità tematica con la pagina evangelica, ci offre pochi versetti, appena cinque, del cosiddetto “ciclo di Elia” (cf. 1Re 17,1-2Re 2,18). Si tratta della storia del grande profeta vissuto nel IX sec. a. C. al tempo del re Acab e di sua moglie Gezabele. Dopo la siccità annunciata per l’infedeltà di Israele (cf. 1Re 17) e la disfatta dei profeti di Baal (cf. 1Re 18,20-40), Elia, minacciato di morte (cf. 1Re 19,2), scappa impaurito per salvarsi. Proprio nella fuga ci viene presentato in 1Re 19,4-8 Elia, stanco nel corpo, spossato nel cuore. Quale migliore compagno per ritrovare in Dio il refrigerio e la pace? Si cammina solo se si ha la forza di “stare” La storia di Elia è una delle più significative e belle della Scrittura. Profeta di fuoco, dalla parola che arde come fiaccola – così lo definisce il libro del Siracide 48,1 – è l’uomo totalmente proteso a Dio. Così egli stesso si presenta, in una formula solenne di giuramento: “Per la vita del Signore alla cui presenza io sto …” (1Re 17,1). Elia è l’uomo che vive alla presenza del Signore e da Lui riceve persino il nome – Elia significa Yhawè è il mio Dio – quasi ad indicare che la sua identità sta in Dio, nell’appartenere a Lui, nella relazione vitale ed amorosa con il Signore degli eserciti, il Re delle schiere d’Israele. La Scrittura lo presenta solo, senza famiglia e senza casa, pellegrino e mendicante, coraggioso davanti ai soprusi del re Acab, pronto a non piegarsi nella professione di fede dinanzi alle pretese di Gezabele che sta conducendo il popolo nel baratro dell’infedeltà e dell’idolatria. Non ha bisaccia eppure nessuno in Israele è ricco come lui dell’unica cosa necessaria, la Parola di vita che esce dalla bocca di Dio (cf. Dt). Non cerca consensi, né il plauso delle folle ed il ritornello che sembra si ascolti dalle sue labbra è “Il Signore è mia parte di eredità e mio calice, nelle tue mani è la mia vita” (Sal 15,5). Per Elia Dio è tutto e stando davanti a Lui, dal Signore riceve vita e salvezza, gioia e forza. La nostra identità è ancorata in Dio, Lui è veramente tutto per noi, anche se non ce ne accorgiamo. La nostra esistenza cresce e fiorisce solo se rimaniamo davanti a Lui in quella continua cura del sole – così chiamava la preghiera Carlo Carretto a quanti bussavano alle porte di Spello per una esperienza prolungata di preghiera – dove cambia il colore della pelle perché non ci si sottrai ai suoi raggi. Così è necessario vivere la relazione con Dio: stando alla sua presenza, senza stancarsi, con momenti prolungati, mai frettolosi – il santo Curato d’Ars si chiedeva: “Come mai quando siamo davanti al Signore andiamo di fretta?” – perché il suo sguardo consumi il nostro cuore, il suo amore ci riempia nell’intimo e la sua luce ci trasfiguri al pari di Gesù sul monte Tabor. Il segreto della forza per il discepolo del Signore sta nel rimanere davanti a Lui. Dove attingere energia e forza se non in Dio? Dove ricevere il coraggio e la determinazione nel bene? Come vincere il Tentatore, riconoscendo i suoi lacci ed evitando le situazioni di morte? Elia ci insegna che la vita spirituale, il cammino di fede nasce dalla statio, dalla capacità di fermarsi, come Maria di Betania, ai piedi del Signore per ascoltare la sua Parola, vivendo di Lui ed in Lui. E così misteriosamente lì si scopre che lo stare davanti a Dio dona forza nello stare davanti all’altro, nel vivere alla sua presenza. Questo è vero soprattutto nella relazione matrimoniale. Adamo, nel paradiso dell’Eden, cercava proprio una creatura che gli potesse essere simile – letteralmente che gli potesse stare di fronte – e quando trova Eva esulta nel canto e nel tripudio di gioia, salutandola come carne della sua carne, osso dalle sue ossa. L’altro, nella vocazione nuziale, è la sorgente della mia identità personale. Più sto davanti all’altro/a e più mi scopro parte della sua vita ed insieme ci comprendiamo oggetto dell’amore di Dio che chiama tutti alla carità perfetta sulla via del suo figlio Gesù. Stare davanti a Dio e rimanere davanti all’altro: è il segreto delle nostre famiglie. La fuga non è contemplata, pause di riflessione non servono se non per rimanere con Dio, solo Lui può giustificare i silenzi, senza che questi non diventino scuse. È così che si educano i figli, alla loro presenza, mai demandando ad altri il ruolo di prendersi cura di loro e mai sottraendosi al loro sguardo perché il silenzio dell’esempio incide molto di più di fiumi di parole dette ogni tanto. Divorato dalla paura, in fuga per salvarsi la vita L’amore fa correre per la gioia – si pensi alle donne venute al sepolcro di Gesù, il mattino di Pasqua – ma talvolta la paura sembra dare una marcia in più alle nostre gambe. E se energia di vita è l’amore, di segno contrario, invece, il timore. Esso allontana dagli altri, chiude nella solitudine più buia, fa crescere nel cuore lo scoraggiamento, nel ronzio interiore di voci che seminano una morte ben più lacerante di quella dalla quale si fugge. Elia scappa per la paura di morire. Sembra che in un attimo abbia perduto la fonte della sua vita, la sorgente del suo coraggio. Il profeta, l’uomo di Dio ha dimenticato Dio, ha iniziato a guardare la realtà in orizzontale, perdendo il gusto della trascendenza. Il Signore non è il suo Dio – in tal modo la lontananza da Dio diviene perdita della propria identità! – e le parole riferitegli da parte di Gezabele lo portano non solo lontano dagli uomini, ma, come Giona, in senso opposto di marcia rispetto alla vocazione ricevuta. Da uomo della parola, diviene l’uomo del silenzio, non parla, cammina senza meta. A lui interessa solo scampare dalla mano vendicativa di Gezabele. Elia – è quasi tragico il semplice dirlo, ancor di più è vivere questa esperienza – non vuole più sapere nulla del Dio d’Israele perché ora, nel momento della sofferenza, sembrano vuote le parole del salmista: “La tua grazia vale più della vita” (Sal 62). Non è semplice fare un salto di fede nelle situazioni della nostra vita, credere che il Signore ci accompagni, vedere la sua mano e percepire, nel silenzio, la sua voce assordante. Questa è la fede: acconsentire ad un presenza, accogliendo la sua apparente assenza. E qui Elia è unto profeta, uomo di Dio, nella sua storia, nel dramma della sua identità che si ribella a quel Dio che rappresenta la sua vita. Egli sta scappando non tanto da Gezabele, ma dalla sua identità di uomo di Dio, non si vuol comprendere come colui per il quale Yhawè è il mio Dio. Elia vive la lacerazione interiore tra l’obbedienza incondizionata a Dio al quale si sente affettivamente ed esistenzialmente legato e ciò che il suo cuore vuole, ovvero salvarsi, gettando all’aria la sua missione. Il profeta smette di essere la bocca di Dio, l’uomo dell’ascolto e della parola, il testimone franco e coraggioso del primato del Signore unico d’Israele, della sua Legge, della sua presenza vigile e provvidente. Dov’è l’uomo che ha annunciato in nome di Dio la siccità? Si è dileguato? Ed il profeta servito dalla vedova che vedeva il suo orcio d’olio e la sua giara di farina prodigiosamente sempre gravide nel partorire abbondanza (cf. 1Re 17,16)? Non si vede più in giro! E l’intrepido nemico dei seguaci di Baal, messi a morte presso il torrente Kison (cf. 1Re 18,40) di la sua mano? La paura gli avrà fatto cambiare aria! La Scrittura del dramma del profeta sottolinea, tra le altre cose, l’incapacità di pregare. Non è questo un elemento secondario perché, nella difficoltà, la prima cosa che salta è la relazione con Dio, il dialogo amoroso nella preghiera. Il Signore non si avverte più come bisogno fondamentale, la sua amicizia e il parlare con Lui appare superfluo. L’uomo, ripiegandosi su di sé, dimentica Dio con il quale poter parlare e che parla all’uomo, invitandolo alla comunione con sé. È quanto capita ad Elia, la sua parola, capace di aprire e chiudere il cielo, diviene lamento, quasi imprecazione, richiesta sì, ma di morte. È buffa la scena, scappa per non morire e poi chiede che il Signore gli tolga la vita: Ora basta, Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri (1Re 19,4). Dire basta quante volte capita anche a noi! Quante volte, esacerbati da situazioni insopportabili, vogliamo farla finita, non abbiamo la forza di affrontare i problemi come dovremmo? In realtà, leggendo il Testo originale, il profeta non dice basta, ma è troppo: sì, è troppo quello che Dio chiede, troppo è il cammino da fare, troppa è la persecuzione da subire, troppa la mortificazione da sperimentare, troppa la solitudine da vivere. Sembra che la misura sia piena, la misura della pazienza – ogni limite ha una pazienza, diceva Totò! – la misura dell’amore, la misura dell’offerta e del sacrificio, la misura dell’oblazione e della parola donata. L’uomo misura tutto e, giunto al limite, si ribella. Dio, invece, ha una sola misura nell’amore e nel dono, amare senza misura. In ciascuno di noi abita Elia o, per meglio dire, ciascuno di noi è un po’ Elia! Quando gettiamo la spugna e dimentichiamo volutamente di essere parte della carne della persona che ci è accanto; quando fuggiamo per abbeverarci lontano dal cuore di colui/colei che Dio ci ha donato e che noi abbiamo accolto come unico pozzo di Giacobbe per noi; quando le parole dette, gli impegni presi sono un fardello insopportabile, proprio allora siamo con Elia nel deserto, persone che hanno perduto la propria identità, capaci di vedere egoisticamente solo la propria salvezza, perdendo di vista il bene ed il bello del noi. In un attimo siamo capaci di fare grattacieli, di costruire cose straordinarie nei nostri rapporti e, un attimo dopo, siamo a terra, stremati dalla fatica, incapaci di ricominciare. Non ci riconosciamo con quello che eravamo prima e non siamo disposti a vivere nella fedeltà ciò che liberamente abbiamo scelto. La paura di continuare a camminare alla presenza del Signore diviene recriminazione della propria felicità, diritto sbandierato a vivere come meglio si crede e vuole. È allora che la vita insieme cade a pezzi, uno dopo l’altro, la libertà, che è poi libertinaggio, porta a strappare dalle mani dell’altro la vita che gli si è affidata perché la custodisse come la pupilla del suo occhio. Il tarlo che consuma le radici della fedeltà, di ogni fedeltà sia matrimoniale o sacerdotale, di religiosi o di fidanzati, come anche di semplici amici, è la paura di vivere, credere, soffrire, amare fino in fondo, fino alla fine! Se oggi sono diverso da quello che ero per te ieri, se la mia identità è liquida, ovvero sempre soggetta ai cambiamenti – cambia e deve mutare la modalità di vivere la mia individualità e le mie scelte, ne posso aggiungerne altre, ma non posso cambiare identità come voglio e credo (non vale forse questo discorso anche per la questione di genere, il cosiddetto gender?) – non sarò mai sicuro delle acquisizioni raggiunte, anzi non ce ne saranno per me e così la mia vita e quella delle persone che dico di amare sarà soggetta al caso, al fato! Sì proprio cosi, io dirò rosa – è questa la radice del nominalismo de Il nome della rosa di Umberto Eco – ma, dicendo rosa, io avrò solo una parola senza una reale consistenza perché le parole non hanno per me, per noi significato, sono solo un soffio – flatus vocis – incapaci di incidere come solchi profondi nel mio cuore e nella nostra storia! Dio rimane fedele al suo amore per noi, sempre! Chi mi salverà da questo corpo votato alla morte? Si chiede Paolo in una situazione limite simile a quella del profeta Elia. La salvezza – sembra rispondere il salmista – viene dal Signore, egli ha fatto cielo e terra (Sal 121,2). L’uomo, ripiegato su se stesso, è incapace di trovare il bandolo della matassa della propria vita, si dimena come un pulcino nella stoppa, non riesce a liberarsi senza che Dio intervenga come il Signore ed il Creatore, il Salvatore ed il Difensore. Sembra strano, ma proprio quando l’uomo ha perso la sua identità nella relazione amorosa con Dio, quando il Signore è stato tolto in una maniera così repentina quanto anche inconsapevole, proprio allora Dio rivela la sua identità, mostra il volto della sua misericordia, si fa conoscere come il Pastore grande e bello alla ricerca della sua pecorella smarrita. È questo che più sconvolge e spesso scandalizza del nostro Dio: il suo perdonare l’errante, condannando l’errore, la tenerezza nell’accogliere il peccatore, gettando in fondo al mare il suo peccato. Ci aspetteremmo da Dio un comportamento diverso, come il figlio prodigo che crede, ritornato a casa, di incontrare un padre implacabile e severo. Non darò sfogo all’ardore della mia ira – confida il Signore per bocca di Osea – non tornerò a distruggere Efraim, perché sono Dio e non uomo; sono il Santo in mezzo a te e non verrò nella mia ira (Os 11,9). Sì, Dio non è uomo, i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie (Is 55,11). Il Signore è misericordia e non riusciremo mai ad esaurire con la nostra mente limitata il mistero dell’amore di Dio per noi. Ecco la radice della fedeltà del nostro Dio, il suo venirci incontro, con la dolcezza di chi previene nella ricerca e con la grazia della guarigione e che persegue solo e sempre il bene dell’altro. Nell’angoscia di Elia, il Signore è balsamo di consolazione; nella sua notte è luce, nel suo dolore è consolante Presenza, lo diciamo nella Sequenza di Pentecoste, Nella fatica riposo, nella calura riparo, nel pianto Conforto. Dio si fa vicino al profeta e, come nel caso dei discepoli di Emmaus, entra nel dramma della sua vocazione, lo raggiunge nella sua fuga, lo visita nelle vie contrarie alle strade disegnate dalla sua volontà. Si realizza così la parola del Salmo 90 Egli darà ordine ai sui angeli di custodirti in tutti i tuoi passi. Un angelo si avvicina ad Elia e lo tocca – quale delicatezza, quale tenero gesto di Dio che scuote senza squassare, entra senza violentare! – e non dona risposte, quelle che il profeta si aspetterebbe, non si siede accanto a lui sotto al ginestro, spiegandogli cosa sta succedendo. Dio non è prolisso, ma dona quella parola che risana e spinge in avanti. A Lui interessa permettere all’uomo di sollevare lo sguardo per vedere il futuro, per aprirsi alle meraviglie che Dio opera nella vita dei suoi servi. Non era forse questo che Dio aveva detto ad Abramo: Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle, tale sarà la tua discendenza (Gen 15,5)? Dio guarda sempre in avanti e vuole che anche l’uomo lo faccia, si spinga in avanti con fiducia ed abbandono. Non bisogna farsi irretire dal presente, ma librarsi con fiducia nel cielo della volontà di Dio, con la leggerezza di un uccello che si abbandona al vento. Alzati e mangia, dice il messaggero divino. C’è del pane e dell’acqua, ciò che è necessario per riprendere forza ed Elia, incurante della visita di Dio, quasi allucinato dai morsi della fame, come se si trattasse di un sogno o di un miraggio nel deserto, mangia e beve e poi torna a dormire. Anche qui, Dio non si scandalizza di Elia, ma gradualmente educa il suo profeta ad accogliere la sua volontà. L’angelo, infatti, è il segno di questa presenza discreta che spinge l’uomo con delicatezza, lo rassicura con tenero amore. L’uomo deve obbedire a Dio, deve aprirsi alla sua novità, ma secondo le sue forze, secondo i tempi del suo cammino. Elia ha bisogno di tuffarsi nuovamente nel dramma del suo dolore, deve gettarsi nel sonno dell’oblio per non ricordare gli obblighi della sua vocazione. Si tratta del Limbo dei disobbedienti e dei ribelli, il luogo dove abitiamo anche noi quando, ignavi, Dio sopporta la nostra ritrosia e cura le lentezze del nostro cammino. C’è bisogno di tempo per riprendere il cammino! Questo dobbiamo dircelo senza paura, il tempo è necessario a metabolizzare un lutto, interiorizzare un dolore, accogliere una situazione complicata, fare un salto di qualità nei nostri rapporti familiari. Sopportare le lentezze dell’altro, i tempi della persona che mi è accanto, del figlio che si attarda e non vuol capire – ciascuno aggiunga ciò che accade nelle mura della sua casa! – quante situazioni in famiglia richiedono di non guardare l’orologio! La gradualità è l’esigenza dell’amore che accoglie l’attesa perché l’altro realizzi ciò che Dio gli chiede. Noi siamo capaci di sopportare i tempi dell’altro, ma a condizione che poi lui obbedisca a ciò che noi vogliamo. Questo non è giusto! L’altro, con il tempo, al pari di un albero, cresce per realizzare ciò che gli è proprio. Inutile chiedere a un pero di produrre fichi oppure ad un pino di fruttificare mandorle. È così anche nell’amore! Il tempo porta ad esprimere ciò che ciascuno è, a tirar fuori il buon che ha nel tesoro del cuore. Talvolta il tesoro è talmente in giù che c’è fatica nell’estrarre il forziere, ma la carità, l’amore vero ha come sorella germana la pazienza! Dio ha pazienza con noi, tanta. L’angelo va da Elia per ben due volte, ma Gesù nei riguardi di Pietro, ad esempio, utilizza come misura il settanta volte sette. In amore non si conta – che brutto, quando tra gli sposi si recrimina ciò che si è fatto per amore! – ma si dona sempre, con la forza che viene da Dio. L’angelo dona perché è da Dio. Io posso donare tempo ed energie nuove all’altro/a, se Dio è in me, se io vivo in Lui ed il suo amore in me fa meraviglie. In tal modo donerò non ciò che è mio, ma quanto il Signore comunica a me per la vita dell’altro/a che in me trova il volto misericordioso di Dio. La persona che mi è acanto mi dona il cibo di Dio, l’acqua del suo amore mi ristora, la sua presenza mi spinge ad una nuova Pasqua. Come Elia, l’altro mi rialza dalla mia prostrazione se lo accolgo come angelo, se è messaggero di Dio per me. Camminare con una meta ben fissa Con la forza di quel cibo [Elia] camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l’Oreb (1Re 19,8). Per le nostre famiglie il cibo che dona forza e rinfranca l’anima è l’Eucaristia, il Cristo, Pane vivo disceso dal cielo. Senza Lui non possiamo vivere, senza nutrirci del suo Corpo, nei segni umili del Pane e del Vino, vaghiamo invano. Con Lui la meta della nostra vita si fa chiara, raggiungibile la vocazione ricevuta come promessa di bene, avvincente l’ideale della santità coniugale e familiare. Nelle nostre famiglie e comunità dobbiamo camminare, mettendo a frutto la grazia del Cibo di Dio. È necessario procedere in avanti guardando fissa la meta che è Gesù Cristo, lasciandoci attrarre dal suo Cuore. L’Eucarestia ci assimila a Lui – ecco perché è fondamentale partecipare alla Celebrazione eucaristica domenicale come famiglia e come comunità religiosa e parrocchiale – nell’Eucaristia ci vengono donati i sentimenti di Cristo per vincere la paura e la solitudine ed essere segno di un Dio che cammina con il suo popolo, conducendolo ai pascoli del Regno dei cieli per vivere in Lui per sempre. Aiutaci a continuare la nostra missione: contagiare la famiglia della buona notizia Cari lettori di Punto Famiglia, stiamo vivendo un tempo di prova e di preoccupazione riguardo il presente e il futuro. Questo virus è entrato prepotentemente nella nostra quotidianità e ci ha obbligati a rivedere i tempi del lavoro, delle amicizie, delle Celebrazioni. Insomma, ha rivoluzionato tutta la nostra vita e non sappiamo fin dove ci porterà e per quanto tempo. Ci fidiamo delle indicazioni che provengono dal Governo e dagli organi sanitari preposti ma nello stesso tempo manifestiamo con la nostra fede che “il Signore ci guiderà sempre” (cfr Is 58,11). CONTINUA A LEGGERE Tag Il Vangelo letto in famiglia ANNUNCIO 2 risposte su “La capacità di fermarsi e di vincere le nostre paure” Stupendo come sempre! Ma perchè non pubblicate il commento del padre dal sabato in modo da aiutarci a riflettere meglio sulla liturgia del giorno? In un momento di profonda paura e dubbio il Signore mi sta parlando attraverso queste parole…il bello è che l’ ho solo chiamato e lui non ha tardato a rispondermi..come sempre. Grazie… Lascia un commento Annulla rispostaIl tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *Commento Nome * Email * Sito web Per commentare bisogna accettare l'informativa sulla privacy. 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Stupendo come sempre! Ma perchè non pubblicate il commento del padre dal sabato in modo da aiutarci a riflettere meglio sulla liturgia del giorno?
In un momento di profonda paura e dubbio il Signore mi sta parlando attraverso queste parole…il bello è che l’ ho solo chiamato e lui non ha tardato a rispondermi..come sempre. Grazie…